di Luca Mattei

LA CRISI DEI GRANDI LAGHI


La triste e celebre “Crisi dei Grandi Laghi” del 1994 trova la sua radice nell’altrettanto tragico “Genocidio del Ruanda”, verificatosi nello stesso anno.

Brevemente, in Ruanda e nei paesi limitrofi, come il Burundi, era sempre esistita una convivenza, perlopiù pacifica, fra etnie diverse. In Ruanda, in particolare, conviveva una grande maggioranza etnica di Hutu e una minoranza etnica di Tutsi (20% circa della popolazione totale). Questi diversi gruppi convivevano insieme senza troppi problemi: si sposavano fra di loro, avevano la stessa religione e lo stesso stile di vita. La situazione cambiò drasticamente verso la fine del XIX sec., quando il re Tutsi Rwabugiri cominciò a imporre una differenziazione delle due classi dominanti, privilegiando la propria etnia Tutsi a scapito della maggioranza Hutu. All’inizio del Novecento, il Ruanda venne colonizzato da parte della Germania e successivamente si instaurò un Protettorato sotto l’egida del Belgio, ma la situazione per gli Hutu non migliorò: i coloni, infatti, favorirono le politiche classiste dell’aristocrazia Tutsi, consolidandone il dominio. Nel 1959, dopo decenni di soprusi, gli Hutu riuscirono a liberarsi dalla pesante autorità dei Tutsi, dopo due anni di continue ribellioni, estromettendo i loro rivali dal governo.


Con la ribellione la monarchia venne ripudiata e si instaurò una repubblica; tuttavia, l’apertura alla democrazia non riuscì a spegnere l’acceso contesto di rivalità e odio etnico tra la comunità Hutu stessa e quella dei Tutsi, che continuerà a insanguinare la regione ancora per molto tempo. Si aprí uno spiraglio verso la pace solo negli anni 90’. Il 4 agosto 1993, con una forte sponsorizzazione delle Nazioni Unite, furono firmati degli accordi di pace tra le forze governiste Hutu e le forze di resistenza dei Tutsi, guidate dal “Fronte Patriottico Ruandese” o “FPR”.


Tuttavia la situazione, apparentemente in via di risoluzione, precipita drammaticamente il 6 aprile del 1994, quando un missile terra-aria di origine ignota colpì l’aereo dove viaggiava il presidente Hutu del Ruanda, Juvénal Habyarimana e il presidente del Burundi, Cyprien Ntaryamira. Questo episodio riaprí la frattura appena sanata: le milizie Hutu, aizzate da alcuni leader locali e da una stazione radio che trasmetteva messaggi di odio razziale contro i Tutsi, da il via a quello che è conosciuto come “Genocidio del Ruanda”, dove nell’arco di 100 giorni più di 800.000 persone, fra Tutsi e pacifisti Hutu, vennero massacrati dalle milizie.


Le violenze e il terrore diedero vita a un gigantesco esodo: almeno 1 milione di persone scapparono negli Stati limitrofi, mentre mezzo milione fuggiva verso altre zone del Ruanda. Un’operatrice umanitaria, Maureen Connelly, stazionata in quei giorni al Ponte Rusumo, al confine tra Ruanda e Tanzania, riporta l’inizio della crisi: “Abbiamo guardato verso le colline ruandesi e non c’erano nient’altro che persone. Le colline erano coperte dalla folla. L’intero paesaggio africano era ricoperto di persone, tutte dirette nella nostra direzione”.


Il massacro terminò a luglio: con l’aiuto delle forze francesi della c.d. “Operazione Turchese”, le forze Tutsi del “FPR” sconfiggono le truppe governiste e si pongono nuovamente alla guida del paese. Per la seconda volta la situazione sembrava essere sulla strada della risoluzione. Eppure l’emorragia di uomini, donne e bambini in fuga dalle violenze non si arrestò: il ritorno al potere dei Tutsi coincise con l’inizio di un secondo grande esodo, questa volta di Hutu, timorosi di subire rappresaglie da parte del nuovo governo.


Così si aprì il secondo capitolo della tragedia: queste grandi masse popolari si rifugiano in 35 campi profughi disseminati in tutta la regione centro-africana (Burundi, Tanzania e Zaire). I campi di maggiori dimensioni e più problematici erano localizzati nei pressi della città di Goma, capoluogo della provincia del Nord Kivu in Zaire e in prossimità della zona dei Grandi Laghi.


Questo insediamento dalle dimensioni eccezionali (850.000 persone circa) diventò con il tempo una delle principali basi militari della resistenza e della dirigenza Hutu, ormai in esilio dopo il ritorno al potere dei Tutsi.


Le agenzie delle Nazioni Unite e le ONG che intervennero per prestare soccorso ai profughi si trovarono di fronte a una situazione estremamente difficile e complessa. Goma era una piccola cittadina di meno di 20.000 abitanti: non aveva le risorse necessarie per poter ospitare o anche solo aiutare efficacemente i profughi nei campi. Inoltre, il terreno di origine vulcanica, molto duro e difficile da scavare, rese fin da subito la vita difficile ai profughi e ai loro insediamenti d’emergenza. Anche la comunità internazionale commise diversi errori: le varie organizzazioni giunte in soccorso non agirono in coordinazione, con il risultato che alcune zone del campo rimanevano delle volte senza acqua, medicine, cibo o altri servizi; mentre in altri punti del campo i servizi erano inutilmente maggiori alle necessità. La mancanza di servizi igienici portò, solo nei primi mesi, alla morte di almeno 50.000 persone per disidratazione, colera o meningite. Altri ancora morirono di morte violenta, per i disordini all’interno del campo. Gli stessi operatori umanitari riportarono di essere stati minacciati dalle milizie Hutu dell’”Interhamwe” presenti nel campo e di non potere inoltrarsi nel campo senza rischiare la vita.


Nel complesso, la c.d. “Crisi dei Grandi Laghi” fu fonte di grandi polemiche per gli attori internazionali coinvolti nelle operazioni di soccorso, ma fu anche fonte di diversi spunti di riflessione e, forse, di una bella eredità. Fino a quel momento le organizzazioni internazionali umanitarie erano solite intervenire senza coordinazione e senza adozione di standard minimi; con alcune eccezioni, come la Croce Rossa Internazionale. Dopo il disastro di Goma ci si rese conto dell’importanza di garantire un minimo standard qualitativo all’azione umanitaria. Conseguentemente, nasce nel 1997 lo Sphere Project, un movimento globale che sostiene la necessità di garantire un minimo standard di qualità e professionalità all’azione umanitaria alla quale, oggi, aderiscono la maggior parte delle ONG mondiali.


LETTURE E APPROFONDIMENTI:


Ray Wilkinson, Refugees Magazine Issue 110 (Crisis in the Great Lakes) - Cover Story: Heart of Darkness.