di Gabriele Pato

IL FIUMANESIMO E LA CARTA DEL CARNARO

"La vita è bella, e degna che severamente e magnificamente la viva l'uomo rifatto intiero dalla libertà; l'uomo intiero è colui che sa ogni giorno inventare la sua propria virtù per ogni giorno offrire ai suoi fratelli un nuovo dono"

(Carta del Carnaro, art. XIV)

All’indomani della Grande Guerra e in seguito al Trattato di Versailles, che stabilendo i nuovi confini tra i due paesi aveva gettato le basi per le rivendicazioni nazionalistiche su Fiume e sulla Dalmazia, la "questione fiumana" esplose nel dibattito pubblico italiano diventando simbolo del malcontento degli ex interventisti e reduci più oltranzisti, secondo i quali, a causa dell'inettitudine del governo e della diplomazia del Regno, l'Italia non aveva visto riconosciute le proprie pretese territoriali e avesse quindi ottenuto - secondo lo slogan dannunziano - una "vittoria mutilata". Così un nutrito gruppo di ufficiali, fra cui Riccardo Frassetto e Vittorio Rusconi, si strinsero in giuramento per liberare la città di Fiume dalle truppe straniere e assicurarne l’annessione all’Italia. Alla ricerca di una guida carismatica, gli ufficiali si rivolsero senza successo all'intellettuale nazionalista Enrico Corradini, a Luigi Federzoni, al direttore de Il Secolo d'Italia Benito Mussolini e a Peppino Garibaldi. In fine decisero di inviare un pressante appello al poeta ed eroe di guerra Gabriele D’Annunzio, che, seppure affaccendato nella progettazione di un raid aereo Roma-Tokyo, accettò l’invito a comandare la spedizione di Ronchi dei Legionari (Go), punto di partenza per la conquista di Fiume, a cui partecipò una variegata coalizione di nazionalisti, mazziniani, futuristi, sindacalisti rivoluzionari e persino anarchici interventisti. Intanto, a Fiume, l'irredentista Giovanni Host-Venturi e l'esponente nazionalista Giovanni Giuriati avevano creato una milizia di volontari filo-italiani per resistere in caso di annessione jugoslava della città. Così, il 12 settembre 1919 una colonna di granatieri, bersaglieri, cavalleggeri, arditi e volontari fiumani guidati da Gabriele D'Annunzio, Guido Keller e Carlo Reina entrò a Fiume acclamata dalla folla e senza incontrare pressoché alcuna resistenza da parte delle truppe alleate. Da quel momento, fino al natale 1920, la città si trasformò in un grande laboratorio politico e sociale, in cui le istanze e le proposte politiche più moderne e radicali si fusero in una disordinata ideologia a cavallo tra anarcosindacalismo, nazionalismo fanatico ed edonismo: il cosiddetto "fiumanesimo".

L’esperienza fiumana, dunque, fu innanzitutto un crogiuolo in cui si riversarono le anime più diverse dell'opposizione al liberalismo del governo italiano e delle grandi potenze uscite vincitrici dalla Grande guerra. A Fiume confluì un’umanità così varia che molti hanno definito l’avventura fiumana il primo di tanti esperimenti libertari e antisistema degli anni Venti, dalla Berlino di Weimar alla Parigi degli anni folli, all’America del Jazz. Citando lo storico Giordano Guerri, per quasi un anno e mezzo "Fiume fu teatro di cospirazioni, feste, beffe, battaglie, amori, in un intreccio diplomatico-politico sospeso tra utopia e realtà. Militari, scrittori, aristocratici, industriali, femministe, sovversivi, politici, ragazzi fuggiti di casa, componevano l’esercito del «Comandante» inconsapevoli di quanto avrebbero influenzato l’immaginario del Novecento. Nelle luci e nelle ombre dell’Impresa ritroviamo, a distanza di cento anni, molti aspetti del mondo d’oggi: la spettacolarizzazione della politica, la propaganda, la ribellione generazionale, la festa come mezzo di contestazione, la rivolta contro la finanza internazionale, il conflitto tra nazionalismi, il ribellismo e la trasgressione. Mussolini, che a Fiume tradì d’Annunzio, saccheggiò quell’epopea adottandone la liturgia della politica di massa: i discorsi dal balcone, il dialogo con la folla, il «me ne frego», l’«eia eia alalà», riti e miti. La «Città di Vita» fu anzitutto una «controsocietà» sperimentale, in contrasto sia con le idee e i valori dell’epoca, sia – e tanto più – con quelli del fascismo." Infatti, sebbene con una certa superficialità il fiumanesimo viene presentato come un preambolo alla futura dittatura fascista, molti ex legionari fiumani divennero irriducibili oppositori di Mussolini e del fascismo, ridotti al confino o costretti a morire in esilio, come nel caso del sindacalista rivoluzionario Alceste de Ambris, ideatore della rivoluzionaria Carta del Carnaro.

