Gli scioperi del '43 A TORINO

di Lorenzo Balma

"Con la vittoria ottenuta grazie agli scioperi operai del marzo 1943, la classe operaia rafforzava la sua coscienza di classe paralizzando la produzione industriale bellica e metteva in rilievo la propria funzione nazionale rivelando al mondo l'esistenza di una Italia antifascista"

(Umberto Massola, coordinatore comunista degli scioperi operai a Torino)

Una pagina importante di storia della Resistenza italiana fu scritta a Torino, nella primavera 1943, quale risultato finale di lotte operaie che erano già andate avanti durante il 1942 e i primi mesi dell'anno successivo. Gli attori protagonisti furono operai delle fabbriche torinesi e piemontesi, i quali, grazie ai loro esempi di lotta, accesero un focolaio di proteste e di agitazioni che accelerò la caduta del regime fascista in Italia.

Il cuore pulsante del sistema che alimentava la guerra erano le fabbriche e più in particolare le fabbriche dentro e attorno i maggiori centri del nord: Torino, Milano, Genova, rappresentanti il triangolo industriale italiano, garantivano infatti parte consistente delle risorse belliche. Dall'autunno del 1942 questo nocciolo produttivo venne progressivamente messo in difficoltà dai bombardieri americani e inglesi (siamo infatti nei mesi precedenti all'armistizio), che distrussero oltre le strutture delle fabbriche, anche le infrastrutture limitrofe come ponti e strade, facendo sfollare la popolazione e costringendola alla fame. Tra il 5 e il 17 marzo 1943 alcune delle più importanti fabbriche torinesi vennero bloccate da una protesta che coinvolse 100.000 operai torinesi.

La scintilla scattò dopo l’emanazione di un provvedimento di indennità straordinaria per i lavoratori sfollati (la concessione di 192 ore di paga), provocando la reazione di quelli non sfollati che iniziarono a chiedere l’assegnazione delle 192 ore per tutti. Alle 10 in punto di ogni mattina, nelle fabbriche torinesi, risuonava la sirena della prova di allarme antiaereo. Era questo il segnale concordato dagli operai per l'inizio delle agitazioni dei lavoratori che, insieme alla concessione dell’indennità di sfollamento, chiedevano anche l’aumento del salario e del razionamento, indennità di caro-vita, assistenza agli sfollati, nuove abitazioni per le famiglie senza tetto a causa dei bombardamenti, possibilità di lasciare le fabbriche e riunirsi ai familiari in caso di allarme aereo. Dietro alle rivendicazioni economiche, le agitazioni presentavano un chiaro intento politico: porre fine della guerra e provocare il crollo del fascismo.

La cronaca dello sciopero deve essere inserita in un contesto di totale spontaneità da parte degli operai delle fabbriche torinesi e piemontesi, che senza l'ombrello organizzativo di sindacati o partiti (dichiarati fuori legge), si dovettero affidare all'organizzazione degli scioperi tramite passaparola, copie di giornali (giravano infatti copie clandestine de L'Unità) o volantini clandestini.

Il 1 marzo, un lunedì, uno sciopero programmato dagli operai specializzati nelle officine ausiliarie dello stabilimento FIAT di Mirafiori non produsse però l'effetto desiderato, giacché rimase limitato a Mirafiori e non si propagò nelle altre fabbriche della città. A seguito dello sciopero vennero licenziati alcuni operai. Il 5 marzo la direzione di Mirafiori ordinò di non azionare la sirena antiaereo, ma questo non impedì che alcuni reparti della fabbrica si fermassero ugualmente. Anche se l'allarme dello sciopero rientrò, secondo quanto ci riportano i documenti del sindacato fascista, il rapidissimo passaparola in città durante la mattinata, non impedì che alcuni reparti di due stabilimenti della Rasetti insorgessero, provocando anche l'intervento della polizia, che arrestò una decina di lavoratori. Sabato 6 marzo furono invece gli operai della Microtecnica a fermare la fabbrica, mentre la breve pausa della domenica favorì ulteriormente la comunicazione tra gli operai, che rimase sempre controllata dalla polizia fascista. L'8 marzo gli scioperi si estesero in tutta la città. Tra le fabbriche coinvolte vi furono le Ferriere, l'Aeronautica, la FIAT Ricambi, la Zenith. Circa 30 operai furono segnalati, licenziati e arrestati.

Ormai la pratica di lotta dello sciopero incominciava a funzionare da sola mentre la città era in fermento: giovedì 11 marzo si arrivava all'arresto totale delle attività in alcune officine della FIAT. Il 12 marzo si unirono agli operai anche i tramvieri torinesi, che chiedevano anche loro l'assegnazione delle 192 ore. La settimana successiva, che iniziò il 15 marzo, fu caratterizzata da un'ulteriore allargamento del raggio dello sciopero, coinvolgendo le fabbriche della cintura di Torino (ricordando in particolare le agitazioni a Savigliano), ma arrivando anche alle aree del pinerolese e dell'astigiano. Particolarmente scandaloso, per il regime e per la dirigenza FIAT, fu lo sciopero che si protrarrà per più giorni alla RIV di Villar Perosa, paese di origine del senatore e proprietario FIAT Giovanni Agnelli. Il 17 marzo si registrò l'ultimo giorno di sciopero a Torino, permettendo così di riprendere il lavoro nelle fabbriche.

Sull'onda di Torino e delle province piemontesi (a Cuneo o ad Alessandria gli scioperi si prolungarono per tutto marzo) lo sciopero arrivò anche a Milano. Lo sciopero indetto dai lavoratori della Falck di Sesto San Giovanni, si estese anche ai grandi stabilimenti della Pirelli e della Borletti, su immagine delle esperienze operaie di Torino. Di lì a poco l'afflato di lotta si propagherà anche in Veneto e in Emilia, oltre che tornare in Piemonte nei lanifici del biellese e nelle fabbriche del vercellese, per poi terminare in tutto il Nord Italia verso la metà di aprile 1944.