Dal sito «instArt»
Alessandra Kersevan
(Kappa Vu Edizioni, 2025)
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Udine, 7 ottobre 2025 – Kappa Vu Edizioni annuncia l’uscita di un volume destinato a riaprire un dossier centrale della storia italiana: “PORZÛS 1945. Prove di Gladio sul confine orientale – L’ultima inchiesta” di Alessandra Kersevan.
Con 1104 pagine di documenti, analisi e ricostruzioni, il libro propone una lettura radicalmente nuova della vicenda di Porzûs, mettendo in relazione i fatti del 7 febbraio 1945 sul Topli Uorch con la genesi delle pratiche d’infiltrazione, delle false flag e della manipolazione propagandistica che segneranno la Guerra fredda in Italia. L’opera esce nella collana Resistenza Storica ed è disponibile dall’8 ottobre.
Per decenni la narrazione dominante ha presentato Porzûs come uno scontro fratricida tra “traditori” comunisti e “patrioti” osovani. L’ultima inchiesta di Kersevan rimette in discussione questo impianto, mostrando come i fatti friulani non siano un episodio isolato, ma un crocevia di interessi militari e politici in cui agiscono, in modo palese e occulto, resistenze “bianche”, apparati della RSI e della Xª MAS, nazisti in ritirata, monarchia sabauda, ambienti nazionalisti, del CLN e del CVL, servizi segreti italiani, tedeschi, britannici e statunitensi. In questa prospettiva, Porzûs diventa anticipazione di Guerra fredda in tempo di guerra “calda”: le tecniche di infiltrazione, la segretezza operativa e la costruzione del consenso tramite narrazioni semplificate emergono come la preistoria di Gladio, non una sua giustificazione postuma.
Muovendosi tra carte processuali, materiali d’archivio e testimonianze, l’autrice ricostruisce come la lettura binaria “rossi contro bianchi” sia stata funzionale a un “fronte unico” antigaribaldino e antislavo, attivo su quel “confine orientale”, dove convergono i principali snodi geopolitici dell’Europa in transizione, dalla sconfitta del nazifascismo alla contrapposizione dei due blocchi, quello occidentale guidato dagli Stati Uniti e quello orientale sotto l’influenza sovietica.
Le dinamiche e i personaggi che il libro porta alla luce – dalle operazioni coperte alla fabbricazione del nemico interno – non si esauriscono nell’immediato dopoguerra, ma risuonano a lungo nella storia repubblicana. Dai progetti golpisti di Junio Valerio Borghese e di Edgardo Sogno, al “Piano Solo” del generale De Lorenzo, fino alle manovre di James Jesus Angleton e alle reti occulte della P2, riemerge un filo nero che da Porzûs attraversa decenni di strategia della tensione.
Perché questo libro adesso? A ottant’anni dai fatti, Porzûs 1945 offre al dibattito pubblico e alla comunità scientifica uno strumento di lavoro di ampiezza inusuale, che invita a superare la vulgata sedimentata e a riesaminare il rapporto tra memoria, giustizia e verità storica. L’indagine illumina la zona grigia tra apparati statali, milizie collaborazioniste e soggetti politico-militari eterogenei, mostrando come mezzi e fini del tardo fascismo abbiano dialogato – talora in continuità – con pratiche atlantiche di guerra psicologica e “controinsurrezionale” nella costruzione della democrazia italiana del dopoguerra. Il risultato è un racconto che collega microstoria locale e macrostoria internazionale, offrendo strumenti di comprensione anche per il presente.
Il volume non è soltanto destinato a specialisti e ricercatori: la chiarezza espositiva e la vastità della documentazione lo rendono uno strumento prezioso anche per docenti, studenti, operatori culturali e per tutti i lettori interessati a comprendere in profondità la storia contemporanea. Per taglio e ampiezza, Porzûs 1945 diventa un riferimento per chi studia la Resistenza, gli apparati di sicurezza, l’intelligence, la propaganda e i processi di costruzione della memoria pubblica.
Questa vocazione alla divulgazione si riflette anche nelle prime presentazioni pubbliche del libro, momenti pensati non solo come incontri di lancio editoriale, ma come occasioni di confronto, di didattica civile e di public history rivolte a un pubblico ampio e partecipe.
L’autrice
Alessandra Kersevan si è laureata all’Università di Trieste con una tesi sulla politica del partito comunista durante la Resistenza. Ha insegnato materie letterarie e storia nella scuola secondaria. Si è occupata inoltre di musica popolare italiana e di culture e lingue di minoranza, organizzando e partecipando a lavori editoriali, video e spettacoli sulla musica, la storia e la letteratura in lingua friulana. Ricercatrice storica ed editrice, da anni si dedica allo studio della storia del Novecento con particolare riferimento alla Resistenza italiana ed europea durante la Seconda guerra mondiale, pubblicando una serie di saggi sulle politiche repressive sviluppate dal fascismo nelle regioni di confine e durante l’aggressione alla Jugoslavia del 1941. È coordinatrice della collana “Resistenza Storica” delle edizioni Kappa Vu, e svolge un’intensa attività di conferenze in scuole, istituti, circoli culturali, centri sociali e biblioteche in tutta Italia.
Inserito il 26/10/2025.
Dal sito di «Wu Ming»
di Nicoletta Bourbaki*
Un convoglio di esuli istriani dileggiato dai ferrovieri «rossi». Un episodio ambientato nel 1947, ma che non ha riscontro in nessuna fonte dell’epoca e ha preso la sua attuale forma soltanto nel XXI secolo.
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1947, il «treno della vergogna» a Bologna: una storia senza fondamento
di Nicoletta Bourbaki*
Un convoglio di esuli istriani dileggiato dai ferrovieri «rossi». Un episodio ambientato nel 1947, ma che non ha riscontro in nessuna fonte dell’epoca e ha preso la sua attuale forma soltanto nel XXI secolo.
Prima parte
1. Filmati falsi fatti con l’IA e vecchie fantasie di martirio
Da alcune settimane circola un video intitolato Il treno della vergogna. Lo si può reperire facilmente su YouTube ma preferiamo descriverlo, riportando in corsivo il testo letto dalla voce narrante.
Il video si apre sulle note di una musica drammatica, sembra un quartetto d’archi. Scorrono uno dopo l’altro vari filmati “d’epoca”. Un treno a vapore arriva in una stazione. Una voce impostata, mesta ma decisa, comincia subito a raccontare:
18 febbraio 1947: un treno merci arriva a Bologna, sotto il gelo dell’inverno. Dentro, donne, bambini, anziani. Si vedono donne, bambini e anziani sulla paglia dentro un carro merci.
Sono italiani, in fuga dall’Istria, dalle foibe, dalla fame. Un filmato mostra una famiglia che abbandona a piedi una città in fiamme.
Hanno affrontato un viaggio disperato. Li aspettano pasti caldi preparati dalla Croce rossa. Stacco su una cucina da campo.
Ma ad accoglierli c’è l’odio. Nuovo stacco, carrellata su un picchetto operaio. Un cartello compare per un momento in primo piano. C’è scritto:
«TO NOO TCNCOCTNJ INC NNDWAI DOWINO FACCISTS! FAFIASTI INNIFACAS».
Dai microfoni voci sindacali minacciano lo sciopero. Li chiamano fascisti. Dai marciapiedi volano sassi, pomodori. Gente scende dal treno sotto una gragnuola di sassi.
Il latte per i bambini versato con disprezzo sulle rotaie. Un tizio versa del latte sui binari da una grande bigoncia di alluminio. Zoom sulla mezza figura di una madre dal volto disperato.
Il treno riparte, umiliato. Solo a Parma troveranno assistenza. Quel convoglio è passato alla storia come il treno della vergogna. Un treno parte dalla stazione. Sulla fiancata, a caratteri cubitali, c’è scritto: «VERGOGNA».
Perché l’Italia quel giorno voltò le spalle ai suoi figli.
Fine.
Il video utilizza immagini e filmati generati digitalmente in modo da sembrare “autentici”. In questo caso l’utilizzo dell’IA è dichiarato mediante una scritta, e il lavoro è grezzo, come dimostrano le scritte senza senso sui cartelli. Tuttavia, l’estrema facilità e rapidità con cui, grazie all’IA generativa, si possono confezionare falsi storici – non dichiarati e ben più convincenti di questo – pone enormi problemi alla storiografia di oggi e ancor più ne porrà a quella di domani.
Lo scrisse già Marc Bloch ormai più di ottant’anni fa: «tra tutti i veleni capaci di viziare una testimonianza, l’impostura è il più virulento». E quanto a carica virale, rispetto al 1940-43 l’impostura ha fatto passi da gigante.
È necessario attrezzarsi, senza lasciarsi travolgere, senza ansie. «Quando tutto accade veloce, impara a essere lento», diceva il personaggio di un romanzo. Sulle sfide che ha di fronte il metodo storiografico nell’epoca dell’IA stiamo riflettendo fittamente e coi nostri tempi ne scriveremo.
Ma andiamo ora al contenuto del video in questione, alla storia che la voce fuori campo ci narra.
2. Giornali, questura, prefettura: negli archivi nessuna traccia
L’episodio, prima di ridursi a un prompt da far processare a un software, era già diventato nel corso dei decenni uno degli eventi canonici della narrativa sull’esodo istriano.
In questa storia, tuttavia, l’unica cosa di cui è possibile trovare un riscontro documentato da fonti coeve è la sosta a Bologna, il 18 febbraio 1947, di un treno che trasportava diverse centinaia di profughi istriani in viaggio da Ancona a La Spezia.
Su «L’Avvenire d’Italia», quotidiano cattolico stampato a Bologna – in seguito sarebbe diventato semplicemente «l’Avvenire» – il 20 febbraio compare un trafiletto che riporta la seguente notizia:
Transitati da Bologna altri 2200 profughi di Pola.
Affettuosa assistenza della P.C.A.
Ieri sono passati dalla nostra Stazione diretti in varie città circa 2200 profughi di Pola. Accolti sempre dalla Commissione Pontificia e ristorati con vivande calde hanno proseguito il loro viaggio. Tutti sono gratissimi della accoglienza che loro riserva il Posto di Ristoro della Pontificia Commissione Assistenza. È sempre pressante l’invito per aiuti al Posto di Ristoro della Commissione Pontificia per poter dare ai fratelli di passaggio una accoglienza degna del loro grande sacrificio.
In tutto il mese di febbraio nessun giornale locale riporta notizie di disordini alla stazione di Bologna. Non c’è niente su «l’Avvenire d’Italia», né sul «Progresso d’Italia» e nemmeno sul «Giornale dell’Emilia», nome provvisorio, adottato in attesa che si calmassero le acque, del «Resto del Carlino», testata troppo associata al collaborazionismo filonazista.
«L’Avvenire d’Italia» del 7 febbraio riporta in prima pagina la notizia di uno sgarbo dei ferrovieri di Vercelli, che non hanno permesso l’apposizione di striscioni di benvenuto ai profughi presso il punto di ristoro allestito nella stazione dalla Pontificia commissione di assistenza.
È dunque molto probabile che, se a Bologna si fossero svolti episodi analoghi o addirittura più eclatanti, il giornale ne avrebbe parlato. A maggior ragione ne avrebbe parlato l’anticomunista «Giornale dell’Emilia».
È poi addirittura certo che, se vi fossero state contestazioni violente – o anche pacifiche – nei confronti dei profughi, ve ne sarebbe traccia negli archivi della Questura e della Prefettura, dove invece non risulta nulla.
I giornali dell’epoca li abbiamo consultati direttamente, mentre per le ricerche d’archivio in Questura e Prefettura facciamo riferimento alla tesi di laurea magistrale di Alberto Rosada intitolata The reception of the Istrian-Dalmatian refugees between history and memory, compilata sotto la supervisione della professoressa Giulia Albanese, che ci ha fornito molte conferme e ulteriori spunti per l’indagine.
La storia del «Treno della vergogna», raccontata proprio come nel video descritto sopra, è ritenuta praticamente da tutti un fatto storico acclarato. Talmente acclarato che quasi nessuno ha ritenuto di dover cercare riscontri nelle fonti coeve.
Ovviamente il cantante Simone Cristicchi l’ha inserita nel suo show Magazzino 18, insieme ad altri eventi “canonici” in cui la fantasia ha abbondantemente sopperito alla mancanza di fonti storiche.
Eppure, di quella storia non esistono tracce anteriori al 1957. Nemmeno nella pubblicistica di nicchia dell’associazionismo esule. E nel mainstream nazionale compare per la prima volta soltanto nel 1991.
Per ricostruire la genesi di questo mito dobbiamo fare un salto indietro nel tempo e spiegare per sommi capi cosa stesse accadendo a Pola nel 1947.
3. Pola 1947
Dopo la liberazione dal nazifascismo, avvenuta il 5 maggio 1945 ad opera dell’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia, Pola fu amministrata fino al 12 giugno dai poteri popolari instaurati dal partito comunista jugoslavo.
In seguito agli accordi di Belgrado tra jugoslavi e angloamericani, la città passò sotto il GMA, Governo Militare Alleato, insieme a Gorizia e Trieste.
Dopo l’arrivo degli alleati, nel giugno del 1945, fu fondato il CLN, Comitato di Liberazione Nazionale di Pola, di cui facevano parte democristiani, socialisti, liberali e azionisti, in contrapposizione ai comunisti che partecipavano invece all’UAIS, Unione Antifascista Italo-Slava, di orientamento filo jugoslavo.
A un lettore italiano l’espressione CLN richiama alla mente la lotta al nazifascismo nel periodo tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945, ma quando ci si riferisce all’Istria la risonanza è fuorviante. Il CLN di Pola non nacque nella lotta contro il nazifascismo, ma solamente dopo la liberazione, in contrapposizione alla linea filojugoslava dei comunisti.
L’amministrazione angloamericana durò fino al 1947, quando fu firmato (10 febbraio) ed entrò in vigore (15 settembre) il trattato di Pace di Parigi, che assegnò Gorizia all’Italia e Pola alla Jugoslavia, e istituì il Territorio Libero di Trieste, sottoposto alla sovranità dell’ONU e diviso in due zone, una amministrata dagli angloamericani e una dagli jugoslavi.
Ricordiamo en passant che nei Balcani l’Italia aveva perso la guerra che essa stessa aveva cominciato insieme alla Germania nel 1941, invadendo la Grecia e la Jugoslavia. Aveva perso anche la guerra dichiarata a Francia e Regno Unito nel 1940, quella dichiarata all’Unione Sovietica nel 1941 e quella dichiarata agli USA sempre nel 1941. A Parigi dunque si presentò alle trattative da paese sconfitto, e in quanto tale subì perdite territoriali sia sul confine occidentale sia su quello orientale, e perse tutte le colonie.
A Pola il biennio 1945/47 fu un periodo torbido, ben descritto da Gaetano Dato nel suo libro Vergarolla 18 agosto 1946. Gli enigmi di una strage tra conflitto mondiale e guerra fredda, ed. LEG, 2014. In città si fronteggiavano a viso scoperto i militanti filoitaliani e quelli filojugoslavi, e a viso coperto i servizi segreti angloamericani, jugoslavi e italiani. Erano inoltre presenti sul territorio diversi gruppi armati: ex partigiani comunisti, antifascisti italiani antijugoslavi e/o anticomunisti, e fascisti irriducibili.
Il giorno stesso della firma del trattato di pace il generale Robert de Winton, comandante delle forze britanniche a Pola, fu ucciso a colpi di pistola da Maria Pasquinelli, un’ex agente dell’intelligence della X MAS. Di lei e del suo ruolo nel raccogliere e diffondere leggende nere sulle foibe del 1943 abbiamo scritto a proposito del caso di Norma Cossetto.
Già nella tarda primavera del 1946 era ormai chiaro a tutti che la città sarebbe passata alla Jugoslavia, e il governo italiano, di concerto con il CLN di Pola e con la Pontificia Commissione di Assistenza, cominciò a organizzare l’evacuazione della componente italiana della città.
Non indagheremo qui le complesse dinamiche sociali, politiche, economiche e anche psicologiche che portarono alla partenza da Pola di quasi 30mila abitanti – quasi tutti italiani – sui circa 40mila totali. A chi fosse interessato ad approfondire l’argomento, consigliamo di cominciare dal volume Storia di un esodo. Istria 1945-1956, Istituto regionale per la storia del Movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia, Trieste 1980.
Riteniamo però importante sottolineare che non si trattò di una fuga rocambolesca di persone incalzate da un nemico in armi, come suggerisce il filmato fake che abbiamo descritto all’inizio di questo post. Si trattò invece di un’evacuazione ordinata, organizzata dal governo italiano – prima le masserizie e poi le persone –, con partenze regolari di grosse navi e liste di imbarco a cui i cittadini che volevano partire dovevano iscriversi.
Il grosso delle operazioni si svolse nei mesi di febbraio e marzo. I trasbordi di massa cominciarono già prima della firma del trattato di pace, e si conclusero con largo anticipo rispetto al passaggio di consegne tra angloamericani e jugoslavi, che avvenne solo in settembre.
Quasi metà dei profughi furono trasportati in Italia sul piroscafo Toscana, che compì in tutto dieci viaggi, sette da Pola a Venezia e tre da Pola ad Ancona. Altri profughi furono trasportati a Trieste sulle navi Pola e Grado, e altri ancora si mossero su navi più piccole o con mezzi propri.
Nel periodo che interessa a noi, quello tra il 15 e il 21 febbraio, il Toscana fece due viaggi: il 16 febbraio trasportò circa 2200 profughi ad Ancona, e il 21 febbraio trasportò circa 1000 profughi a Venezia.
L’episodio del passaggio del treno alla stazione di Bologna il 18 febbraio si riferirebbe ai profughi che partirono da Pola il 16 mattina e arrivarono ad Ancona la sera di quel giorno.
4. 1957, «Il PCI assaltò il treno degli esuli!!!!!»
Abbiamo appurato che sulla stampa locale bolognese di qualsiasi orientamento politico, in tutto il mese di febbraio (e marzo) non c’è il minimo riferimento a episodi di contestazione nei confronti degli esuli. Abbiamo dunque consultato «l’Arena di Pola», giornale che all’epoca esprimeva le posizioni del CLN di Pola e successivamente divenne giornale di riferimento delle associazioni degli esuli.
Nell’edizione cartacea del giornale da febbraio a settembre 1947 non abbiamo trovato nessuna traccia dell’episodio in questione.
Le annate dal 1948 in avanti sono tutte digitalizzate e consultabili online. Utilizzando il motore di ricerca interno abbiamo trovato il riferimento più antico all’episodio della stazione di Bologna: si tratta di un articolo di Lino Vivoda apparso il 13 febbraio del 1957, nel decennale del trattato di pace.