La costituzione di Fiume, emanata l'8 settembre 1920, ribadiva l'italianità di Fiume e prevedeva la nascita di uno Stato rivoluzionario corporativo, racchiudendo la visione politica, poetica e filosofica del Vate. Secondo le intenzioni di D'Annunzio e dei suoi collaboratori, la Carta, espressione dell'animo degli italiani rigenerati dalla guerra, doveva instaurare un nuovo ordine fondato sul lavoro, la tutela dei diritti individuali, la giustizia sociale, la prosperità e l'idea di bellezza. La Costituzione dannunziana, in alcuni aspetti anticipatrice sia della Carta del Lavoro (1927) che della Costituzione Italiana (1947) riteneva la Reggenza del Carnaro "un governo schietto al popolo - res populi - che ha per fondamento la potenza del lavoro produttivo [...] che amplia ed innalza e sostiene sopra ogni altro diritto i diritti dei produttori". La centralità del lavoro non era vista come una mera necessità economica, ma come la massima fioritura di una società ben funzionante: "il lavoro, anche il più umile, anche il più oscuro, se sia bene eseguito, tende alla bellezza e orna il mondo". L'armonia sociale, fonte di prosperità e bellezza, fu un punto cardine del fiumanesimo: "La vita è bella, e degna che severamente e magnificamente la viva l'uomo rifatto intiero dalla libertà; l'uomo intiero è colui che sa ogni giorno inventare la sua propria virtù per ogni giorno offrire ai suoi fratelli un nuovo dono". Altri punti fondamentali della Carta sono i concetti di libertà e di uguaglianza: "La Reggenza riconosce e conferma la sovranità di tutti i cittadini senza divario di sesso, di stirpe, di lingua, di classe, di religione [...] Tutti i cittadini dello Stato, d'ambedue i sessi, sono e si sentono eguali davanti alla nuova legge [...] Le libertà fondamentali di pensiero, di stampa, di riunione e di associazione sono dagli Statuti guarentite a tutti i cittadini". Ultimo nucleo fondamentale dell'ideologia fiumana - e probabilmente il suo contributo più originale - era il corporativismo, ovvero un sistema che si ponesse come alternativa a capitalismo e marxismo. Lo Stato corporativo, ispirato alla dottrina che mira ad organizzare la colletività in base alla rappresentanza degli interessi economici e professionali, allo scopo di superare la conflittualità sociale, doveva essere costituito dal basso, dalle associazioni di lavoratori, a differenza dello Stato corporativo fascista in cui le corporazioni erano conglomerati a difesa degli interessi dei grandi industriali. La Costituzione fiumana prevedeva l'obbligo per ogni lavoratore d'iscriversi ad una delle dieci corporazioni. Ognuna di queste svolgeva il diritto di una compiuta persona giuridica riconosciuta dallo Stato (art. XX); la partecipazione individuale alla vita politica si traduceva quindi nell'elezione di un rappresentante al Consiglio provvisorio. La vita dei lavoratori si realizzava totalmente all'interno di questi organismi, ognuno dei quali decideva su tutte le questioni lavorative ed aveva i propri distintivi, canti, riti ed eroi.

Tuttavia, poche settimane dopo la pubblicazione della Carta, il 12 novembre 1920, i regni d'Italia e Jugoslavia firmarono il Trattato di Rapallo, in cui si impegnarono a rispettare l'indipendenza dello Stato libero di Fiume. Tutti i partiti politici italiani accolsero favorevolmente l'accordo stipulato. Anche Mussolini e De Ambris considerarono positivo il nuovo Trattato. D'Annunzio, invece, rifiutò il trattato fin dal primo momento. Ai tentativi di mediazione rispose con le armi, mandando i legionari a occupare le isole di Arbe e Veglia, che il trattato destinava alla Jugoslavia. Quando il Trattato di Rapallo fu ufficialmente approvato dal parlamento, il generale Caviglia mobilitò le truppe intorno alla città ed inviò un ultimatum a d'Annunzio: i ribelli dovevano ritirarsi dalla isole e accettare il trattato. Il poeta rifiutò ogni trattativa, anche quando Caviglia concesse altre 48 ore di tempo per consegnarsi alle autorità e evacuare i civili. Le truppe legionarie si arroccarono intorno alla città, creando una rete di trincee e barricate. Nel pomeriggio della vigilia di Natale, le truppe regolari sferrarono l'attacco e, nel giro di tre giorni, ripresero il controllo della città mettendo la parola fine a questo straordinario e irripetibile esperimento politico e sociale.