Vivoda è stato per decenni uno dei principali animatori dell’associazionismo esule. L’articolo è notevole, perché l’autore esprime un sostanziale apprezzamento per il gesto di Maria Pasquinelli – l’assassinio del generale de Winton – rammaricandosi solo del fatto che si fosse trattato di un disperato gesto individuale a cui non seguì la necessaria ribellione generalizzata. Scrive Vivoda:
«Fu così che la mattina del 10 febbraio 1947 Maria Pasquinelli, mentre a Parigi si preparava la cerimonia della firma del trattato di pace con la Italia, sparava contro il Brigadier Gen. De Winton comandante la 13.a Brigata inglese di fanteria uccidendolo davanti alla truppa schierata per l’ispezione. Parecchi erano disposti prontamente a rispondere a quel rabbioso gesto tendente ad attirare l’attenzione mondiale sull’infame baratto che si stava perpetrando; altri giurarono di far sì che al momento della consegna agli slavi della città non rimanesse che un cumulo di macerie. Ma la polizia anglo-americana vigilava e prima col coprifuoco immediatamente imposto, poi con minacce, ricatti, allontanamenti a viva forza dei sospetti la resistenza che s’andava organizzando fu stroncata nè alcun successo potevano avere atti singoli che l’organizzazione di una qualche resistenza se non coordinata da un’unico comando non poteva avere alcun successo come era stato ampiamente dimostrato dalla guerra appena conclusasi.»
Più avanti Vivoda prosegue:
«Intanto in Italia ci attendeva l’ostilità delle orde social-comuniste aizzate dai capicellula secondo le direttive del partito e fuorviate nei nostri confronti da quella che era la realtà delle velenose corrispondenze dello inviato dell’Unità milanese Tommaso Giglio.»
Poi si lancia in una concione con toni dichiaratamente da guerra santa:
«Ognuno di noi, come un novello crociato con la sua sola presenza contribuiva alla missione di disintossicare l’Italia dal veleno comunista. E fummo ancora noi che per primi rialzammo il tricolore, noi che portandolo stretto al collo quando ancora il rosso predominava nelle contrade di Italia dove ci disperdemmo, e fu un bene nella sventura perchè così tutti poterono constatare che l’esodo non era propaganda ma dolorosa realtà, gridammo in faccia a tutti che alla Patria non si rinuncia.»
Infine, ecco il riferimento cercato:
«Allora, quando le masse rosse di Ancona accorrevano al molo dove attraccava il Toscana per fischiarci e le truppe erano schierate non per renderci un qualche saluto ma per proteggerci; allora, quando il treno merci sul quale viaggiavamo veniva smistato sui sperduti binari delle grandi stazioni affinché nessuno si accorgesse di noi ed a Bologna dove la P.C.A. aveva preparato qualche bevanda calda per ristorarci, di fronte alla minaccia di uno sciopero per causa nostra, fummo fatti proseguire in fretta e furia senza alcuna sosta, e si viaggiava già da una ventina di ore sulla paglia, noi, travagliati dalle nostre peripezie ed angosciati dal ricordo dei focolari abbandonati, di fronte allo spettacolo che ci si presentava, ed allo stato in cui era ridotta l’Italia disperavamo dell’avvenire. Né si pensava che un giorno avremmo potuto dire con fierezza: il nostro sacrificio non fu vano, perdemmo la nostra amata città, ma contribuimmo a salvare l’Italia!»
Osserviamo subito che non si parla di pietre e uova lanciate contro il treno, né di latte versato sui binari. Si parla solo della minaccia di uno sciopero e di una sosta mancata.
Come si nota, «l’Avvenire d’Italia» smentisce indirettamente anche quest’ultima circostanza, riferendo invece di una regolare sosta del treno a Bologna e di una calorosa accoglienza dei profughi con bevande calde da parte della Pontificia commissione.
Quanto alle truppe schierate sul molo di Ancona per proteggere i profughi dalle «masse rosse», la circostanza non trova nessun riscontro né sulla «Voce Adriatica» (giornale di Ancona), né sul «Giornale dell’Emilia», né sulla stessa «Arena di Pola», che riferiscono invece di un’accoglienza quasi trionfale per i profughi al momento dello sbarco, con le autorità ad attenderli in prima fila.
Fino alla fine del ventesimo secolo Vivoda risulta essere l’unico testimone diretto dell’episodio di Bologna.
Dopo l’articolo del 1957 torna a scriverne altre due volte sull’«Arena», il 25 settembre 1982 e il 7 febbraio 1987, senza aggiungere dettagli significativi.
5. 1991, Magris traghetta la storia nel mainstream
La storia del «treno della vergogna» arriva nel mainstream solamente negli anni Novanta.
A fare da traghettatore, nell’estate del 1991, è lo scrittore triestino Claudio Magris, nella veste di corsivista del «Corriere della Sera».
Il momento è particolare: si è da poco conclusa la prima guerra del golfo, l’Unione Sovietica è appena stata sciolta da Boris Eltsin e la Jugoslavia sta precipitando rapidamente verso la guerra civile, mentre tutti i paesi europei, Italia compresa, si preparano ad affondare voluttuosamente le mani nelle sue frattaglie.
Il 31 agosto Magris scrive sul «Corriere della Sera» uno strano articolo intitolato Quando le foto parlano d’infamia. L’articolo analizza tre episodi, ma è corredato da due foto soltanto. Il primo episodio è appena avvenuto: si tratta dell’umiliazione inflitta da Eltsin a Gorbaciov dopo il fallito golpe ordito dalla vecchia guardia del PCUS contro il padre della Perestrojka. Una delle due foto si riferisce proprio a questo episodio.
Il terzo episodio analizzato da Magris è la morte di Libero Grassi, ucciso dalla mafia nell’estate del ‘91 perché si era rifiutato di pagare il pizzo. L’altra foto che accompagna l’articolo mostra il corpo dell’imprenditore riverso a terra.
Il secondo episodio, incastrato a forza tra gli altri due e, a dispetto del titolo, privo di foto che lo illustrino, risale invece al 1947: è l’episodio del «treno della vergogna». Scrive Magris:
«FEBBRAIO ’47. La nave Toscana compie più di un viaggio attraverso l’Adriatico per trasportare gli italiani di Pola che abbandonano in massa, con un esodo pressoché totale, la loro città occupata dagli jugoslavi, in un clima di intimidazione, di vendetta e di violenza nazionalista che li spinge a lasciare tutto e a prendere la via dell’esilio e dei campi profughi.»
Facciamo notare che nel febbraio del 1947, e fino al settembre dello stesso anno, Pola non è occupata dagli jugoslavi, ma dagli angloamericani. Magris prosegue:
«La nave li sbarca ad Ancona ed essi, ancora storditi dalla calamità che li ha divelti, vengono caricati su un treno con le famiglie, i loro vecchi e i loro bambini, le masserizie che sono riusciti a portarsi dietro. A Bologna, alla stazione, è stato preparato per loro, da qualche opera assistenziale religiosa, un ristoro. I ferrovieri comunisti, mobilitati insieme ad altri militanti dalle organizzazioni di partito, impediscono a quella gente raminga di scendere dal treno e di mangiare qualcosa, minacciando di bloccare con uno sciopero il più importante nodo ferroviario d’Italia se il treno si fermerà troppo a lungo nella stazione.»
Infine Magris conclude parlando di fischi ad Ancona:
«Già allo sbarco ad Ancona, come poco dopo a Bologna, quei fuggiaschi senza tetto erano stati accolti con fischi, insulti e qualche rissa. Agli occhi dei loro aggressori erano fascisti, perché lasciavano il Paradiso in Terra, un paese comunista, e quindi, come Adamo ed Eva scacciati dall’Eden, dovevano avere buoni motivi per esserne colpevolmente indenni. Appena ventiquattro ore dopo, alla stazione di Parma, arrivarono alcune provviste portate dai militari.»
Si tratta sostanzialmente del racconto di Vivoda, scritto un po’ meglio. Non si parla ancora di sassate, né di latte versato sui binari. Per quello bisognerà attendere il nuovo secolo.
(1/2. Continua).
Nicoletta Bourbaki*
* Nicoletta Bourbaki è un gruppo di lavoro sul revisionismo storiografico in rete, sulle false notizie a tema storico e sulla riabilitazione dei fascismi in tutte le sue varianti e manifestazioni. Il gruppo si è formato nel 2012 in seguito a una discussione su questo stesso blog e ha al suo attivo molte inchieste e diverse pubblicazioni.
Nel 2017 ha ideato e curato lo speciale La storia intorno alle foibe per la rivista «Internazionale».
Nel 2018 ha pubblicato on line la guida didattica Questo chi lo dice? E perché?
Nel 2022 ha pubblicato per le edizioni Alegre il saggio d’inchiesta storiografica La morte, la fanciulla e l’orco rosso. Il caso Ghersi: come si inventa una leggenda antipartigiana.
Nel 2024 ha portato a termine la più completa ricerca mai realizzata sulla figura di Norma Cossetto, le circostanze della sua morte, le false notizie di stampo neofascista che la avviluppano.
Lo pseudonimo «Nicoletta Bourbaki» è un détournement di «Nicolas Bourbaki», maschilissimo gruppo di matematici francesi attivo dagli anni Trenta agli anni Ottanta del XX secolo.
Nicoletta Bourbaki è su Medium e su Telegram.
(Tratto da: Nicoletta Bourbaki, Il «treno della vergogna» a Bologna: una storia senza fondamento, pubblicato il 14.10.2025 da Wu Ming in: https://www.wumingfoundation.com/giap/2025/10/treno-della-vergogna-nessuna-fonte/).
Inserito il 25/10/2025.
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1947, il «treno della vergogna» a Bologna: una storia senza fondamento
di Nicoletta Bourbaki*
Un convoglio di esuli istriani dileggiato dai ferrovieri «rossi». Un episodio ambientato nel 1947, ma che non ha riscontro in nessuna fonte dell’epoca e ha preso la sua attuale forma soltanto nel XXI secolo.
Seconda parte
6. 2004, arrivano i sassi e il latte versato
Nel settembre del 2004 Gian Aldo Traversi pubblica un articolo intitolato Il treno della vergogna nel dossier Il tricolore a Trieste, supplemento del «Quotidiano Nazionale», uscito in occasione del cinquantesimo anniversario del «ritorno di Trieste all’Italia». Scrive Traversi:
«[…] A ricordarlo è uno di quei profughi, Lino Vivoda, allora quindicenne, che s’era imbarcato con i genitori sul piroscafo “Toscana”. Una delle tante storie di addio a una terra amata e cancellata per sempre vissuta da chi, a guerra finita, scelse l’esilio per continuare a sentirsi italiano. “Ad Ancona l’impatto fu tremendo. C’era un cordone dell’esercito a proteggerci e tanta gente che scendeva dalla parte alta della città. Noi, dal ponte della nave, agitavamo le mani in segno di saluto, con le bandiere al collo, anche perché faceva freddo, nevicava. E loro rispondevano col pugno chiuso”.»
Par di capire che Traversi stia riportando parole pronunciate da Vivoda. Il racconto prosegue così:
«Da lì partimmo con un lungo treno di vagoni merci la sera di lunedì 17 febbraio, sdraiati sulla paglia, attraverso l’Italia semisepolta dalla neve. Dopo innumerevoli soste in stazioncine secondarie arrivammo a Bologna. Era martedì, poco dopo mezzogiorno. La Pontificia Opera di Assistenza e la Croce Rossa Italiana avevano preparato un pasto caldo, atteso soprattutto dai bambini e dai più anziani”. Ma dai microfoni “rossi” una voce gridò: “Se i profughi si fermano, lo sciopero bloccherà la stazione”. Poco prima il convoglio, che i ferrovieri chiamavano il “treno dei fascisti”, era stato preso a sassate da un gruppo di giovanissimi che sventolavano le bandiere con la falce e il martello. Ci fu perfino chi, per eccesso di zelo, versò sui binari il latte destinato ai bambini già in grave stato di disidratazione. Il treno scomparve nella nebbia con il suo carico di delusione e di fame: la meta finale sarebbe stata una caserma di La Spezia. I pasti della PCA nel frattempo vennero trasportati a Parma con automezzi dell’esercito e distribuiti dalle crocerossine.»
Non è chiaro se sia sempre Vivoda a parlare, ma notiamo che compaiono qui per la prima volta – a quasi cinquant’anni di distanza dai presunti fatti – le sassate contro il treno e il latte versato sui binari.
Questa non è l’unica novità introdotta da Traversi nella narrazione. Più avanti, infatti, sembra fornire dettagli precisi su quelle che Vivoda nel 1957 aveva chiamato «velenose corrispondenze dello inviato dell’«Unità» milanese Tommaso Giglio»:
«C’era chi istigava all’odio anche dalle colonne dei giornali. Tommaso Giglio che allora scriveva per l’edizione milanese dell’«Unità» e che poi diresse «l’Espresso», in quei giorni firmò tre articoli. In uno titolò Chissà dove finirà il treno dei fascisti?»
Dall’articolo par di capire che questo dettaglio sia stato riferito a Traversi da Guido Rumici, tra le altre cose consulente storico del film Red Land.
7. Sempre più dettagli, sempre più incongrui, persino Vivoda smentisce
Nel ventunesimo secolo si moltiplicano le testimonianze e le contraddizioni.
C’è chi colloca l’episodio nel 1949, chi addirittura nel 1956. Qualcuno lo colloca a Verona, e qualcuno lo colloca a Bologna, ma durante un viaggio da Udine ad Altamura. Qualcuno si spinge a dire che tutti i treni di profughi transitati per Bologna furono presi a sassate. Sul sito dell’Istituto Storico della Resistenza di Torino si può consultare una raccolta di testimonianze orali, tutte rilasciate dopo il duemila.
Di fronte a questo proliferare di apocrifi, nel 2009 Vivoda si sente in dovere di ribadire la sua versione. Lo fa in un volumetto dal titolo Quel lungo viaggio verso l’esilio. Pola-Ancona-Bologna-La Spezia. Nell’introduzione scrive:
«Purtroppo nel citare l’episodio molti lo arricchiscono di particolari non corrispondenti alla realtà, come ad esempio il lancio dei sassi contro i finestrini del treno, cosa impossibile dato che si viaggiava su vagoni bestiame privi di finestre. Inoltre che a Bologna furono versati i bidoni del latte. Altra inesattezza: non si fecero vedere ferrovieri o civili comunisti intorno al treno fermo. La carognata la commisero i capi comunisti che ordinarono l’annuncio con l’altoparlante, atto squalificante che dimostra di che consistenza intellettiva, accecati dalla faziosità politica, fossero forniti.»
Lo storico triestino Roberto Spazzali evidentemente non aveva letto le precisazioni di Vivoda quando ha scritto il libro Pola. Città perduta: L’agonia, l’esodo (1945-47), uscito nel 2022. Nel libro riporta l’episodio di Bologna raccontando ancora di bidoni del latte versati sui binari.
Spazzali aggiunge anche un nuovo dettaglio: nel suo racconto l’azione contro il treno dei profughi avviene su istigazione dei comunisti di Monfalcone, che sarebbero andati appositamente a Bologna prima dell’arrivo del treno per distribuire volantini in cui i profughi erano etichettati come fascisti.
Spazzali non cita nemmeno una fonte a sostegno di questa sottotrama.
Tale pressapochismo “orientato” non ci stupisce: di Spazzali avevamo già scritto nel 2016 e consigliamo di rileggere quel post, perché affronta molte questioni strettamente collegate alla vicenda che stiamo trattando.
8. Wikipedia: Different Trains
Nella nostra disamina non possiamo tralasciare la pagina dedicata al «treno della vergogna» su Wikipedia.
Si tratta di una pagina parecchio dozzinale, corredata da foto casuali di treni e di binari pieni di persone – in un caso incongruamente sorridenti – e didascalie che dicono platealmente il falso. In una delle foto si intravvede dietro il treno il cofano di una moderna monovolume.
Per quanto riguarda il testo, la pagina è costruita mettendo insieme tutti i clichés che abbiamo descritto finora. Inoltre stabilisce un nesso tra l’episodio del treno e un altro classico delle echo chambers dell’associazionismo esule, l’articolo di Piero Montagnani pubblicato sull’«Unità» di Milano il 30 novembre 1946.
Ne avevamo parlato nel 2019. Si tratta di un falso, prodotto cucendo insieme pezzi di frasi estrapolate dall’articolo, in modo da ottenere un’invettiva contro gli esuli che «sono fascisti e non meritano la nostra solidarietà».
Come abbiamo dimostrato per tabulas, Montagnani non diceva affatto che gli esuli fossero dei «fascisti che non meritano la nostra solidarietà». Diceva invece che a differenza dei fascisti e dei criminali di guerra in fuga, che «non meritano la nostra solidarietà», i profughi provenienti dall’Istria «sono dei veri fratelli nostri» e che «la loro tragedia ci commuove e ci fa riflettere».
Montagnani sosteneva inoltre che l’esodo si sarebbe potuto evitare se il governo italiano invece di assecondare le fantasie revansciste del CLN di Pola avesse intavolato trattative col governo jugoslavo, allo scopo di ottenere garanzie e tutele per le comunità italiane dell’Istria.
9. Discorsi istituzionali e para-istituzionali: Meloni, Cristicchi & Co.
Rileviamo infine che negli ultimi anni la storia del «treno della vergogna», nella sua versione più hardcore, ha trovato ampio spazio in diversi discorsi istituzionali. La ministra Calderone ad esempio ha sostanzialmente accusato il PCI e la CGIL di aver organizzato un pogrom contro il treno degli esuli.
L’intervento della presidente del consiglio Meloni in occasione del giorno del ricordo del 2024 è stato solo un pochino più paludato:
«Quando quel treno si fermò nella stazione di Bologna, venne preso a sassate. Il latte che era destinato ai bambini, che erano già in stato di disidratazione, venne buttato sulle rotaie. Gli esuli vennero insultati, fu impedito loro di scendere da chi aveva come patria un’ideologia e considerava un tradimento preferire la propria appartenenza nazionale a quella ideologia.»
Partita nel 1957 da una sgangherata filippica di Lino Vivoda, sdoganata nel 1991 da un articolo di Magris, questa storia fumosa e priva di riscontri è oggi parte integrante della liturgia civile repubblicana del XXI secolo.
Come abbiamo detto altre volte in casi simili – valga per tutti il nostro libro sul caso Giuseppina Ghersi – si spacciano per resoconti storici racconti e dicerie, che passando di bocca in bocca si arricchiscono di particolari a seconda delle epoche, delle circostanze, del contesto sociale e politico. Un fenomeno reso possibile anche dalla pigrizia e dal conformismo della classe intellettuale di questo paese.
Una storia come questa è molto comoda nel nostro cupo presente. Permette ad esempio al già citato Cristicchi, cantore dei peggiori stereotipi sull’esodo istriano-dalmata, di darsi un tono impegnato dicendo cose come:
«In fondo fra quanti rovesciarono a Bologna il latte destinato ai bambini del “treno della vergogna”, quello che trasportava i profughi istriani in fuga, e quanti avrebbero sparato sui barconi in arrivo a Lampedusa non c’è differenza».
Questa dichiarazione risale all’ottobre del 2013, ai giorni del naufragio di Lampedusa, in cui morirono 368 profughi in fuga dall’Eritrea, vittime della politica di difesa della fortezza Europa dalla presunta «invasione dei migranti».
Invasione, peraltro, ossessivamente denunciata dalla stessa parte politica che applaude e osanna Cristicchi e diffonde a tutto spiano narrazioni tossiche. Come, ad esempio, quella del «treno della vergogna».
10. Un articolo mai esistito e la reale posizione del PCI
Una volta appurata l’inconsistenza di questa storia è doveroso verificare quanto di vero ci sia nelle ripetute accuse rivolte al PCI di aver aizzato le folle contro gli esuli dalle colonne dell’«Unità», in particolare ad opera di Tommaso Giglio.
Abbiamo consultato «l’Unità», sia l’edizione nazionale che quella dell’Italia settentrionale, stampata a Milano, e abbiamo verificato che anche tali accuse sono del tutto prive di riscontro.
Nel febbraio del 1947 Tommaso Giglio scrive tre articoli sull’esodo da Pola, e nessuno di questi è intitolato Chissà dove finirà il treno dei fascisti?
Il primo articolo esce il 5 febbraio nell’edizione di Milano col titolo L’incubo della foiba per fare di Pola una terra bruciata e nell’edizione nazionale col titolo Terra bruciata a Pola per volontà degli alleati. Nell’edizione nazionale c’è un occhiello che si chiede: «Perché c’è l’esodo», e un sommario che spiega: «Asportazione di macchinari per seminare il panico – Una battaglia e un funerale a via Dignano – Lavoratori sotto processo». Il riferimento alle foibe nel titolo dell’edizione nord è fuorviante. L’articolo accenna di sfuggita alle foibe solo in un brevissimo passaggio:
«[…] la stampa di destra scorge agenti dell’OZNA in ogni angolo della città e li indica come elementi incaricati direttamente da Tito di “infoibare” tutti gli italiani nel momento stesso in cui avverrà il passaggio di Pola alla Jugoslavia.»
Il contenuto dell’articolo è lo stesso in entrambe le edizioni. La tesi sostenuta da Giglio è che gli alleati, che amministrano la città, stiano smantellando il sistema produttivo di Pola per spingere i cittadini a partire verso l’Italia e per creare tensione tra italiani e jugoslavi, secondo la tipica logica coloniale del divide et impera.
Giglio riferisce di uno sciopero contro lo smantellamento di un mulino industriale, e degli spari della polizia alleata contro la folla, che lasciano a terra due morti e numerosi feriti. Giglio ritiene che i partiti politici riuniti nel CLN di Pola stiano assecondando la politica degli angloamericani
«perché sperano di poter speculare sulla miseria e sulle sventure di coloro che essi stessi costringono ad abbandonare la propria città.»
Il secondo articolo esce il 7 febbraio sia nell’edizione nazionale, col titolo La fabbrica dell’esodo, sia in quella milanese, col titolo Quanti saranno i profughi da Pola? Giglio vi sostiene che, nonostante le pressioni esercitate dal CLN, i cittadini di Pola non stanno (ancora) abbandonando in massa la città. Per la precisione, Giglio si riferisce al fatto che nel primo viaggio del Toscana si sarebbero effettivamente imbarcati solo 750 polesani dei 3000 che si erano prenotati. Il tono dell’articolo è vagamente sarcastico, ma il sarcasmo è ancora una volta rivolto ai politici del CLN di Pola, definiti «improvvisati ragionieri delle disgrazie altrui».
Giglio riprende poi la tesi del suo articolo precedente: lo smantellamento del sistema industriale della città è perseguito in modo sistematico dagli alleati, allo scopo di lasciare agli jugoslavi una città ridotta a guscio vuoto.
Ovviamente Giglio aveva preso una cantonata riguardo alla consistenza dell’esodo, visto che di lì a poco la città sarebbe stata abbandonata dalla quasi totalità dei suoi abitanti italiani. «L’Arena di Pola» non aveva perso l’occasione per rinfacciarglielo in un corsivo uscito il 18 febbraio, che si concludeva così: «Al compagno Giglio due sole parole schiette all’istriana vogliamo dire: fai schifo!».
Questi erano i toni della quotidiana polemica che si svolgeva a Pola sulle pagine dei giornali di opposto orientamento, cioè tra quelli vicini al CLN e quelli vicini all’UAIS. Nelle strade le cose non andavano meglio, tra risse, spari e attentati. Il giorno dell’omicidio del generale de Winton, ad esempio, due bombe colpirono la sede dell’UAIS e quella del suo quotidiano di riferimento, «Il nostro giornale».
Il terzo articolo di Giglio esce il 12 febbraio solo nell’edizione milanese dell’«Unità», ed è intitolato Bruceremo Pola. Si tratta di un attacco frontale alla retorica del CLN, che in quei giorni proclama iperbolicamente che Pola una volta abbandonata dovrà bruciare, affinché agli jugoslavi non resti in mano niente. L’articolo si conclude così:
«Messi di fronte a una simile tragedia i polesi pensano con angoscia che coloro i quali hanno saputo arrivare fino a questo punto potrebbero non fermarsi più e allora il grido di “bruceremo Pola” arriva fino al loro sangue e li sconvolge. Che cosa è vero, che cosa è falso, di tutto quello che dicono? È possibile, in un simile clima di panico, distinguere tra la certezza e l’incertezza? È difficile, molto difficile. E allora uno, a un certo momento, pensa che è meglio levarsi di mezzo, è meglio sfuggire in qualsiasi modo questo disastro, e sale sulla nave mentre ancora si sente promettere che costruiranno una città tutta per lui e lo alloggeranno negli alberghi di lusso.»
Attribuire l’esodo da Pola esclusivamente alla pressione psicologica esercitata dal CLN è riduttivo. Si tratta di una forzatura dettata dalla difficile posizione del PCI, intrappolato tra la lealtà dovuta ai compagni jugoslavi e l’esigenza di accreditarsi in Italia come forza politica nazionale.
È una contraddizione che ha accompagnato il PCI fin dai tempi della lotta al nazifascismo nelle borderlands della marca giuliana. E però ancora una volta la polemica di Giglio è rivolta al CLN, cioè a un preciso soggetto politico che persegue una precisa agenda revanscista, non ai profughi che lasciano la città.
La leggenda del PCI che aizza le masse contro i profughi è appunto una leggenda. La cosa risulta ancora più chiara dall’articolo di Luigi Longo che compare il 14 febbraio sia sull’«Unità» nazionale che su quella milanese.
Longo è il vicesegretario del partito e gode di una popolarità e di una credibilità immense presso la base comunista, conquistate sul campo durante la guerra in Spagna e la lotta di liberazione in Italia. L’articolo si intitola Chi ha ingannato i nostri fratelli di Pola? e comincia con un attacco al CLN di Pola, al governo italiano, al Vaticano e agli alleati.
Secondo Longo questi soggetti hanno spinto i polesani ad abbandonare la città in massa, da un lato paventando un futuro nero per chi fosse rimasto, dall’altro promettendo casa e lavoro a chi fosse partito. Dopo questa premessa, Longo precisa che non ha senso recriminare, e che ora bisogna pensare ad aiutare i profughi, a trovar loro una sistemazione.
«Essi sono fratelli nostri doppiamente sventurati perché hanno abbandonato tutto quanto avevano di più caro e perché ora abbisognano di tutto. Essi devono incontrare la nostra affettuosa e fraterna solidarietà.»
La proposta di Longo per dare concretezza alla solidarietà è quella di destinare ai profughi di Pola gli alloggi precedentemente concessi ad altri “profughi”, quelli sì indesiderabili: i criminali di guerra fascisti, cetnici e ustascia fuggiti dalla Jugoslavia nel 1945.
Si tratta di 40mila individui, e a ricordarcelo è curiosamente proprio «l’Arena di Pola» il 3 aprile del 1947, in un trafiletto in prima pagina intitolato A 40 mila ammontano i rifugiati jugoslavi in Italia. Il trafiletto affianca l’articolo di apertura del giornale, intitolato Si inizia in Jugoslavia la lotta per la liberazione nazionale, con un occhiello che recita: «Qui radio Ravna Gora. Vi parliamo dalle montagne della libera Jugoslavia».
Quelli che «l’Arena di Pola» saluta come i futuri liberatori della Jugoslavia sono proprio i cetnici, i collaborazionisti serbi dei nazifascisti, che dopo la cattura e la fucilazione del loro leader Draža Mihajlović stanno cercando di riorganizzarsi nella diaspora e sulle montagne della Serbia centrale, nella zona di Ravna Gora.
Flash forward, 2 agosto 1991
Con la benedizione del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga alcuni esponenti della destra italiana, tra cui Gianfranco Fini e Roberto Menia, volano a Belgrado per prendere contatti con gli eredi dei cetnici di Ravna Gora, in vista di un possibile intervento militare italiano a sostegno della Serbia contro la Croazia. In cambio chiedono la restituzione dell’Istria all’Italia.
Di lì a poco il Vaticano e la Germania imporranno la linea opposta, dalla parte della Croazia, e non se ne farà nulla. Il ritorno di fiamma del revanscismo invece inquinerà il discorso pubblico nei decenni successivi, fino a deformare la natura stessa della Repubblica nata dalla Resistenza.
Alla fine di quello stesso agosto Claudio Magris, senza la minima verifica, porta la storia del «treno della vergogna» sui grandi mezzi di informazione nazionali.
(2/2. Fine).
Nicoletta Bourbaki*
* Nicoletta Bourbaki è un gruppo di lavoro sul revisionismo storiografico in rete, sulle false notizie a tema storico e sulla riabilitazione dei fascismi in tutte le sue varianti e manifestazioni. Il gruppo si è formato nel 2012 in seguito a una discussione su questo stesso blog e ha al suo attivo molte inchieste e diverse pubblicazioni.
Nel 2017 ha ideato e curato lo speciale La storia intorno alle foibe per la rivista «Internazionale».
Nel 2018 ha pubblicato on line la guida didattica Questo chi lo dice? E perché?
Nel 2022 ha pubblicato per le edizioni Alegre il saggio d’inchiesta storiografica La morte, la fanciulla e l’orco rosso. Il caso Ghersi: come si inventa una leggenda antipartigiana.
Nel 2024 ha portato a termine la più completa ricerca mai realizzata sulla figura di Norma Cossetto, le circostanze della sua morte, le false notizie di stampo neofascista che la avviluppano.
Lo pseudonimo «Nicoletta Bourbaki» è un détournement di «Nicolas Bourbaki», maschilissimo gruppo di matematici francesi attivo dagli anni Trenta agli anni Ottanta del XX secolo.
Nicoletta Bourbaki è su Medium e su Telegram.
(Tratto da: Nicoletta Bourbaki, Il «treno della vergogna» a Bologna: una storia senza fondamento, pubblicato il 14.10.2025 da Wu Ming in: https://www.wumingfoundation.com/giap/2025/10/treno-della-vergogna-nessuna-fonte/).
Inserito il 25/10/2025.
Dal settimanale «Alias»
Post-Jugoslavia
di Tommaso di Francesco
La più vasta operazione di pulizia etnica, a danno dei serbi, di tutto il periodo bellico in ex Jugoslavia: l’operazione Tempesta, nella Krajina. Sono passati trent’anni.
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1995: dopo Tempesta non c’è quiete
di Tommaso di Francesco
Trenta anni fa, dal 4 al 7 agosto del 1995, l’esercito croato con l’Operazione Oluja (Tempesta) dilagò in tutta la Krajina (krajina, zona di frontiera, stessa radice di Ucraina), la regione croata incastrata tra la costa dalmata a ovest e la Bosnia nordoccidentale a sud, abitata da più di 300.000 serbi da almeno quattro secoli che, al momento dell’auto-proclamazione dell’indipendenza croata su base etnica nel 1991-92 («la Croazia è la patria dei croati», recitava il primo articolo della nuova Costituzione, e nonostante questo subito riconosciuta, con quella slovena, in primis da Germania e Vaticano), hanno deciso di fare secessione costituendo un loro «stato», pronti a combattere per non diventare minoranza nelle terre in cui vivono da sempre, o peggio essere uccisi o cacciati.
L’attacco croato
Quella delle truppe di Zagabria è un’avanzata inarrestabile. Sono più di 150.000 i soldati impegnati nell’offensiva che è stata preparata a tavolino da tempo, grazie anche all’aiuto in armi, logistico e con molti consiglieri militari americani, degli Stati Uniti e dell’Europa. All’attacco croato partecipano anche aerei della Nato che bombarderanno i radar di Knin, capitale della Krajina, per evitare una risposta missilistica come era successo durante la conquista croata della Slavonia occidentale a maggio, solo due mesi e mezzo prima.
Un bombardamento, quello della Nato, decisivo per la vittoria croata e rimasto sapientemente in ombra. Secondo il comunicato del comando Nato di Napoli, alle ore 19 del 4 agosto 1995 due aerei americani EA6B della Us Navy, decollati dalla portaerei Roosevelt che naviga in Adriatico, erano di pattuglia su richiesta dell’Onu «per la protezione dei Caschi Blu» e «dopo essere stati puntati dai radar di una postazione di missili terra-aria dei serbo-croati gli aerei hanno lanciato i loro missili in un’azione di autodifesa».
Che fosse necessaria la protezione dei Caschi Blu è fuori discussione; più di 100 militari dell’Onu, kenyoti, canadesi, polacchi e cechi, vennero infatti catturati sulla linea di interposizione dalle truppe di Zagabria e trasferiti a forza in territorio croato per avere mano libera e nessun testimone, molti Caschi Blu vennero feriti, gli uomini del contingente canadese dell’Onu furono tenuti prigionieri per molti giorni.
Ci si sarebbe dunque dovuto aspettare un attacco della Nato contro le truppe croate all’offensiva, a reale protezione del contingente Onu in quel preciso momento sotto il fuoco dell’esercito di Zagabria. Invece i bombardieri americani della Nato centrarono, distruggendoli, i radar di Knin, cioè degli attaccati e assediati, in un’azione di «logistica» come più tardi il Pentagono definì ufficiosamente il bombardamento, che ebbe così anche il «merito» militare di mettere definitivamente in fuga dall’area l’interposizione delle Nazioni Unite. Un bombardamento che farà scuola nei Balcani.
Washington, a partire dal gennaio-febbraio 1994 – nonostante qualche timido tentativo di iniziativa di pace reale tra le parti in guerra nei Balcani sulle spoglie di quella che fu la Federazione Jugoslava, rappresentato dalla mediazione dell’ex presidente Jimmy Carter –, aveva optato ormai per una scelta armata di parte e nel marzo del 1994 inventerà di sana pianta la cosiddetta Federazione croato-musulmana, privilegiando soprattutto come interlocutore militare il presidente croato Franjo Tudjman. Sulle ceneri dei massacri perpetrati dai croati contro i musulmani in Erzegovina e in Bosnia centrale sin dall’autunno 1992 fino alla fine del 1993. Massacri che sono stati ignorati finché non si è scoperto che la guerra tra croati e musulmani a Mostar, capoluogo dell’Erzegovina, aveva creato maggiori distruzioni che nella stessa Sarajevo.
Così fin dall’inizio del 1994 arrivano a Zagabria ingenti forniture di armi (vale la pena ricordare che siamo in pieno periodo d’embargo Onu sulle armi a tutta l’ex Jugoslavia e che per questo c’è una flotta con più di 50 navi in Adriatico) e giungono in Croazia decine di consiglieri militari americani. Si avvia così quella messa all’indice dell’Onu sotto la pressione di Franjo Tudjman, che chiede espressamente a Bill Clinton e al vicepresidente americano Al Gore di non rinnovare ai Caschi Blu il mandato di forza di interposizione di pace in Krajina, Slavonia occidentale e Slavonia orientale, le tre regioni (krajine) abitate in maggioranza dai serbi, mandato che le Nazioni Unite gestiscono invece fino a quel momento con successo da tre anni, dopo la ferocia della guerra serbo-croata che ha visto il suo apice di sangue sulle rive del Danubio nella battaglia di Vukovar del novembre 1991.
L’operazione è coordinata dall’ambasciatore statunitense in Croazia, Peter Galbraith, e diretta da Washington (dopo le rivelazioni e ammissioni avvenute durante le audizioni al Senato americano dei primi mesi del 1996 sul «Bosniagate», lo scandalo sulle triangolazioni di armi per i musulmani di Bosnia tra Stati Uniti, Turchia e Iran, sì, proprio il «terrorista» Iran) dallo stesso uomo che poi diventerà l’«artefice» degli accordi di Dayton: Richard Holbrooke.
Civili in armi
Quella della prima settimana dell’agosto 1995 è un’avanzata disastrosa per il piccolo esercito dei serbi di Krajina, composto per gran parte di civili in armi, con effetti devastanti: si contano decine di massacri contro la popolazione civile e altrettante fosse comuni.
Se Srebrenica è il massacro più grande e per mani delle milizie serbo-bosniache, la «Tempesta» sarà la più grande operazione di pulizia etnica di tutta la guerra nell’ex Jugoslavia, se si pensa che solo nel giro di dieci giorni saranno espulsi quasi in 300.000 – i due milioni di profughi in Bosnia Erzegovina sono stati il «prodotto» di quattro anni di guerra. Gli occhi delle telecamere hanno mostrato migliaia di contadini serbi in fuga sui loro trattori, ma i rari servizi giornalistici li hanno fatti apparire senza nome se non addirittura colpevoli. Non esistevano prima, come potevano essere nominati adesso?
Lo stesso ragionamento sarebbe valso più tardi, nel marzo del 1996, per i più di 80.000 serbi terrorizzati in fuga dai quartieri di Sarajevo, consegnata dagli accordi di Dayton alla leadership musulmana: non esistevano, nessuno aveva mai parlato di loro, Sarajevo «multi-etnica» era assediata dalle milizie serbe e basta, perché raccontarli ora? Eppure bastava riconoscere la diversità di un «assedio» che vedeva più di un terzo degli abitanti della città partecipare all’assedio degli altri due terzi. Raccontando magari la scarsa vocazione alla multi-etnicità dei serbi, dei croati ma anche della leadership musulmana al potere a Sarajevo che fin dal febbraio-marzo 1992 aveva voluto a tutti i costi un referendum sull’indipendenza della Bosnia Erzegovina contro il parere della «minoranza serba» (il 36% della popolazione), che poi non partecipò al voto e fece il suo referendum e la sua secessione.
L’assedio di Sarajevo, dei cecchini e dell’odio, come l’assedio dei cinque anni di guerra in tutta l’ex Jugoslavia, è stato quello nascosto e subìto da tutte le coscienze multi-etniche che ancora si consideravano, nonostante tutto, jugoslave e bosniache unitarie, tenute in ostaggio da tutti i signori della guerra, da tutte le oligarchie nazionaliste armate, serbe, croate e musulmane. Di questo «assedio» quasi nessuno ha parlato.
Così, nei confronti dei profughi in fuga dalla Krajina molti hanno pensato soltanto «Ben gli sta!». Ha scritto Alexander Cockburn su The Nation nell’ottobre 1995: «Quando i musulmani di Bosnia vengono bombardati, strappati dalle loro case o assassinati, il mondo giustamente piange. Quando sono i serbi ad essere cacciati dalle loro case o trovati con la gola tagliata, gli occhi restano asciutti. Quando i serbi fanno pulizia etnica è genocidio. Quando sono i serbi a esser ripuliti è silenzio – o il grido di giubilo che finalmente è toccato a loro». I bombardamenti della Nato hanno dato a William Pfaff, che scrive sul Los Angeles Times, un «giustificato sollievo e perfino un vendicativo piacere».
Ma quei contadini serbi in fuga dalla Krajina sono solo colpevoli di aver tentato di non finire come i serbi di Zagabria e di Zara, cacciati, picchiati, vessati in ogni modo. È vero, anche loro hanno espulso la loro minoranza, quella croata. Ma non portano responsabilità dirette per quello che succede in Bosnia dove, a Sarajevo, le milizie dei cetnik che assediano la città sventolano le bandiere di Draza Mihailovic, il collaborazionista dei nazisti e degli occupanti – sarà condannato a morte nel 1946 ma vergognosamente riabilitato a Belgrado nel 2015 – che fu nemico giurato dei partigiani comunisti di Tito; fanno parte della più numerosa entità, la diaspora serba, ora sedimento del nazionalismo estremo e rivendicativo, ma prima costitutiva della Jugoslavia multietnica e di quella bandiera che verrà ammainata, strappata e dimenticata.
I riconoscimenti delle indipendenze su base etnica voluti dall’Europa e dagli Stati Uniti che hanno trasformato i confini interni amministrativi della Federazione Jugoslava in altrettante frontiere tra stati, e la nascita di stati su base etnica (Slovenia, Croazia) che negano i diritti delle minoranze, sono stati gettati nelle braccia del pernicioso e strumentale nazionalismo egemonico serbo del leader politico Slobodan Milosevic – pronto a usarli, se necessario, come merce di scambio spartitorio con il suo omologo Tudjman – e dei più accesi oltranzisti.
Eppure l’Occidente gioisce della loro disperazione: da questa prima sconfitta serba si avvia, dicono, la svolta in Bosnia. Da questa tragedia di guerra fiorirà una fragile «pace» di carta; i profughi entrando in Bosnia in fuga verranno infatti inseguiti dalle truppe croate che lì si ricongiungeranno al 5° corpo del generale musulmano Dudakovic responsabile di «strategiche» cannonate sulle colonne dei profughi serbi di Krajina e Bosnia.
L’elenco delle atrocità dell’Operazione Tempesta sarà confermato all’inizio di agosto 1996 da Elizabeth Rehn, la responsabile dell’Onu per i Diritti umani, organismo del quale fino alla strage dei musulmani di Srbrenica ad opera dei serbi era a capo Tadeuz Mazowiotcki. Elizabeth Rehn che è tornata a verificare la situazione di «tabula rasa» provocata in Krajina dalle truppe croate – già impegnata a denunciare molte stragi anti-musulmane ad opera dei serbi e dei croati di Bosnia – denunciando la «realtà di inaudite vessazioni a cui sono sottoposti i serbi rimasti in Krajina» ha avuto anche il merito di smentire una delle più ridicole e malvagie interpretazioni dei fatti ad opera del regime di Zagabria allora a guida di Franjo Tudjman: «Potevano restare, nessuno li ha cacciati…». Secondo le testimonianze raccolte dalla Rehn, potevano restare ad essere sgozzati, o denudati in pubblico, bastonati o presi a sassate, dati in pasto ai cani o lasciati senza cibo, stuprati, fatti a pezzi con gli animali da cortile o mostrati al ludibrio di comitive di gitanti zagabresi (e tedeschi), in visita nei territori riconquistati «alla patria croata». Questo infatti è accaduto a chi, anziano per lo più, ha avuto la ventura di rimanere.
Perfino in terra croata il Comitato di Helsinki per i diritti umani di Zagabria nel 1996 chiese al Tribunale dell’Aja la messa sotto accusa per «crimini di guerra» dell’alleato dell’Occidente, il presidente Franjo Tudjman, e dei militari responsabili per i massacri commessi con l’Operazione Tempesta dell’agosto 1995.
I giudici del Tribunale ad hoc per l’ex Jugoslavia dell’Aja (Tpi) che si volevano «al di sopra delle parti» non avevano battuto ciglio di fronte alle promozioni sul campo di molti criminali di guerra croati da parte del regime di Zagabria. Hanno incriminato giustamente Milán Martic, presidente della Krajina serba, per il lancio di missili su Zagabria che provocarono sei vittime civili nel maggio del 1995, ma dimenticando che vennero lanciati in risposta all’offensiva croata contro la Slavonia occidentale del primo maggio, che provocò secondo l’Onu 600 vittime tra civili e civili in armi e 12.000 profughi serbi, molti feriti anche tra i Caschi Blu messi in fuga dall’avanzata croata che spazzò via le loro postazioni sulla linea del fuoco; senza dimenticare la profanazione dell’occupazione militare e della devastazione del Mausoleo di Jasenovac, il lager dove il regime ustascia di Ante Pavelic, alleato del nazi-fascismo, sterminò decine di migliaia di ebrei, di serbi e di rom.
Tudjman, dopo la profanazione, vuol farlo diventare «mausoleo di tutte le vittime della Seconda guerra mondiale, partigiani e ustascia». Un revisionismo pericoloso, ma «nostro» alleato, contro il quale protesta, sommessamente, la comunità ebraica di Zagabria e invece alza la voce solo il Museo dell’Olocausto, lo Yad Vashem.
Dopo la condanna
Poi il «generale» Ante Gotovina, considerato un «eroe» in Croazia, ex legionario di estrema destra che aveva guidato l’offensiva «Tempesta», viene incriminato nel 2001 dal Tpi per crimini di guerra e contro l’umanità; verrà arrestato in Spagna nel dicembre 2005 dopo una latitanza di quattro anni; all’arresto stavolta collabora il governo di Zagabria che per questo riceve il placet per entrare nell’Ue. Gotovina viene condannato nell’aprile 2011 a 24 anni di carcere con il generale Mladen Markac che avrà 18 anni di pena.
La sentenza del Tpi indica espressamente anche le responsabilità del defunto presidente croato Franjo Tudjman, definito «membro chiave di una organizzazione criminale» che aveva «per obiettivo l’espulsione permanente della popolazione serba dalla regione della Krajina, e la sua sostituzione con la popolazione croata», dice il giudice Alphons Orie leggendo la sentenza.
S’indigna la Chiesa croata (per gran parte schierata storicamente nella Seconda guerra mondiale con il regime filo-nazista di Ante Pavelic). La Conferenza episcopale croata protesta: «la sentenza di condanna per Gotovina ha portato i cittadini croati ad avere meno fiducia nelle istituzioni che si occupano di giustizia a livello internazionale».
Comunque giustizia è fatta, finalmente? No, nessun colpevole. Nel novembre 2012 nella sentenza d’appello il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia assolve Gotovina e Markac che rientrano in patria acclamati come eroi, con sfilate delle milizie ustascia che avevano partecipato alla Tempesta, la più grande operazione di pulizia etnica.
In questi giorni, nel trentesimo anniversario, c’è la solita «quiete»: autorità di Zagabria e veterani celebrano la «vittoria della Grande guerra patriottica croata». I serbi, «vittimisti» per natura e stavolta vittime, protestano. Strana quiete dopo la Tempesta.
Tommaso di Francesco
(Tratto da: Tommaso di Francesco, Dopo la Tempesta non è quiete, in «Alias», anno XXVIII, n. 31, 2 agosto 2025).
Inserito il 06/08/2025.
1995: colonna di profughi in fuga dalla Krajna, riconquistata dall’esercito croato nell’operazione “Oluja” (Tempesta).
Autore della foto: Reuters/Ranko Cuković
Fonte della foto: https://bosnainfo.ba/27-godina-od-oluje-u-srbiji-pomen-u-hrvatskoj-praznik/
Dal settimanale «Alias»
Post-Jugoslavia
di Tommaso di Francesco
La frantumazione, la distruzione omicida realizzata dai riconoscimenti europei delle indipendenze autoproclamate su base etnica, per Slovenia e Croazia senza curarsi di che cosa sarebbe accaduto in Bosnia Erzegovina che rappresentava in piccolo l’intero mosaico di nazionalità, lingue e religioni della Federazione jugoslava: insieme all’annientamento suicida, dei risorti nazionalismi l’un contro l’altro armati per realizzare l’egemonia di una «Grande Serbia», Grande Croazia, Grande Slovenia, Grande Bosnia, Grande Macedonia, Grande Albania, con guerre fratricide etnico-religiose in nome del predominio nazionalista, – quello che lo scrittore Danilo Kis chiamava «follia» – non sono state, né purtroppo sono, solo racconto storico, geopolitica degli imperi, epica letteraria o storie di paci di carta. Hanno attraversato come un fuoco le persone, gli esseri umani e la vita dei singoli. Come quella del soldato Aljia, che ho avuto il doloroso privilegio di conoscere. (t.d.f.)
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Aljia il disertore. Elegia balcanica
di Tommaso di Francesco
Le guerre fratricide nella vita di un uomo che ha combattuto con tutti e contro tutti.
Il soldato Aljia, una moglie e quattro bambini, era un musulmano bosniaco, della sacca di Bihac. Uno che ha combattuto con tutti. Meglio, contro tutti. E se stesso. Quando l’ho conosciuto, nel gennaio del 1992, aveva 38 anni. L’ho incontrato mentre era ancora in divisa della Jna in una caserma della Banja, in Slavonia orientale, mentre le truppe dell’Armja, ancora per poco l’esercito federale jugoslavo, dopo il massacro di Vukovar, tenevano da molti mesi d’assedio la croata Osjek.
Il sergente Aljia faceva capire che «certo stavolta con i croati non bisognava permettere quello che era accaduto in Slovenia… decine di ragazzini di leva jugoslavi massacrati da milizie terroriste del fascista Janez Jansa», ma a lui tutta quella guerra non andava giù, obbediva agli ordini. Sapeva però che a Vukovar l’esercito che era di tutti aveva cominciato a sparire nel sangue ed erano comparsi i cetnik, le milizie serbe, come gli ustascia, quelle croate. Così se avesse potuto se ne sarebbe andato prima a Sarajevo, per sistemare alcune faccende, e poi a Velika Kladusa, nel nord, dove l’aspettava ancora la moglie. Così un giorno si è messo in abiti civili, tenendo con sé la pistola d’ordinanza, e ha attraversato le linee.
Fuga in Slavonia
Allarmato aveva raggiunto un campo profughi di gente croata cacciata dalla Slavonia mangiando per un mese il «pane dell’Onu», e soprattutto facendosi passare per croato. Poi ha camminato per notti e giorni ed è finito a Mostar, nella parte croata. Era l’aprile del 1992. L’esercito federale che ancora esisteva stava attaccando la città e bombardava croati e musulmani ancora per poco uniti. E lì, in quei giorni, arriva la notizia che Sarajevo era assediata dalle truppe serbe. Com’era possibile?
Giugno pieno, l’aria era calda e impolverata, dopo le battaglie l’Armja si ritirava. I ragazzi dell’una e dell’altra sponda non si tuffavano più dallo Stari Most nelle acque verdi ancora limpide della Neretva. Ancora per poco almeno il ponte resisteva. Poi le risse nei bar. Ci voleva ordine e lui sapeva maneggiare le armi. Le milizie croate della città non hanno chiesto nulla a uno alto, biondo con gli occhi azzurri come lui che a ogni domanda rispondeva: «Sono scappato dall’esercito federale»; così si è messo a insegnare ai croati come si spara con le mitragliatrici pesanti. Del resto c’erano tanti soldati musulmani come lui a farlo ancora, pensava, per quattro dinari. Poi avrebbe saputo che erano uomini della mafia musulmana di Sarajevo che, per tanti soldi, insegnavano alle milizie croate a uccidere. Ma perché le milizie croate si armavano ancora, se i serbi erano stati sconfitti e cacciati dalla città? I nemici da uccidere stavolta sarebbero stati i musulmani di Mostar, ma lui ancora non lo sapeva.
Lo capì solo alla fine di settembre quando vide con i suoi occhi un rastrellamento di milizie armate venute da Zagabria. Stavano cacciando la popolazione musulmana a est, oltre la Neretva e lo Stari Most. Alija doveva andare a Sarajevo, per raggiungere da lì i suoi bambini a Velika Kladusa.
Riprese i pochi bagagli e la pistola d’ordinanza sempre in tasca passò nella parte est della città. Qui cominciò ad addestrare i pochi musulmani disposti ad armarsi per difendersi dalle milizie croate.
Solo allora riprese a fumare dell’ottimo tabacco che l’uomo che l’ospitava aveva conservato. Era l’unica cosa piacevole che ricordava. La cosa spiacevole era che le palestre della città funzionavano da lager, i morti non li contava più nessuno e i muri della città sembravano alveari di buchi ma senza le api.
Nel febbraio del 1993 uscì da Mostar est su uno dei pochi convogli umanitari che erano riusciti a raggiungere la città, finalmente verso Sarajevo. Trovò l’inferno delle trincee. Lo sorprese la distruzione dell’ufficio centrale delle poste. Nei caffè lì attorno Aljia era stato giovane e aveva dato i suoi primi appuntamenti a tante donne. Allora non era né musulmano, né militare. Pensò a quei soldati serbi a cui magari aveva insegnato a sparare che ora assediavano la città… fanatici prendevano la mira come in un poligono di tiro ma stavolta contro esseri umani… dio, la loro città! Si arruolò nell’esercito governativo di Sarajevo e venne inviato intorno alla zona dell’aeroporto.
Lì, a 500 metri, c’erano le postazioni nemiche e un carcere dove si sapeva che erano rinchiusi 150 civili musulmani. «Mia moglie e i bambini mi aspettavano su a Velika Kladusa, così un giorno ho chiesto di combattere a nord».
«Poi non voglio più dire nulla, né a te né a nessuno…», mi diceva.
Ma qual è l’ultima verità di Aljia che non voleva raccontare? Non voleva raccontare d’esser finito a un certo punto nel più disperato dei «campi profughi», quello di Vojnic. Aljia aveva combattuto con le truppe del «traditore» musulmano Fikret Abdic, ma anche con i soldati leali a Sarajevo. «In entrambi i casi sparavo contro la mia gente, contro amici e anche parenti», confessa. Così alla fine ha deciso che questa guerra non valeva più un solo colpo di kalashnikov, ed era fuggito di nuovo in Croazia.
Un’ombra tra i fronti
Appena scesa la notte, Aljia aveva lasciato il campo profughi di Batnoga camminando per tre ore, e stando ben attento a non finire in un campo minato, per raggiungere il fiume Korana, che corre lungo la linea del fronte tra la Croazia e la Krajna, allora ancora nelle mani dei secessionisti serbi. Il Korana è largo poco più di 20 metri, ma Aljia è rimasto nell’acqua gelata più di un’ora e mezzo nella notte, mentre sull’altra riva sentiva le voci dei poliziotti di pattuglia croati. Con lui c’erano altri disertori con la sua stessa storia e che non ricordavano nemmeno più se erano serbi, croati, musulmani o albanesi. «È stata una notte di terrore. Il momento peggiore è stato quando sono arrivato in Croazia, avevo paura che mi trovassero e mi rimandassero indietro. Pensavo: se mi rimandano indietro… indietro dove? Его stato con tutti e contro tutti. Su tutti i fronti». Ma anche stavolta era riuscito ad essere un’ombra che passa tra le zone del fronte e che la fortuna aiuta. Aljia riesce ad arrivare a piedi a Karlovac e ad avvertire alcuni amici. Alle cinque del mattino lo avevano trovato per caso mentre camminava ancora sulla strada che da Karlovac porta a Zagabria.
Chissà per quanto tempo è rimasto nascosto a Vojinic, in Croazia. Aveva paura della polizia turca che Tudjman e Izetbegovic avevano assoldato per riportare con la forza i ribelli di Abdic a Velika Kladusa. Temeva che contro di lui avrebbero potuto scatenarsi le vendette di tutti. Così già sperava di andare una volta per tutte a Occidente, in Germania, e trovare lavoro per la sua famiglia.
«Io un traditore? – s’interrogava – no, non mi sento un traditore. Questa guerra è un fuoco che non ho acceso. Se ho tradito, ho tradito tutti e me stesso. Ogni cosa è stata più grande di me. Finché combattevo contro i croati, i serbi, i governativi musulmani, le armate di Abdic, non mi facevo domande, bisognava farlo e basta». All’inizio della guerra in Bosnia Aljia, dopo essere stato sul fronte di Sarajevo, era entrato nel quinto corpo d’armata bosniaca. Comandava una pattuglia di 50 uomini che doveva tenere la linea del fronte contro i serbi a Vrnograc, a est di Velika Kladusa.
Nell’autunno 1993 qualcosa cominciava a cambiare. I serbi non sparavano più, dai croati arrivavano le uniformi, negozi e bancarelle si riempirono di cibo e frutta. La ragione è Fikret Abdic, il musulmano miliardario della sacca di Bihac, membro della presidenza bosniaca e eletto nel ’90 presidente della Bosnia Erzegovina, che si stacca da Izetbegovic e proclama l’autonomia della regione trattando la pace separata con croati e serbi. Il 5° corpo d’armata si divide: chi resta fedele a Sarajevo e chi passa con Abdic. Abdic «babo» (papà) era considerato un benefattore da tutti gli abitanti della regione. Negli ultimi 15 anni aveva creato nell’enclave di Bihac l’Agrokomerc, un’industria agroalimentare che ha dato lavoro a 20.000 famiglie, serbi, croati e musulmani. «Abdic – racconta Aljia – ci ha dato una paga, ha portato la luce, l’acqua e le strade nei villaggi».
Tre mesi dopo, nel gennaio ’94, viene fatto prigioniero dai soldati fedeli a Sarajevo. L’uomo che lo cattura è Zlatko, il suo amico più caro. Dopo due settimane di prigione, un lungo colloquio notturno con l’amico e su suo consiglio Alija si riarruola nelle truppe fedeli a Sarajevo. Lo avevano mandato il mese dopo a Zenica dove alcuni mujaheddin afghani e algerini, arrivati ad aiutare i musulmani di Bosnia contro i serbi, provocavano la gente normale pretendendo che le donne non uscissero di casa e rompendo per strada con disprezzo le bottiglie di slivovjca. «Gente malata, violenta e retrograda», raccontava Aljia. «Provate a tenere in casa una ragazza di Travnik, anche in piena guerra!». Poi era stato richiamato a Sarajevo. Ma anche qui si era trovato ancora a sparare contro amici e parenti serbi, mentre infuriavano gli scontri e le vendette nella valle della Drenica «dove i serbi ammazzavano tutti» e nel grande fiume si vedevano ogni tanto cadaveri galleggiare. «Non potevo più combattere – sussurrava – era come sparare contro me stesso». E Aljia tranquillamente se n’era andato a casa, nel Bihac, fingendosi malato.
Verso la Krajna
In agosto le truppe di Izetbegovic cominciano ad avanzare nella sacca di Bihac. In poche settimane i soldati di Abdic vengono travolti e gli autobus dell’Agrokomerc caricano migliaia di uomini, donne e bambini e li portano in Krajna, nei territori dove ancora vivevano i serbi in Croazia. Circa 15mila finiscono a Turanj, altri a Batnoga, in un grande capannone dove si allevavano polli. A piedi, ci va anche Aljia, benché sia un traditore per gli uomini di Abdic e un disertore per Sarajevo.
Ma la moglie e i figli dove sono? Nessuno glielo sa dire. La Croazia rifiuta di ospitarli e l’unico modo è pagare 3.000 marchi per un passaporto falso. Ma Aljia non ha un soldo e per lui l’unica possibilità di fuga è il fiume.
Un giorno, 6.000 uomini di Batnoga e Turanj vengono ancora caricati sugli autobus dell’Agrokomerc e i caschi blu dell’Onu dicono che i soldati di Abdic hanno attraversato la frontiera con la Bosnia e combattono a fianco dei serbo-bosniaci contro i musulmani. Ma vengono sconfitti. Aljia ripara in Krajna, è l’agosto del 1995. Appena in tempo per insegnare ai contadini serbi come si spara contro l’esercito croato dell’Operazione Tempesta: [i croati] invadono la regione, massacrano e cacciano 300.000 persone. Appena in tempo ad imparare a seppellire insieme cani, maiali, pecore e corpi umani di vecchi. Sapeva solo che moglie e figli erano vivi e stavano a Velika Kladusa ormai nelle mani dell’esercito governativo di Sarajevo. Con i profughi serbi era finito a Subotica, in Vojvodina, e di lì alla periferia di Belgrado a dormire nei capannoni di cartapesta degli edili che avevano costruito i palazzoni di Jaruselica. Alcool, elemosine, alcool, elemosine… caduta sanguinosa da ubriaco per le scale di un parco di cui non ricorda il nome. Appena fuori la grande moschea di Belgrado. «Devo andare a Velika Kladusa…». E invece nel 1997 era finito su un treno che portava profughi in Kosovo, nella Drenica, dove spadroneggiavano i serbi in aperta sfida alla maggioranza della popolazione albanese. Eppure lì o in Macedonia poteva far venire, forse, la moglie e i figli… Forse.
Per molto tempo non ho più saputo che fine avesse fatto Aljia, il «disertore di tutti». Finché, dai dati della polizia delle Nazioni unite in Kosovo, mi è arrivata la notizia che Aljia Hefendic era stato ucciso nel 2003 dai duri dell’ex Uck perché si era rifiutato di partecipare al linciaggio di un vecchio contadino serbo che andava a pregare sulla tomba di famiglia a Decani. Lui che aveva addestrato i miliziani dell’Uck ad usare le armi e si era battuto da leone contro le rappresaglie della polizia serba, lui che aveva aiutato le truppe della Nato a prendere posizioni nelle campagne vicino Pec, lui che guardava sgomento, scuotendo la testa, le tante bombe a frammentazione bombardate dai caccia Nato rimaste appese con tanti piccoli paracadute bianchi sui rami degli alberi a testimoniare che le morti non sarebbero terminate con la fine della guerra, lui che era stato perfino decorato… Lui, Aljia il musulmano di Bosnia, era stato accusato di essere un traditore, anzi un «disertore». Lui… che era il corpo lacerato della Jugoslavia.
Tommaso di Francesco
(Tratto da «Alias», inserto settimanale de «il manifesto», 19 luglio 2025).
Inserito il 20/07/2025.
Ruse, 10 febbraio 1988.
Fonte della foto: http://www.arenamedia.net/news.php?newsandpromotion_id=36279
Ruse, 10 febbraio 1988.
Fonte della foto: https://www.bta.bg/bg/ot-arhivite/530606-obgazyavaneto-na-ruse-e-povod-za-provezhdaneto-na-parvata-v-balgariya-ekologichn
Anni ’80: Bulgaria e Romania divise dal Danubio e da un impianto chimico
🔴di Leandro Casini🔴
Come sei donne avviarono una battaglia ecologista che mise in crisi i rapporti fra Todor Živkov e Nicolae Ceauşescu in piena perestrojka. Come la popolazione di Ruse e l’opinione pubblica bulgara misero in discussione la capacità del Partito comunista e del governo di salvaguardare la salute dei cittadini e la qualità dell’aria. E come proprio sulle questioni ecologiche sorse il primo movimento di opposizione in Bulgaria.
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di Leandro Casini
Ruse è una delle più belle città della Bulgaria. Situata sulla riva destra del Danubio, nell’area di un villaggio tracio della tarda Età del Ferro, prende le sue origini da un castellum (fortezza) romano di epoca flavia di nome Sexaginta Prista (= [porto] delle sessanta navi), sviluppatosi poi in città in età tardo-antica. Le alte sponde difendevano il luogo dalle piene del grande fiume, e vi fu costruito un porto fluviale della classis Moesica (la flotta della Mesia), in connessione con la più importante strada danubiana del tempo che da Singidunum (Belgrado) arrivava fino al delta del Danubio. Il centro portuale era stato collegato dai Romani con i centri di Abritus (Razgrad), Marcianopolis (Devnija) e Odessus (Varna), tutti in Bulgaria.
Fin da allora la città ha assunto un’importanza fondamentale per i trasporti e le comunicazioni. Nel XIX secolo Ruse era un centro cosmopolita in cui, oltre alla maggioranza bulgara, vivevano anche austriaci, cechi, tedeschi, ungheresi, ebrei e armeni. I contatti lungo il grande fiume europeo si riflettono anche sull’architettura della città, che non ha nulla a che vedere con le caratteristiche della tradizione edilizia bulgara. Alcune architetture del centro città hanno fatto meritare a Ruse il titolo di “piccola Vienna della Bulgaria”.
Ma non è una guida storico-turistica della città quella che stiamo scrivendo, bensì la storia di un mini-conflitto balcanico tutto interno al campo socialista.
Ruse (165.000 abitanti) è città di confine. Al di là del fiume si trova la città rumena di Giurgiu (69.000 abitanti), l’antica Theodorapolis fatta costruire dall’imperatore romano Giustiniano su un’area già densamente abitata dagli antichi Daci.
Le due città sono collegate da un ponte costruito con il contributo dell’Unione Sovietica negli anni 1952-’54: allora si chiamava “Ponte dell’Amicizia”, e del resto i due Paesi facevano parte entrambi del Patto di Varsavia e della comunità economica dei Paesi socialisti (Comecon); oggi i due Paesi fanno entrambi parte sia della NATO che dell’Unione Europea, però il ponte è stato ridenominato “Ponte sul Danubio”, che – non credete anche voi? – è un po’ come chiamare “Libro” un libro, “Cane” un cane, “Città” una città. Un modo per dire che si guarda al concreto quando si entra in una civiltà in cui conta la concretezza del denaro, dei numeri, dei rapporti di forza. Ma lasciamo cadere il discorso sulla nostra civiltà capitalistica superiore…
Gli abitanti delle due città condividevano tra l’altro anche l’aria che respiravano, e proprio sull’aria si creò un aspro dibattito tra una parte e l’altra del Danubio, e anche all’interno della stessa opinione pubblica bulgara.
I problemi iniziarono nell’estate 1981, quando a Giurgiu si completarono i lavori per un grande impianto chimico, lo stabilimento Verachim, dotato di attrezzature e tecnologie sovietiche considerate allora all’avanguardia.
Nella divisione programmatica del lavoro tra i Paesi socialisti riuniti nell’ambito del Comecon alla Romania spettava una parte preponderante nel settore dell’industria chimica. A questa scelta non era estraneo il fatto che la moglie del presidente della Romania e segretario generale del Partito Comunista Rumeno Nicolae Ceauşescu, Elena, aveva una laurea in ingegneria chimica; fatta oggetto di un culto della personalità quasi pari a quello del marito, Elena Ceauşescu passava per una scienziata prestigiosa in campo chimico e vantava fior di pubblicazioni sui polimeri, opere la cui paternità è stata in seguito attribuita ad alcuni scienziati rumeni costretti a quel tempo a rinunciare ai propri diritti d’autore.
Il grande complesso chimico di Giurgiu fu sfruttato per produrre cloro e suoi derivati per un carico di gran lunga superiore alle sue reali capacità. La piena funzionalità dell’impianto fu raggiunta nel 1984, quando si cominciarono già a notare delle corrosioni sulle pareti dei serbatoi, rivestiti di materiale non del tutto idoneo.
In realtà, i problemi per le popolazioni delle due città si erano manifestati già dal 1982, quando per decine di giorni si verificarono emissioni di gas che davano vita a una nebbia bianco-celeste che irritava gli occhi e la pelle, provocava disturbi respiratori, aggravava le affezioni allergiche. Capitava che nelle misurazioni periodiche le concentrazioni di cloro e suoi derivati fossero anche dieci volte superiori ai limiti consentiti dagli standard ufficiali bulgari; i limiti posti dagli organismi di controllo bulgari venivano però puntualmente contestati dai corrispondenti enti rumeni, che li consideravano esageratamente rigidi.
Nel 1984 cominciarono i primi tentativi di far conoscere a tutta la Bulgaria la situazione dell’aria a Ruse. Si mossero i sindacati, le associazioni dei docenti, il deputato locale all’Assemblea nazionale Dončo Karakačanov; vennero inviate istanze agli organi dei ministeri, furono contattati i giornali nazionali e il programma televisivo più seguito all’epoca, Ogni domenica (che corrisponde alla nostra Domenica in). Tutto inutile: la censura sulla minaccia ecologica che gravava sulla città era totale, le istanze venivano secretate, niente poteva essere reso pubblico. E così la gente di Ruse fece ricorso a mezzi informali e non ufficiali: lettere di denuncia anonime a organi di polizia e ai giornali. All’interno ancora nessun risultato, ma qualche lettera giunse anche alla sede di Radio Europa Libera, l’emittente finanziata dalla CIA che trasmetteva nelle lingue dei Paesi socialisti, enorme strumento di propaganda occidentale, molto seguita dagli strati più istruiti e engagés di quei popoli.
I rapporti tra Bulgaria e Romania non erano tra i più rosei, nonostante la facciata di Stati fratelli guidati da partiti comunisti fratelli. I motivi di frizione non mancavano a partire dalla politica: nel 1985 il leader bulgaro Todor Živkov aveva formalmente dato inizio a un percorso di “ristrutturazione” della società bulgara che era in teoria in linea con la perestrojka e la glasnost’ avviate da Gorbačëv in Unione Sovietica. Il nome bulgaro di questa iniziativa (preustrojstvo) assomigliava molto a quello russo, ma dal punto di vista della trasparenza e della messa in pubblico dei problemi sociali, economici e politici, in Bulgaria si restava indietro rispetto al “fratello maggiore”.
Nicolae Ceauşescu, dal canto suo, aveva fin dall’inizio contestato le iniziative gorbacioviane, affermando che la Romania non aveva gli stessi problemi dell’URSS e quindi le risposte non potevano essere le stesse. Il conducator rumeno puntava molto sul carattere nazionale del proprio sistema socialista, la Romania si era resa sempre più autonoma dal campo riunito nel Patto di Varsavia e nel Comecon, fino a stabilire molti rapporti economici e commerciali con i Paesi dell’Europa occidentale e con gli Stati Uniti; Ceauşescu decise anche di indebitare il Paese fino al collo chiedendo prestiti al Fondo monetario internazionale e alla Banca mondiale, e sarebbe stato proprio l’enorme debito pubblico a condurre in seguito il Paese a tentare l’esperimento di un’economia autarchica e poi alla gravissima crisi economica che avrebbe segnato la fine ingloriosa di Ceauşescu, della moglie Elena e del loro entourage politico.
Le autorità bulgare continuavano a ignorare ufficialmente la questione, anche se negli uffici del potere c’era chi cominciava a occuparsi del caso Ruse-Giurgiu, e non soltanto per motivi di ordine pubblico o di sicurezza nazionale. La sensibilità ecologista era allora in aumento in tutta Europa, e in particolare dopo il disastro di Černobyl; la Bulgaria non era certo un Paese fuori dal mondo, ma un Paese con una popolazione dall’elevato livello di istruzione, in cui il turismo era fortemente presente, gli scambi culturali erano molto attivi; i bulgari studiavano sempre più le lingue straniere e cominciavano a viaggiare all’estero con sempre maggiore facilità, anche grazie al clima positivo che la perestrojka stava riverberando anche in questo angolo sud-orientale della Penisola Balcanica. Era impensabile poter continuare a nascondere la testa sotto la sabbia e ignorare una questione del genere. Vennero create delle commissioni sanitarie di studio della questione ambientale a Ruse, e si registrarono aumenti drastici delle malattie respiratorie: in sette anni esse erano passate da 66.000 a più di 148.000; il tasso di mortalità infantile di Ruse era salito al doppio della media bulgara. Erano aumentati anche i casi di nascite di bambini con disabilità e meno della metà degli studenti di età compresa tra 8 e 15 anni presentava indicatori antropometrici normali, in particolare a livello polmonare. La popolazione della città si era ridotta di 20.000 abitanti nel giro di un paio d’anni.
Il potere non poteva più far finta di niente.
Ogni anno Todor Živkov e Nicolae Ceauşescu si incontravano di qua o di là dal confine: nel 1986, durante uno di questi incontri annuali, il presidente bulgaro sollevò con una certa rudezza il caso delle conseguenze per la popolazione dovute alle emissioni del colosso chimico rumeno di Giurgiu, e Ceauşescu rispose che per la questione bisognava rivolgersi ai sovietici, visto che erano stati loro a fornire le tecnologie per la costruzione dell’impianto.
Ecco, criticare l’Unione Sovietica in modo diretto o indiretto non era facile per Živkov: egli doveva agire con prudenza poiché era conscio del fatto che Gorbačëv vedeva in lui un ostacolo al rinnovamento del sistema socialista in Bulgaria, nonostante i parallelismi, spesso di facciata, tra perestrojka e preustrojstvo. D’altra parte, c’è chi ritiene che lo stesso Gorbačëv non si desse pena per risolvere le difficoltà interne sia di Živkov che di Ceauşescu, vedendo in ciò la possibilità di sostituire i due leader alla guida dei rispettivi Paesi. Anche a costo di ritardare la soluzione della controversia ambientale tra i due Paesi, con tutto il discapito per le popolazioni di Ruse e Giurgiu che tale ritardo comportava.
Quindi, se i giochi politici complicati, i bizantinismi, le mosse diplomatiche sotto traccia non facevano altro che dilatare i tempi e aggravare il quadro ecologico dell’atmosfera sopra il Danubio, la mossa del cavallo doveva farla la popolazione di Ruse in prima persona.
Sei donne a capo della protesta
Nel 1987 per ben 128 giorni l’inquinamento atmosferico aveva raggiunto picchi in cui la concentrazione di gas dannosi era anche 8 volte e mezzo superiore a quella massima consentita dagli standard bulgari (e ormai superavano anche quelli più modesti dei rumeni). Per strada non si respirava più. Letteralmente.
23 settembre 1987. Quel giorno era prevista una manifestazione di piazza convocata dal Partito per l’ammissione degli scolari di 10 anni all’organizzazione dei pionieri. In quel momento da Giurgiu arrivava su Ruse un odore insopportabile e alcuni bambini cominciarono a perdere i sensi. Le squadre di soccorso intervennero subito, ma nessuno interruppe la cerimonia, che venne portata a termine. A fine parata tutti i neo-pionieri si sfilarono il fazzoletto rosso e se lo misero davanti alla bocca e al naso nel vano tentativo di proteggersi dai miasmi.
La situazione era inaccettabile. Coloro che si mossero in modo decisivo per dare inizio all’ondata delle proteste furono sei donne, giardiniere e paesaggiste dell’azienda di manutenzione del verde pubblico Parkstroj: Dora Bobeva, Tsonka Bukurova, Vjara Georgieva, Stefka Monova, Albena Velkova e Evgenija Želeva.
Esse si dettero da fare nel contattare i propri conoscenti e amici per organizzare un qualche movimento dal basso per sollevare finalmente il problema dell’aria di Ruse.
Il 28 settembre 1987 le sei donne si posero alla guida di circa 500 persone che marciarono fino alla sede distrettuale del Partito Comunista Bulgaro. I manifestanti avevano preparato dei cartelli con le scritte: “Manifestazione pacifica per l’aria”, “Basta cloro!”, “Aria pulita per i nostri figli!”, “Ruse è una città condannata?”… Un cartello diceva “Dateci aria pulita!”, ma durante la protesta gli fu incollata sopra un’altra parola che trasformò lo slogan in:
DATECI ALMENO L’ARIA!
La polizia, schierata in modo discreto a difesa della Casa del Partito, non intervenne, visto il carattere del tutto pacifico della dimostrazione, e permise ad alcuni manifestanti di salire sui gradini per tenere delle allocuzioni. Pur in silenzio, i poliziotti si stavano mostrando solidali con le istanze dei manifestanti; del resto, il problema dell’aria riguardava ovviamente tutti, nessuno escluso.
Il segretario del PCB del distretto di Ruse uscì a parlare alla folla; cercò innanzitutto di calmarla elencando le misure già intraprese dal governo centrale sulla questione: una nota di protesta del Consiglio dei ministri datata 25 settembre 1987, i punti all’ordine del giorno per il successivo vertice Živkov-Ceauşescu, l’avvio delle procedure per le trattative che avrebbero dovuto portare alla ristrutturazione dell’impianto chimico rumeno. Poi però disse che non c’erano prove scientifiche dell’aumento di aborti spontanei negli ultimi anni: questa affermazione fu presa come un tentativo di minimizzare il problema, e naturalmente i rumoreggiamenti tra la folla aumentarono.
Questa del 28 settembre era la prima manifestazione non autorizzata in città, e non sarebbe stata l’ultima, visto che ne seguirono almeno altre quattro fino al febbraio 1988. Ma, soprattutto, la manifestazione rappresentò la crepa nella diga del silenzio. La stampa locale cominciò a occuparsi della questione ambientale della città e il 2 ottobre la «Dunavska Pravda», sotto il titolo Sforzi congiunti per salvaguardare la purezza dell’aria, informò per la prima volta l’opinione pubblica locale sulle iniziative del governo cittadino, del partito e del governo centrale per avviare una trattativa con la controparte rumena.
Perché nel 1987 fu possibile questo moto dal basso? Perché sei donne trovarono il coraggio che nessuno aveva avuto nel 1982 o nel 1984? Sicuramente un contributo lo dette l’aumento delle emissioni nocive della fabbrica chimica e l’aggravarsi delle condizioni dell’aria, ma altrettanto certamente il clima nuovo innestato dalla perestrojka gorbacioviana in tutto l’Est europeo aveva contribuito a far emergere istanze sacrosante: la repressione pura e semplice, la censura totale, la cappa di silenzio nel nuovo clima del socialismo di questa parte del decennio non erano più possibili. Ora cittadini e giornalisti, intellettuali e studenti, membri delle varie organizzazioni sociali, anche vicine al Partito, volevano avere voce in capitolo sul destino del proprio Paese e dei propri territori. Era da Mosca che veniva questo messaggio, questo impulso alla messa in discussione di tutto, al farsi carico delle questioni che prima lasciavano del tutto indifferenti, delegando tutto a un potere distante e chiuso al confronto.
A livello nazionale il primo organo di stampa a esporre dettagli sulla vicenda fu il «Literaturen front» (Fronte letterario), organo dell’Associazione degli scrittori, un giornale molto attivo nel preustrojstvo bulgaro: il titolo dell’articolo era Aria per la glasnost’. In esso si parlava apertamente di gente scesa in piazza a Ruse per chiedere aria pulita. Era la prima volta che i problemi dell’aria di Ruse potevano essere percepiti anche dai cittadini di Sofia, di Plovdiv, di Varna…
Il 15 novembre fu l’organo centrale del PCB, il «Rabotničesko delo» (Azione operaia), a informare parzialmente sulle difficoltà ambientali che si stavano verificando a Ruse, senza però citare la causa prima dell’inquinamento dell’aria, sicuramente per non provocare reazioni da parte della “fraterna” stampa di parte rumena.
Le tessere della protesta si andavano via via componendo. Dal 9 dicembre 1987 al 22 gennaio 1988 alcuni giovani artisti di Ruse organizzarono una mostra tematica dal titolo “Ecologia – Ruse 1987”, che trovò risonanza sulla stampa nazionale e dette ulteriore coraggio alla popolazione, mobilitando anche l’intelligencija della capitale.
La protesta delle mamme coi passeggini
Intanto la produzione di cloro e derivati dall’altra parte del Danubio non accennava a diminuire, e neanche le conseguenze sull’aria di Ruse.
Il 10 febbraio 1988 le madri coi bambini uscirono di casa per protestare. La manifestazione assunse il carattere di un malcontento di massa in tutta la città. Stavolta i dimostranti radunati davanti alla sede del PCB erano svariate migliaia. Facevano impressione le file iniziali, composte da madri con bimbi piccoli nelle loro carrozzine.
La protesta era ancora pacifica, ma gli slogan cominciavano a prendere di mira il potere politico. In seguito questa manifestazione sarebbe stata ricordata come una delle prime contro il potere del Partito Comunista. Proprio a questa manifestazione partecipava con la sua telecamera un giovane autore di documentari che lavorava per lo studio Ekran, Juri Žirov, che ne trasse il film documentario Dišaj (Respira): si trattò di una documentazione filmata importante per la storia stessa della Bulgaria, perché venivano registrate forse per la prima volta le proteste contro il potere e contro il Partito. Il video è a disposizione su YouTube nella versione bulgara (https://youtu.be/noJMw-TZx8s?si=0tzDigljLNESKGHt).
Le immagini insistono sui volti dei manifestanti e sulle mamme coi passeggini, sui cartelli che chiedevano la chiusura dell'impianto al di là del fiume e del confine. L'audio invece riporta voci isolate e slogan scanditi in coro, le richieste dei cittadini erano sempre le stesse ormai da qualche anno, non dovevano essere una sorpresa. Invece dal video si nota che una persona sorpresa da quel movimento di popolo c’era: si trattava dell’ex primo ministro Griša Filipov, membro del Politbjuro del PCB. Lì per lì doveva aver capito che quella gente si era radunata per dargli il benvenuto per la sua visita in città; poi l’imbarazzo quando realizzò che il motivo era un altro.
Arrivò un megafono. Un dirigente cittadino cercava di spiegare che il governo stava facendo il possibile per trattare con la controparte rumena: l’obiettivo era secondo lui un «remont» (ristrutturazione) del colosso industriale, al che la piazza reagì all’unisono scandendo «DE-MON-TÀŽ!, DE-MON-TÀŽ!» (smantellamento!).
A quel punto prese il microfono lo stesso Griša Filipov, certo che la propria autorevolezza avrebbe avuto un effetto tranquillizzante. Ma partì male, dicendo che aveva mal di gola proprio come chi stava in basso ad ascoltarlo; una specie di captatio benevolentiae e un tentativo di porsi amichevolmente al livello degli interlocutori che non sortì l’effetto sperato. Egli continuò assicurando che i cittadini di Ruse non erano soli, che la questione ambientale della loro città era ormai un problema nazionale, che i compagni Živkov e Ceauşescu avrebbero presto trovato una soluzione. Già qui partirono delle voci di disapprovazione. Poi Filipov ebbe l’altra pessima idea di dire che era necessario avere ancora pazienza, che bisognava avere fiducia nel Partito e nel governo… Avrebbe potuto immaginare quale sarebbe stata la reazione del pubblico, ma – si sa – il potere dà alla testa e ti fa perdere il contatto con la realtà. Fu sommerso dalle proteste. Probabilmente non aveva mai provato prima quell’esperienza.
I cittadini di Ruse erano stanchi della situazione e delle vuote parole che avevano udito fino ad allora. Pazienza non ne avevano più, fiducia manco a parlarne.
“La protesta delle mamme coi passeggini”: con questo nome sarebbe stata ricordata la manifestazione del 10 febbraio 1988; era iniziata come una lotta di stampo civile e sociale, ma poi, allargandosi oltre i confini della città, andava assumendo sempre più il ruolo di un movimento di opposizione a Todor Živkov e al PCB. A livello locale e nazionale a questo movimento presero parte sia dissidenti che sostenitori del sistema politico, compresi membri del Partito Comunista, alcuni dei quali furono in seguito espulsi; sì, perché va bene manifestare per l’aria pulita, ma se poi si mettono in discussione i meccanismi del potere, le modalità in cui vengono prese le decisioni politiche, i ruoli dei dirigenti locali e nazionali, allora la cosa interessa eccome gli organi della sicurezza statale (leggi polizia e servizi segreti), che iniziano a fermare, schedare, interrogare gli organizzatori delle varie iniziative.
L’ondata era ormai inarrestabile. Un appello per Ruse da parte dell’Unione degli artisti bulgari comparve già il 12 febbraio sul giornale «Narodna kultura» (Cultura popolare) e il 18 ancora sul «Literaturen front» apparve un altro articolo dal titolo esplicito: Ogni respiro è una maledizione.
Intanto Juri Žirov aveva ultimato il montaggio del suo documentario, cui le autorità avevano subito negato l’autorizzazione alla riproduzione pubblica. Si era nel frattempo mobilitato anche il mondo accademico, docenti dell’Università di Sofia e membri dell’Accademia Bulgara delle Scienze avevano cominciato a scrivere ai vertici del Partito e dello Stato, qualcuno scrisse anche a Gorbačëv.
L’8 marzo 1988, dopo le celebrazioni per la Giornata internazionale della donna, sfidando il divieto deciso dalle autorità bulgare, centinaia di persone, tra cui spiccavano intellettuali e membri del PCB, si dettero appuntamento a Sofia al “Dom na kinoto” (Casa del Cinema) per assistere alla prima proiezione del documentario Respira.
Subito dopo sorse un “Comitato pubblico per la salvaguardia ecologica di Ruse” cui presero parte molti esponenti dell’arte e della cultura, membri del Partito e del Parlamento, esponenti della Resistenza al nazifascismo, ecc. Era evidente che il potere politico era già diviso al suo interno, il collante ideologico del PCB non reggeva più da tempo, e la fazione che si contrapponeva alla segreteria di Živkov era scesa in campo. E sarebbe stato proprio un movimento ecologista, l’anno dopo, nel fatidico 1989, a capeggiare le manifestazioni dell’opposizione al sistema socialista che dava il monopolio del potere al Partito Comunista Bulgaro e al suo alleato di sempre, il Partito dei Contadini: il nome di questo movimento di opposizione era indicativo, “Ekoglasnost”.
Torniamo a Ruse, al 1988. Le emissioni gassose dell’enorme complesso chimico rumeno continuavano, così come le manifestazioni di protesta degli abitanti della città. Le autorità nazionali avevano nel frattempo aumentato le pressioni sulla controparte che si trovava al di là del Danubio, e a luglio la Verachim chiuse finalmente il sito n. 1, quello che produceva il cloro puro; continuavano però ad operare gli altri settori, anch’essi produttori di veleni per l’aria.
Il 10 novembre 1989 Todor Živkov venne destituito e qualche tempo dopo il Partito Comunista Bulgaro divenne Partito Socialista Bulgaro, rinunciando al monopolio del potere e iniziando un percorso per l’introduzione del pluripartitismo. Nel dicembre 1989 la televisione di Stato trasmise il documentario Respira. Nello stesso mese, come sappiamo, finì nel sangue la vicenda politica e umana di Nicolae ed Elena Ceauşescu.
Pur in quella grande bolgia politica che fu la caduta come birilli degli Stati socialisti dell’Europa dell’Est, la questione ambientale a Ruse continuò ad avere una grande attenzione da parte dell’opinione pubblica e da parte della politica bulgara.
Nel 1991 intense trattative intergovernative e alcuni incontri serrati tra il presidente bulgaro Želiu Želev e quello rumeno Ion Iliescu portarono infine alla definitiva interruzione della produzione da parte del gigante chimico sul Danubio. Ruse poteva sperare di tornare ad esser considerata “la piccola Vienna della Bulgaria”.
🔴 Leandro Casini
PS. Nel settembre 1987 mi trovavo in Bulgaria. Il mio terzo viaggio nel Paese balcanico toccò molte province e città: Sofia, Plovdiv, Blagoevgrad, Gabrovo, Sliven, Šumen, Kazanlăk… Non Ruse. Masticavo il bulgaro, poiché studiavo russo già da diversi anni e le due lingue sono abbastanza simili, soprattutto nel lessico. Ogni giorno sfogliavo i giornali, talvolta guardavo i telegiornali, ed effettivamente non ebbi in quel mese nessun sentore di ciò che stava accadendo a Ruse. Lo scoprii molti anni dopo.
In realtà non ero lì per turismo, ma alla ricerca di tracce di scontri (così si era detto sulla nostra stampa) che pareva si fossero verificati in alcuni centri di provincia tra la forte minoranza turca e la polizia. Ecco il perché dei miei soggiorni a Šumen e Kazanlăk. In particolare, pareva – così era stato scritto – che a Šumen l’esercito avesse incendiato e ridotto in rovina la moschea Tombul Džamia, la più grande moschea dei Balcani se si eccettuano quelle di Istanbul: la trovai integra al proprio posto, ci consumai mezzo rotolino per fotografarla, e mi convinsi ancor di più che non dovevo fidarmi di tutto ciò che sui Paesi socialisti veniva scritto dalla stampa occidentale. È vero però che non mancarono in quegli anni proteste e scontri tra turchi e polizia in seguito a una legge che imponeva la slavizzazione dei cognomi dei cittadini della Repubblica Popolare di Bulgaria appartenenti alla minoranza turca. Un modo del governo bulgaro per prendere una rivincita postuma sul giogo imposto dall’Impero Ottomano ai bulgari nei secoli precedenti, uno scivolamento pericoloso verso il nazionalismo e il revanscismo davvero improprio per un governo che si voleva comunista. Ne parleremo in uno dei prossimi articoli in questa pagina di “Frammenti balcanici”.
L.C.
Sitografia
- https://socbg.com (Градът, в който птиците рядко кацаха)
- http://notabene-bg.org („Анатомия на един граждански протест в България в края на социализма: случаят „Русе“, Автор: Илияна Марчева)
- bnt.bg (“Новите стари истории” – Обгазяването на Русе през 80-те години)
- http://silvistefanov.blog.bg („Градът на оцеляващите“)
Inserito il 18/05/2025.
Dišaj (Respira) è un documentario di Juri Žirov che nel 1987-88 registrò le manifestazioni di protesta dei cittadini di Ruse contro le autorità accusate di ritardare le iniziative per costringere la Romania a chiudere il dannoso impianto chimico di Giurgiu, sull’altra sponda del Danubio.
Il complesso chimico Verachim di Giurgiu (Romania).
Fonte della foto: https://www.24chasa.bg/bulgaria/article/15286215
Todor Živkov e Nicolae Ceauşescu.
Fonte della foto: https://www.romatimes.news/index.php/en/categories/politics/4873-the-people-of-roma-blood-who-ruled-bulgaria-moldova-and-romania
Monumento dedicato ai bambini deportati di fronte al Museo dell’Olocausto macedone, Skopje (Meridiano 13/Nicola Zordan).
Fonte della foto: https://www.meridiano13.it/wp-content/uploads/2024/02/museo-Olocausto-macedone-Skopje.jpeg
Dal sito «meridiano13.it»
Bulgaria vs Macedonia del Nord
di Nicola Zordan
Mentre il 10 marzo a Sofia si celebra la “Giornata del salvataggio degli ebrei bulgari”, l’11 marzo a Skopje si ricorda l’Olocausto macedone.
La questione degli ebrei bulgari e macedoni attraverso le visite al Museo Nazionale di Storia della Bulgaria a Sofia e al Museo dell’Olocausto macedone a Skopje: due narrazioni e interpretazioni degli eventi della Seconda guerra mondiale diametralmente opposte e confliggenti, con ricadute tutte attuali sulle relazioni diplomatiche tra i due stati confinanti.
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Olocausto macedone, narrazioni a confronto
di Nicola Zordan
Ohrid, ottobre 2022: l’apertura di un circolo culturale bulgaro dedicato allo zar Boris III scatena le ire dei macedoni, che interpretano l’avvenimento come una bassa provocazione da parte di Sofia. Tra la folla compare un cartello, che recita “Con i fascisti non si tratta” (Со фашисти не се преговара). Il rimando è duplice: da un lato si fa riferimento alle negoziazioni in corso sull’allargamento dell’Ue in Macedonia del Nord, ostaggio dei diktat bulgari e del loro potere di veto in sede di Consiglio dell’Ue; dall’altro al ruolo assunto dalla monarchia bulgara nel corso della Seconda guerra mondiale, quando si schierò con le forze dell’Asse e occupò militarmente quasi tutto il territorio corrispondente all’odierna Macedonia del Nord.
Secondo quello che oramai è andato a costituirsi come un vero e proprio topos comune nella narrazione politica macedone, abbracciato in maniera bipartisan tanto dai conservatori di Vmro-dpmne quanto dalla sinistra di Levica, c’è dunque una sostanziale continuità tra i bulgari occupatori e fascisti della Seconda guerra mondiale e i bulgari di oggi. Questi ultimi sarebbero rei di promuovere una politica di “bulgarizzazione” della cultura, lingua e storia macedoni, esigendo da Skopje la promulgazione di riforme irricevibili come lasciapassare per l’ingresso in Ue.
Dall’altra parte del confine, invece, non si parla di occupazione in riferimento ai drammatici eventi avvenuti tra il 1941 e il 1944, ma piuttosto di amministrazione territoriale; le richieste mosse ai macedoni vengono giustificate in termini di tutela della minoranza bulgara in Macedonia del Nord – tutela che, vale la pena sottolinearlo, non è invece concessa alla minoranza macedone in Bulgaria.
Uno dei tanti tavoli ai quali si gioca questa partita di narrazioni e contronarrazioni tra Bulgaria e Macedonia del Nord – nonché uno dei più confliggenti e, proprio per questo motivo, esemplificativi – riguarda però il modo in cui è ricordato l’Olocausto in ciascuno dei due paesi confinanti. O, per essere più specifici, come l’Olocausto macedone sia ricordato in Macedonia del Nord e come (non) sia ricordato in Bulgaria.
La narrazione di Sofia: il salvataggio degli ebrei bulgari
Non c’è modo migliore di analizzare la narrativa nazionale di un determinato evento storico che armarsi di spirito critico e visitare l’offerta museale di un paese. Il Museo Nazionale di Storia della Bulgaria in questo senso è illuminante. L’edificio, ex residenza governativa dell’ultimo presidente della Repubblica popolare di Bulgaria, Todor Živkov, si sviluppa nella periferia sud-occidentale di Sofia, su una superficie complessiva di 6mila metri quadrati, suddivisa in cinque sezioni che accompagnano il visitatore alla scoperta dei momenti salienti della storia del paese balcanico.
La sezione relativa al Principato e al Regno di Bulgaria, a confronto delle altre, colpisce per la propria modestia. Al suo interno, più di 30 vetrine sono dedicate allo sviluppo del paese a seguito dell’indipendenza dall’Impero ottomano (1878). Solo un paio affrontano gli anni della Seconda guerra mondiale.
Di queste, una è dedicata interamente all’Olocausto. Su tutto, svetta un grande trofeo a forma di menorah. Le didascalie informano il visitatore che si tratta di un dono della comunità ebraica di Washington al presidente bulgaro Želju Želev (1990-1997) per il “salvataggio degli ebrei bulgari nella Seconda guerra mondiale”. Una seconda targa esprime la gratitudine degli ebrei americani al “popolo giusto” della Bulgaria, che ha rischiato la vita per evitare la deportazione dei propri connazionali di origine ebraica. Ecco qui condensata l’intera narrazione bulgara attorno all’Olocausto: il “popolo giusto” bulgaro che salva da deportazione e morte certa l’intera comunità ebraica nazionale, costituita da più di 48mila individui.
Se tuttavia la resistenza dello zar Boris III (lo stesso del centro culturale aperto a Ohrid) alle pressioni tedesche, che pretendevano l’esecuzione della soluzione finale anche nell’alleata Bulgaria, è degna di nota, restano molte lacune importanti nella narrazione degli eventi. Innanzitutto non vi è alcun riferimento al clima antisemita che pur si respirava in territorio bulgaro all’epoca dei fatti: ancora prima di aderire al patto tripartito, su iniziativa del primo ministro germanofilo Bogdan Filov, misure a difesa della razza e apertamente antisemite erano già state prese, come la legge per la protezione della nazione promulgata dal parlamento bulgaro nel 1941. Campi di lavoro entro i quali veniva confinata in condizioni pietose la popolazione bulgara di origini ebraiche restarono in attività fino alla resa di Sofia.
In secondo luogo, non è minimamente menzionata la responsabilità delle autorità bulgare nella deportazione degli ebrei dalle aree occupate. Solo un pannello informativo marginale informa i visitatori più attenti che “11.363 ebrei della Macedonia Egea e della Macedonia di Vardar furono deportati”, senza accennare in alcun modo al fatto che le deportazioni fossero state organizzate e gestite dalle forze d’occupazione bulgare.
Un lapsus tutt’altro che casuale, come ci confermano le dichiarazioni di Božidar Dimitrov, ex ministro del governo Borisov e direttore del museo. Per Dimitrov, gli ebrei macedoni non furono deportati dalle autorità bulgare, e questo sarebbe dimostrato dal fatto che, altrimenti, l’intera popolazione ebraica bulgara avrebbe seguito la stessa sorte. Ciò invece non avvenne “perché erano cittadini bulgari” e dunque scamparono alla Shoah. Ma chi è dunque il colpevole per l’Olocausto macedone? Il parere di Dimitrov è netto:
Nel 1941, la Germania vietò alla Bulgaria di concedere la cittadinanza bulgara a circa 11.000 ebrei macedoni. (…) Gli ebrei macedoni furono mandati nei campi di sterminio dai tedeschi come parte della cosiddetta “soluzione finale”.
La responsabilità, quindi, nonostante i territori incriminati fossero sotto diretta amministrazione di Sofia, secondo Dimitrov, non sarebbe da attribuire alle autorità bulgare, ma a quelle tedesche. In questa chiave di lettura distorta l’Olocausto macedone sarebbe avvenuto perché gli ebrei macedoni non erano considerati cittadini bulgari, a differenza degli ebrei di Bulgaria, e in quanto tali sono potuti essere stati deportati nei campi di concentramento nazisti. Una facile via di fuga da un passato con il quale è difficile fare i conti.
La narrazione di Skopje: occupazione e Olocausto macedone
Se al Museo Nazionale di Storia della Bulgaria l’Olocausto macedone viene relegato a poche righe di una stanza dedicata al Principato, a Skopje è stato costruito un museo intero a due passi dalla piazza principale della città. Inaugurato nel 2013 nel bel mezzo del mastodontico piano di restyling della città noto come “Skopje 2014”, il museo risulta all’avanguardia sia dal punto di vista architettonico che di offerta multimediale al suo interno.
Si inizia al pian terreno con la visione di sagome umanoidi che reggono foto di ebrei deportati, cornici vuote o specchi. L’intento di questo espediente è quello di far immedesimare il visitatore nei panni di una delle vittime dell’Olocausto macedone sin dal primo momento.
Proseguendo si sale una scalinata dove è possibile informarsi sulla storia del popolo ebraico, dalle origini fino alla contemporaneità. Al primo piano, infine, si giunge al cuore del museo: l’occupazione bulgara dal 1941 al 1944. Differentemente rispetto a quanto appreso a Sofia, si ripercorre con dovizia di particolari lo smembramento della Jugoslavia da parte delle forze dell’Asse, l’occupazione della Macedonia avvenuta il 18 aprile e l’imposizione della cittadinanza bulgara “a tutti i popoli della Tracia e della Macedonia, ad esclusione degli ebrei”.
A sostegno di questi sviluppi viene fornita un’ampia documentazione fotografica ed audiovisiva, arricchita dalle testimonianze dei superstiti, senza che venga censurata in alcun modo la brutalità delle truppe bulgare nei confronti della minoranza ebraica. Allo stesso modo non si tace l’esperienza degli ebrei bulgari, ma piuttosto che come un “salvataggio”, viene qui presentata come una mancata deportazione.
Infatti poco oltre un altro cartello descrittivo riporta la seguente nota informativa:
Le notizie del destino riservato agli ebrei dei territori occupati innescò una forte reazione pubblica. Una delegazione di bulgari assistita dal vicepresidente del parlamento, Dimitar Pešev, e da 43 parlamentari presentò al governo una decisa protesta. Grazie agli sforzi e all’intervento di personaggi pubblici influenti sul regime, nonché all’opposizione della Chiesa ortodossa bulgara, l’ordine di deportazione fu annullato. 48mila ebrei bulgari originari dei vecchi confini della Bulgaria non furono né deportati né uccisi.
La decisione dello zar Boris III viene qui presentata sotto una luce diversa, in quanto attore più passivo che attivo sulla fatidica decisione che porterà alla sopravvivenza della comunità ebraica bulgara: appare infatti più spinto dall’impegno diretto della società civile del suo stesso paese piuttosto che mosso da sinceri intenti umanitaristici. Ecco però che poco più avanti viene fatta una precisazione: “Solo quando i cittadini ebrei bulgari furono minacciati di deportazione parlamentari, leader ecclesiastici, avvocati e scrittori protestarono e chiesero la protezione dei loro concittadini. Ma per gli ebrei macedoni non è servito a nulla”. Come a dire che la mobilitazione avvenne, ma fu solo quando furono i bulgari ad essere minacciati, mentre nessuno in Bulgaria manifestò in difesa degli ebrei macedoni.
A seguito di questa sezione informativa – che va notato essere colma di riproduzioni e riferimenti nazi-fascisti, dai manifesti propagandistici alle bandiere con la svastica – si discende una seconda scalinata, dopo la quale si è costretti ad attraversare la replica di un carro bestiame delle ferrovie dello stato bulgare utilizzato per la deportazione degli ebrei e l’attuazione dell’Olocausto macedone (la provenienza del carro è palesata dalla sigla delle ferrovie bulgare riportata sulla fiancata esterna).
Dopo aver attraversato il carro, ci si imbatte in una replica in miniatura del campo di sterminio di Treblinka, destinazione finale degli internati. Qui vennero deportati 4.221 ebrei dalla Tracia occidentale e dalla provincia greca della Macedonia, oltre a 7.148 ebrei dalla Vardar Macedonia, spazzando via per sempre la secolare comunità ebraica che vi si era insediata. Di questi, solo 12 fecero ritorno.
La memoria come strumento per politiche identitarie
Nonostante la narrazione ufficiale sull’Olocausto macedone risulti decisamente più accurata e meno fuorviante a Skopje piuttosto che a Sofia, nemmeno la Macedonia del Nord può considerarsi esente da ogni critica rispetto a questo aspetto. Non tanto in termini contenutistici – sicuramente più fedeli alla realtà e completi nell’esposizione dei fatti – quanto nei modi e nei fini. Rispetto ai primi, l’iper-immedesimazione imposta al visitatore nei confronti degli ebrei vittime dell’Olocausto macedone – arrivando a farlo salire su una fedele riproduzione di un carro bestiame utilizzato per la deportazione – può risultare eccessiva, sconfinando dall’esposizione oggettiva degli eventi alla ricerca di un forte coinvolgimento emotivo. Con quale fine?
Questa domanda ci porta al secondo punto e, circolarmente, all’inizio dell’articolo. Se è importante ricordare, infatti, è altrettanto importante interrogarsi su come si ricorda, sul perché si ricorda. L’istituzione del “Giorno della memoria” a livello internazionale ha un fine ben preciso: ricordare la Shoah e fare in modo che il ricordo impedisca a simili barbarie di riaffacciarsi nuovamente nel corso della storia umana.
Accanto a questo fine, la narrazione sull’Olocausto macedone da parte di Skopje ne definisce però un altro, ben più attuale e politicizzato: la difesa dell’identità macedone, messa recentemente in discussione proprio da Sofia con pressioni e dichiarazioni politiche volte a negare o sminuire l’esistenza di una popolazione macedone con tradizioni, lingua e cultura distinte da quelle bulgare. In questo modo, all’insinuazione proveniente dall’altro lato del confine di un’identità macedone quale “invenzione di Tito”, i macedoni rispondono tracciando un parallelismo tra gli anni Quaranta e il Ventunesimo secolo, tra gli occupatori bulgari alleati dei nazisti e dei fascisti e l’élite politica d’oltreconfine di oggi. Se la Bulgaria di ieri occupò militarmente la Macedonia, oggi cerca di “bulgarizzarla” culturalmente.
A sostegno della narrazione del “bulgaro fascista”, il ricordo dell’Olocausto macedone è utilizzato strumentalmente per rafforzare l’immagine dei bulgari come occupatori, violenti e revanscisti, e per compattare la popolazione a difesa della propria identità nei confronti di aggressive ingerenze esterne. Non si fa del revisionismo storico (tendenza invece ben più marcata all’altro lato del confine, come abbiamo visto), ma la retorica costruita attorno alla memoria non può essere definita esattamente riconciliante, nella misura in cui viene utilizzata per etichettare la Bulgaria di oggi. Bulgaria che, d’altro canto, con le sue posizioni – quando non aperte provocazioni – sulla questione macedone non fa molto per stemperare la situazione.
Lo sciovinismo, potremmo chiosare, genera altro sciovinismo.
Nicola Zordan
(Tratto da: https://www.meridiano13.it/olocausto-macedone-narrazioni-a-confronto/).
Inserito il 08/03/2025.
Da «QF Quaderni di Farestoria»
di Stefano Bartolini
Un breve saggio sul sistema politico-economico della Jugoslavia dal dopoguerra alla crisi generata dai nazionalismi riemersi con forza al venir meno dell’autorevole figura carismatica di Tito.
«Farestoria» è il periodico dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’età contemporanea in provincia di Pistoia.
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Un socialismo diverso. L’Autogestione in Jugoslavia
di Stefano Bartolini
Il 28 giugno del 1948, con la risoluzione di Bucarest, la Jugoslavia veniva espulsa dal Cominform. Era il culmine di una crisi che trovava le sue ragioni nel fiero autonomismo dei comunisti jugoslavi dall’URSS, nonché in frizioni di politica estera dovute in particolare ai progetti di federazione balcanica mal visti da Mosca. La rottura metteva in discussione la pedissequa replica del modello sovietico seguita fino ad allora, con il varo nel 1946 di una costituzione federale che riproduceva quella dell’URSS del ’36, l’avvio della collettivizzazione nelle campagne e del primo piano quinquennale1. Ma invece di capitolare ed “andare a Canossa”, come forse si aspettava Stalin, gli jugoslavi proclamarono allora la propria diversità e originalità nel campo socialista.
All’inizio Tito ed i suoi furono disorientati, ma quando fu chiaro che la rottura era definitiva, lo “scisma” pose ai dirigenti comunisti un pressante problema di identità e legittimazione sia all’interno, con i propri militanti legati al mito e al modello sovietico, che all’esterno, verso il resto della compagine del comunismo internazionale. La questione non era di facile soluzione per gli jugoslavi che, orfani dell’URSS, avvertivano l’esigenza di differenziarsi per mantenere il potere e sopravvivere. In gioco c’era la stessa evoluzione in senso socialista del Paese: nel contesto di incipiente guerra fredda, una Jugoslavia abbandonata dai sovietici che non avesse trovato una propria via poteva diventare preda del capitalismo occidentale. Gli USA, non a caso, capirono subito che si poteva aprire una finestra di opportunità e si mossero per tenere a galla Tito, includendo il Paese nell’UNRRA con lo Jugoslav Emergency Relief Act2.
Così gli jugoslavi arrivarono a partorire il proprio inedito disegno, che avviava un’esperienza rimasta unica e singolare nella storia degli esperimenti comunisti, l’Autogestione. I dibattiti del pensiero socialista furono scavati alla ricerca degli elementi su cui basare la nuova teoria, passando da Owen, Fourier, Proudhon, Marx, Lenin e recuperando una distinzione tra “nazionalizzazione” e “socializzazione” dei mezzi di produzione, tramite la quale leggere l’involuzione statalista e burocratica dell’Unione Sovietica. Ferma restando l’interpretazione della Rivoluzione d’ottobre come primo tentativo di introdurre l’autogestione operaia, accanto a questo riferimento fu ripreso l’esempio della Comune di Parigi per quanto atteneva alle forme di governo locale. Quest’ultimo modello permise di mettere subito in essere i primi provvedimenti, con la legge del 28 maggio 1949, innestandoli sugli istituti sperimentati durante la lotta partigiana nelle aree liberate, i Consigli popolari3. L’anno successivo, il 27 giugno 1950, ve niva varata la Legge sul passaggio delle fabbriche alla gestione operaia. L’articolo 1 stabiliva:
Fabbriche, miniere, comunicazioni, trasporti, commercio, agricoltura, silvicoltura, aziende comunali e altre aziende statali, in quanto proprietà pubblica, sono gestite dai collettivi di lavoro a nome della comunità sociale nel quadro del piano economico statale […]. I collettivi di lavoro esercitano questa gestione attraverso i consigli operai e i comitati di gestione delle aziende e delle associazioni economiche in cui sono riunite numerose aziende.4
Nel giro di breve tempo vennero varati i Consigli operai e quelli dei produttori, questi ultimi inseriti negli ambiti repubblicani e federali, e già nel 1950 esistevano 200 aziende autogestite. Ma l’Autogestione comportava un processo di revisione ideologica molto più profondo – che i comunisti jugoslavi non saranno in grado di portate a termine –, dando vita ad un assetto sconosciuto nei paesi dell’est. Iniziava un percorso che avrebbe dovuto investire quattro elementi cardine di ogni struttura statale: democratizzazione; de-statalizzazione; de-burocratizzazione; decentralizzazione. Era un orizzonte ambizioso, tant’è che nel ’49 Djlas sostenne che la nuova Jugoslavia non aveva bisogno del passato ma solo del futuro5.
L’Autogestione non riguardava solo l’organizzazione della produzione, ma lo stesso assetto istituzionale, con una dialettica fra centro e periferia che vedrà alternarsi la preferenza verso i comuni o le Repubbliche federali in funzione del prevalere di questa o quella corrente all’interno della dirigenza comunista. Il socialismo jugoslavo puntava ad un rapporto fra autogoverno e autogestione economica di tipo bilaterale e bidirezionale al fine di realizzare la socializzazione del potere, creando una forma avanzata di democrazia che superasse la partitocrazia occidentale6.
Al tempo stesso, la diversità socialista comportava in politica estera scelte capaci di rompere la rigidità dei blocchi della guerra fredda, per trovare una collocazione autonoma. Una ricerca che si incontrerà con la decolonizzazione e che nel 1956 approderà alla nascita del movimento dei paesi “non allineati”, il cui primo vertice ebbe luogo a Belgrado nel 1961.
Anche il partito cambiò nome e nel 1952 il KPJ si trasformò nella Lega dei comunisti jugoslavi, SKJ, la cui organizzazione era ancorata al sistema federale. Un cambiamento che in teoria doveva portare all’abbandono della concezione sovietica del partito, ma nella pratica il suo ruolo come centro propulsivo e guida della società non venne meno. Anche il Fronte popolare nel 1953 mutò nome in Alleanza socialista, e in teoria avrebbe dovuto essere il cuore pulsante dell’Autogestione7.
In linea con questi orientamenti, nel ’52 venivano riorganizzati i comuni, aumentandone l’autonomia, mentre gli elementi autogestionari venivano estesi al di fuori della produzione di beni tangibili in senso classico marxista, allargandosi a scuole e ospedali ed alle aziende con più di 30 lavoratori8.
Per sancire la svolta, nel 1953 venne varata la seconda costituzione, che spingeva il decentramento decretando la fine dei ministeri centrali federali, sostituiti con appositi dipartimenti repubblicani, eccezion fatta per quelli della Difesa, dell’Interno e degli Esteri. Il Comune diventava l’unità fondamentale del potere locale, si aumentavano le prerogative dei Consigli popolari e si istituivano a tutti i livelli (federale, repubblicano e locale) delle camere dei produttori in rappresentanza dei lavoratori. Inoltre, si passava a un meglio calibrato piano annuale e la collettivizzazione aveva termine, anche se si incentivava la costituzione di cooperative. Ai lavoratori veniva riconosciuto il diritto all’autogestione e in alternativa alla proprietà statale, ed a quella privata, si proclamava la “proprietà sociale” dei mezzi di produzione, sottoposti a “gestione sociale”. Una proprietà che mancava di intestatario, non essendo né dello Stato né dei gruppi di lavoratori ma bensì dell’intera società.
L’articolo 4 identificava i tre punti cardine del nuovo sistema: «La proprietà sociale dei mezzi di produzione, l’autogestione dei produttori nell’econonia e l’autogoverno del popolo lavoratore nel comune, nelle città e nel distretto»9. Tito, parlando davanti all’Assemblea del popolo, incitava quello stesso anno alla lotta contro il burocratismo e rigettava qualsiasi ombra di “deviazionismo” dal marxismo:
Desidero in primo luogo analizzare la sostanza della nostra via verso il socialismo. Si tratta di qualcosa di nuovo, che richiede una spiegazione teorica, che nega la validità, almeno su alcuni punti, della teoria marxista nel momento attuale? È evidente che non è così. La sostanza della nostra via al socialismo, o, per meglio dire, al comunismo, si può definire in poche parole: la nostra via al socialismo consiste nel mettere in pratica la teoria marxista nel momento attuale e in collegamento – il più stretto possibile – con le condizioni specifiche del nostro paese. Per noi questa teoria non è un dogma, ma un metodo per gestire la società.10
Il decentramento continuò ad essere approfondito con ulteriori interventi sui comuni e i distretti nel ’55, ’57 e ’59. Circolarono addirittura progetti per abolire le repubbliche e mantenere solo i comuni, che furono ridotti di numero e aumentati nelle dimensioni, passando dagli 11.556 del 1946 ai 1.479 del 195511. Con il 7º congresso della SKJ nel 1958 veniva varato un Programma d’azione che proclamava il superamento del lavoro salariato tramite la trasformazione dei lavoratori in produttori e gestori diretti della proprietà sociale («il lavoro diventa libero, mentre i rapporti di lavoro perdono il carattere di lavoro salariato»), e tratteggiava le linee di sviluppo della società autogestita, inquadrata come forma specifica di estinzione dello Stato (richiamandosi al Lenin di Stato e rivoluzione del 1917)12. Attraverso l’autogoverno e l’autogestione lo Stato avrebbe perso sempre più di importanza, fino a scomparire, come il capitalismo, dentro alla nuova democrazia socialista: «il socialismo si sviluppa in Jugoslavia da un lato mentre ancora esiste ed assolve ad una importante funzione lo Stato, dall’altro mentre sussiste ancora la produzione mercantile». Se ne concepiva la sopravvivenza nella fase transitoria – dalla durata indefinita – come strumento per assicurarne il corretto svolgimento, ma in via residuale, in un delicato equilibrio, quasi un bilanciamento di poteri:
Ben sapendo che fin quando esiste lo Stato non viene meno nemmeno il pericolo che esso assuma un potere autonomo ed inasprisca così le esistenti contraddizioni nello sviluppo socialista e le renda antagonistiche, la Lega dei comunisti ritiene che nella fase attuale di sviluppo sociale della Jugoslavia lo Stato avrà un ruolo positivo nella misura in cui esso stesso evolverà verso una tale strutturazione democratica attraverso la quale si esprimano e si armonizzino gli interessi dei fattori socialisti fondamentali: i produttori, i collettivi di lavoro, le comuni e la società come comunità di produttori. In altri termini, la funzione dello Stato sarà progressiva nella misura in cui le contraddizioni che sorgano su tale base potranno trovare in esso una soluzione democratica, senza intralciare, da un lato, l’autonomia del produttore socialista e la sua iniziativa economica e sociale e senza permettere, dall’altro lato, che le inevitabili contraddizioni si trasformino in spontaneità anarchica ed in conflitti antagonistici, i quali condurrebbero alla distruzione delle basi del socialismo.13
Ma negli anni Cinquanta iniziarono già a manifestarsi le prime crepe. Fu Djlas a contestare frontalmente il sistema. Nel 1954 sostenne che nella società esisteva un pluralismo di interessi, preludio a quello politico, evidenziando la contraddizione di un modello che riconosceva la massima democrazia dal basso e quindi, in linea teorica, un pluralismo di opinioni, ma che poi riservava l’interpretazione della “verità” e della “giusta strada” solo alla SKJ. Incarcerato e poi esiliato, nel ’57 pubblicò all’estero La nuova classe. Una analisi del sistema comunista, dove si scagliava contro l’intolleranza filosofica dei comunisti, che erano stati per di più artefici di una rivoluzione assai diversa da quella propagandata. Al governo era ascesa una “nuova classe” composta da burocrati di partito, ligi al dogmatismo ideologico e attaccati al potere, che si era sostituita alla borghesia capitalista replicandone le peggiori pratiche autoritarie. Djlas propose anche una precoce interpretazione storiografica del comunismo come ideologia che aveva fornito le basi analitiche e filosofiche, nonché lo “strumento” del partito, per portare avanti l’emancipazione delle classi più umili, contadine e operaie, lasciando però sul terreno una nuova classe burocratica assai lontana dagli intenti che proclamava14.
Nel 1958 arrivava a sua volta la prima “fermata sul lavoro” in Slovenia. I minatori scioperarono contro le basse retribuzioni, prendendosela innanzitutto contro la gestione delle risorse economiche, cioè contro l’autogestione guidata dai dirigenti locali della SKJ. Si inaugurava una prassi che sarà tollerata ma non legalizzata, legata spesso ai contesti locali e in maniera solo apparentemente paradossale rivolta proprio contro le decisioni “autogestite”15.
L’irrequietudine del sistema jugoslavo, teorizzato come in continua trasformazione, portava a frequenti interventi normativi, anche alti. Nel 1963 fu varata la terza costituzione, anche come esito dello scontro fra i centralisti di Rankovic e i federalisti di Kardelj. Vinsero i primi, contro i secondi che erano più propensi a potenziare i poteri delle repubbliche rispetto a quelli dei comuni, mentre per i centralisti approfondire l’autogestione e l’autogoverno a danno delle repubbliche – che in un paese multinazionale potevano sempre indebolire il potere centrale – rafforzava il centro del sistema come potere regolatore e di indirizzo. Lo Stato cambiò denominazione, trasformandosi da popolare in Repubblica socialista federale della Jugoslavia, SFRJ. La costituzione approvava la Carta dell’autogestione e rafforzava ulteriormente i comuni – che avevano continuato a scendere di numero e aumentare di dimensioni, attestandosi a 561 – i quali assunsero una funzione di coordinamento dei servizi pubblici e delle attività produttive, con poteri diretti nel governo dell’economia e del territorio, divenendo i costruttori “dal basso” dello Stato16. Dopo la riforma, l’Autogestione era divenuta rilevante anche costituzionalmente, con l’esplicita menzione delle Unità di lavoro come forma di organizzazione produttiva decentralizzata, e si trovò a dover affrontare quelli che resteranno i suoi due fronti critici: la concretizzazione dei suoi principi assieme alla salvaguardia della pianificazione solidale tra le varie componenti del Paese, con il rischio di un’esplosione centrifuga di interessi sempre presente17.
Nel 1965 venne varata un’ampia riforma economica, in 35 leggi, considerata un successo degli innovatori. Venivano introdotti elementi di mercato, anche per assicurare margini di movimento alle unità produttive autogestite. Si mirava al tempo stesso a razionalizzare ed efficientare per aumentare la produttività, addirittura abbandonando il principio del pieno impiego. Iniziarono però a manifestarsi altre disfunzioni. Tecnici e manager tendevano a costituirsi in una sorta di tecnocrazia indipendente, anche se formalmente ossequiosa all’SKJ, che assumeva su di sé tutti i poteri decisionali, dando vita a un’altra incarnazione della “nuova classe” a detrimento delle prerogative dei lavoratori nei Consigli.
Un altro intervento introdusse un ulteriore elemento di criticità. Nel 1963 furono soppressi i fondi sociali federali di investimento, trasferendo le risorse alle banche. La SFRJ poteva adesso istituire solo fondi specifici e la pianificazione, priva di ogni strumento, diveniva un mero indirizzo generale. Le banche a loro volta furono investite dalle misure del 1965 e poste de facto sotto il controllo delle imprese e delle comunità socio-politiche, che potevano fondarle e quindi orientarne le scelte in materia di investimenti – dato che il Consiglio di gestione non aveva possibilità di intervento sulla politica creditizia – creando fratture proprio nella pianificazione solidale. Gli obbiettivi di aziende e comuni seguivano logiche di prossimità e iniziarono a divergere da quelli sociali del piano federale. In un contesto in cui gli squilibri fra repubbliche sull’asse nord-sud non erano stati superati, queste dinamiche finivano con l’andare ad aumentare le differenze nella velocità di sviluppo.
Alla fine degli anni Sessanta il sistema jugoslavo iniziava a divaricarsi, da una parte si spingeva sempre più ideologicamente sull’Autogestione, dall’altra i suoi risultati erano soprattutto di facciata mentre prendeva piede una struttura economica che gli osservatori definivano anche come “capitalismo larvato”18.
Nei primi anni Settanta, una serie di ricerche sociologiche evidenziò come l’Autogestione stesse fallendo sulla strada dell’emancipazione e della democratizzazione. Di fatto si verificava al massimo una co-decisione e una mera esecuzione degli obiettivi. La partecipazione non alterava di per sé la distribuzione asimmetrica del potere tra dirigenti e lavoratori – i primi continuavano a disporre di maggiori competenze, informazioni e contatti per prendere le decisioni – e si era formato un potere oligarchico direttamente proporzionale ai livelli gerarchici. Gli operai risentivano positivamente della partecipazione solo su due variabili, importanti ma “classiche”, il salario e le condizioni di lavoro. Di positivo c’era che i lavoratori che non partecipavano all’autogestione non percepivano uno iato fra la loro influenza personale e quella di chi vi prendeva parte. Chi partecipava invece era più alienato in senso marxiano ma anche più soddisfatto del lavoro. Inoltre, i lavoratori iscritti alla SKJ partecipavano molto di più ai processi decisionali, confermando il potere del partito.
Per alcuni studiosi jugoslavi l’unica soluzione al permanere del potere oligarchico poteva avvenire solo con un passaggio dalla gestione partecipata alla partecipazione organizzata, cosa che sarebbe stato possibile fare solo attraverso una forte e autonoma organizzazione sindacale. Un elemento che avrebbe significato il riconoscimento del perdurare del conflitto anche nel socialismo e che era inibito dalla funzione non chiara e scivolosa dei sindacatı dentro l’Autogestione, ridotti spesso a una sorta di dopolavoro19.
In questo quadro, iniziò a aumentare la conflittualità sociale. La crescita economica rallentava, l’inflazione saliva e la disoccupazione crebbe rapidamente (300.000 unità nel ’71, più 700.000 emigrati). Gli operai si mobilitavano chiedendo aumenti salariali, segno che i Consigli non erano in grado di esaurire del tutto i contrasti al loro interno. I tecnocrati a loro volta vedevano l’Autogestione come inadatta al “socialismo di mercato”, poiché manteneva strumenti di difesa come la possibilità per i lavoratori di opporsi ai licenziamenti in sede consiliare. Gli scioperi comunque non divennero mai politici o generali, restando confinati nei territori o nelle aziende, e durarono poco, con le richieste in genere accolte tramite il Consiglio. La Jugoslavia sul momento riuscì ad assorbire queste criticità, permanendo una congiuntura favorevole che permetteva di far fronte alle richieste (fra il ’65 e il ’68 il reddito nazionale medio crebbe del 18%)20.
Tuttavia, un’altra problematica si apprestava a occupare la scena, con l’esplodere delle questioni nazionali nel 1968 in Kosovo, con la rivolta degli albanesi, nel 1969 in Slovenia ma soprattutto nel 1971 in Croazia. Un vero e proprio spettro si riaffacciava davanti agli occhi dei dirigenti comunisti.
Le risposte a quelli che sembravano intoppi nella costruzione del socialismo – le contraddizioni che inevitabilmente sarebbero sorte lungo la strada – arrivarono alla metà degli anni Settanta, con due poderosi interventi, la nuova Costituzione del 1974 e la Legge sul lavoro associato del 1976, che portava al suo apice il sistema autogestito.
La Costituzione del ’74 contava ben 406 articoli e segnò una vittoria del federalismo di Kardelj. Le Repubbliche riguadagnarono la centralità nell’ordinamento statale, a scapito del potere centrale federale. Per questa via si pensava di rispondere alle tensioni nazionali, ed il Paese diventò simile a una confederazione. Le competenze centrali dello Stato in materia economica, monetaria, fiscale, di pianificazione e di rapporti economici con l’estero venivano inserite in un complicato e farraginoso sistema di trattativa continua e di bilanciamento fra la SFRJ e le repubbliche, dotate di poteri a tutto campo. Gli unici elementi forti di unità rimanevano la figura carismatica di Tito, la SKJ, a cui era affidata l’effettiva direzione politica del Paese, e l’esercito popolare, la JNA, non toccata dall’Autogestione21.
L’autogoverno locale raggiunse una sistemazione compiuta. Al centro del sistema c’era il Comune, dotato di un territorio vasto e i cui compiti erano il coordinamento dei servizi pubblici e delle attività produttive autogestite. Il Comune veniva concepito come comunità politica-sociale di base dalla natura associativa, definita dalla Costituzione come «la comunità politico-sociale d’autogestione fondamentale basata sul potere e sull’autogestione della classe operaia e di tutti i lavoratori». Facevano parte del Comune le Comunità locali, le Organizzazioni di base del lavoro associato e le Comunità autogestite di interessi. I comuni avevano un proprio Statuto, che trovava la disciplina giuridica a cui conformarsi nelle singole costituzioni delle 6 repubbliche e delle 2 regioni autonome, il Kosovo e la Vojvodina.
Le Comunità locali, MZ, a loro volta erano una sorta di replica per frazione del Comune, dove veniva esercitata al tempo stesso la democrazia diretta e rappresentativa. Al loro interno trovavano spazio i Consigli dei consumatori e quelli di pacificazione. L’assemblea delle MZ risultava composta dai delegati eletti dai cittadini, delle organizzazioni del lavoro associato, delle comunità di base autogestite, delle Comunità di interesse, delle organizzazioni politico-sociali (SKL, sindacati, Alleanza socialista, ecc.) e da altre organizzazioni sociali. Anche le MZ avevano natura associativa, in un sistema misto che compendiava una rappresentanza per categorie e centri di interesse, ed una su base elettiva. Nelle MZ lo strumento referendario, previsto per tutti i livelli a partire dalle repubbliche, trovava diffusa attuazione. I referendum in Jugoslavia potevano essere obbligatori, facoltativi con obbligo di attuazione e disponibili, quest’ultimo possibile su richiesta per tutti i casi non normati delle leggi. Le consultazioni avevano natura vincolante qualora si pronunciassero in via preventiva su provvedimenti e altro oppure quando si trattava di verificare a posteriori la validità di certi atti, compresi quelli legislativi. Nelle MZ poi ai cittadini potevano essere richiesti pareri tramite inchieste e dichiarazioni scritte. La discussione pubblica era prevista per ogni caso in cui si dovesse prendere una decisione attraverso il voto personale22.
Per quanto riguardava l’autogestione economica, dopo la legge del ’76 il sistema si assestò a sua volta su un’organizzazione assai complessa. Alla base c’erano le Organizzazioni di base del lavoro associato, OOUR, per i processi produttivi omogenei, assimilabili alle piccole imprese o ai grandi reparti delle fabbriche occidentali. I lavoratori avevano il diritto/dovere di costituire una OOUR quando si trovavano a formare un gruppo impegnato in un processo produttivo coerente e unitario, con un reddito lordo prodotto passibile di essere calcolato in maniera indipendente e solo se erano disposti ad assumersi le responsabilità e gli obblighi connessi. Le OOUR potevano poi esistere solo all’interno di una struttura superiore, l’Organizzazione di lavoro, RO, che aveva dimensioni da piccola o da media impresa. Le RO potevano essere create dalle OOUR, oppure dalle MZ, dalle Comunità autogestite di interesse e dai Comuni.
A un livello più alto si situavano le Organizzazioni complesse di lavoro associato, SOUR, formate dalle altre organizzazioni di livello inferiore sulla base di legami di filiera, di processo produttivo o di interdipendenza. Le SOUR nel sistema autogestito andavano ad occupare il posto delle grandi imprese. Di fatto, a tutti i livelli le organizzazioni nascevano sempre per impulso politico o da aziende preesistenti, non intaccando il potere dei gruppi dirigenti23.
Sempre nell’ambito dell’autogestione economica trovavano la loro sistemazione le già menzionate Comunità autogestite di interessi, SIZ. Queste erano organizzazioni che si occupavano della produzione di servizi nei comparti non prettamente produttivi di beni “materiali” in senso marxiano. Le SIZ dovevano rispondere al soddisfacimento di bisogni individuali e collettivi come gli ospedali, l’assistenza sociale, le scuole, centri scientifici e culturali, i trasporti ecc., ma ne veniva consentita la formazione ache per l’edilizia abitativa, la produzione energetica, la gestione delle acque. Di norma erano le costituzioni repubblicane a specificarne gli ambiti di intervento, con la SFRJ che manteneva poteri di regolamentazione e supervisione24.
Il problema insoluto rimaneva sempre quello di come sviluppare maggiormente la partecipazione cercando un bilanciamento fra lotta alle oligarchie e salvaguardia degli attributi di direzione. La strutturazione dell’autogestione nei suoi vari livelli di OOUR, RO, SOUR e SIZ, conteneva due linee gerarchiche. Quella esecutiva, affidata al management, e quella “legislativa” degli organi autogestiti. Questi ultimi erano l’Assemblea collettiva (o delle organizzazioni di base in caso di RO e SOUR); il Consiglio operaio con un suo comitato esecutivo; il Controllo operaio. L’unione fra le due linee era affidata alla figura del direttore, posto nella posizione di più basso organo esecutivo dell’autogestione e più alto organo della direzione tecnica. All’Assemblea spettava il compito di emanare lo Statuto, e di norma discuteva anche sulle questioni economiche e sociali importanti. Era previsto l’uso dello strumento referendario. Il Consiglio, vincolato alla verifica verso le componenti dell’Assemblea e i cui membri erano a rotazione, deteneva poteri di indirizzo strategici; i tempi e metodi di lavoro; la divisione del reddito; la sicurezza; gli investimenti. Per regolare il funzionamento interno doveva essere approvato l’Accordo di autogestione, che stabiliva anche i casi di incompatibilità fra i ruoli dirigenziali e l’appartenenza al Consiglio. Dato che c’era sempre il rischio di scatenare dinamiche centrifughe, l’Accordo funzionava da correttivo e prevedeva la collaborazione con le organizzazioni socio-politiche, la SKJe i sindacati, che trovavano per questa via il modo di esercitare la loro influenza. Infine, il Controllo operaio, regolato dall’Accordo, doveva vigilare affinché la divisione dei poteri reali non si allontanasse dalle norme. Complessivamente il sistema, tra livelli di organizzazioni del lavoro, gerarchie interne e rapporti incrociati, era così complicato che anche i tentativi di rappresentazione grafica si risolvevano in un labirinto25.
Nel tentativo di correggere le storture, negli anni Settanta si intervenne anche sul complesso bancario. Dal 1972 venne creato un nuovo sistema incentrato su banche “nazionali”, una per repubblica più 2 per le regioni autonome, affiancate dalla banca federale. Nel ’78 fu poi istituita una banca jugoslava per la cooperazione economica internazionale. Le banche continuavano ad essere integrate nell’autogestione come forma specifica di associazione, potevano essere formate dalle organizzazioni di lavoro, dalle SIZ e da altri enti con personalità giuridica che ne controllavano il capitale. Ad un livello inferiore esistevano le banche interne, per la tesoreria delle organizzazioni, e le banche di base fondate da SIZ, SOUR e banche interne, che potevano svolgere tutte le operazioni tipiche ed unirsi in una banca associata. Per i crediti al consumo e i finanziamenti locali esistevano invece le Casse di risparmio. Oltre a questi enti, operavano la Cassa depositi postali e le cooperative di credito e risparmio. Nell’insieme, una polverizzazione del sistema bancario che solo parzialmente era mitigata dalla possibilità di unirsi in consorzi e associazioni26.
In questi anni i comunisti jugoslavi sviluppavano discussioni sulla “democrazia industriale” dove, pur ammettendo le difficoltà, si ponevano all’avanguardia tanto rispetto all’Occidente che al blocco sovietico. Ma, nonostante tutto, la Jugoslavia continuava a non progredire nella direzione auspicata.
Le riforme non riuscirono a correggere i guasti interni all’Autogestione, aumentando l’articolazione ma non intervenendo sui fattori che ne vanificavano l’essenza. Non difettava solo l’assenza operativa di strutture come i sindacati. Il tempo da dedicare all’Autogestione era al di fuori dell’orario lavorativo, e per dirigere davvero un’azienda i lavoratori avrebbero dovuto documentarsi, mantenersi informati, fare riunioni, acquisire competenze, iniziare ad avere una mentalità non da “dipendenti” e assumersi i rischi propri dell’economia. Tutte cose che semplicemente interessavano poco o niente al comune cittadino non motivato politicamente o da ambizioni di carriera, non attratto dall’essere un dirigente, convinto di essere responsabile solo per il proprio lavoro. Come è stato detto, l’Autogestione non era a misura di lavoratore ma di eroe. Sempre le ricerche sociologiche svelarono il quadro. Per i lavoratori jugoslavi le cose importanti erano, nell’ordine: i guadagni; colleghi simpatici, supervisori capaci; mansioni interessanti; possibilità di carriera e infine, buona ultima, la possibilità di autogestire.
Anche l’efficienza era in sofferenza. I dirigenti trovavano nelle strutture autogestite una scappatoia su cui scaricare le colpe dei propri errori, mentre i lavoratori usavano i meccanismi autogestionari per le proprie strategie personali e familiari di reddito e occupazione. Entrambi ragionavano in un’ottica di corto respiro, mentre l’innovazione tecnologica segnava il passo. Il sistema era tale per cui nessuno portava la responsabilità per le scelte effettuate, aumentava il peso dei gruppi informali e si creavano inefficienze a non finire27
Di fronte a questo stato di cose, il gruppo dirigente comunista continuava a rispondere in maniera ideologica. Kardelj arrivò a riconoscere, alla fine degli anni Settanta, che nel Paese esisteva un pluralismo di interessi – come aveva detto Djlas più di 20 anni prima – che avrebbe dovuto trovare espressione nell’Autogestione. L’anziano dirigente individuò nell’Alleanza socialista l’organo adatto a questo scopo. Quest’ultima era rimasta ai margini dell’assetto jugoslavo fin dal dopoguerra, e veniva adesso rispolverata. L’Alleanza era una sorta di “oggetto non identificato” e dalle funzioni non chiare di cui facevano parte l’SKJ (con funzione trainante), i sindacati, le organizzazioni giovanili, femminili e degli ex partigiani, la Croce Rossa, associazioni culturali, sportive, professionali, singoli cittadini, sacerdoti, intellettuali… Nel 1984 contava quasi 17 milioni di iscritti, il 76% della popolazione sopra i 14 anni. L’Alleanza in pratica si trovava a relazionarsi con la società intera. Secondo Kardelj questo sarebbe diventato il luogo deputato all’espressione della pluralità di interessi autogestiti, con strumenti partecipativi, delegatari e decisionali improntati allo spirito dell’Autogestione e per questa via passibili di superare sia il pluripartitismo che il monopartitismo. Ad ogni modo, la scomparsa nel 1979 del leader comunista chiudeva ad ulteriori sviluppi su questa via28.
Il socialismo autogestito jugoslavo al suo apice era ripiegato esattamente su quello che aveva proclamato di voler combattere alla sua nascita: il dogmatismo, il burocratismo. Le sue strutture politiche, a partire dall’SKJ, erano diventate parte delle contraddizioni del sistema. La Lega non aveva mai perso il ruolo di partito unico e di guida, vi continuava a vigere il centralismo democratico e l’idea della dittatura del proletariato, ed il pluralismo di idee era malvisto fuori dalle sue strutture, in evidente contrasto con tutta l’impalcatura del socialismo autogestito29.
Alle contraddizioni interne mai risolte si aggiunsero gli effetti nefasti degli interventi degli anni Settanta. Il Paese iniziò a frammentarsi. Lo Stato in via di deperimento divenne quello federale, a vantaggio delle repubbliche, ormai dotate di banche e degli attributi propri di uno stato-nazione, compreso un sistema di difesa locale. Il mercato interno si segmentò sui loro confini, e altrettanto fece la SKJ. L’impatto della gravissima crisi economica che colpì la Jugoslavia negli anni Ottanta dette il colpo di grazia e liberò le spinte centrifughe. I meccanismi di governo federale si incepparono e tanto il revisionismo serbo che il secessionismo sloveno e croato ebbero via libera. Nel giro di pochi anni, della Jugoslavia e dei suoi grandiosi progetti di una nuova democrazia socialista non sarebbero rimaste che le macerie.
Stefano Bartolini
(Tratto da: Stefano Bartolini, Un socialismo diverso. L’Autogestione in Jugoslavia, in «QF Quaderni di Farestoria», Anno XIX, n. 3 settembre-dicembre 1917, Comunismo: a cento anni dalla Rivoluzione di Ottobre, pp. 57-68).
Note
1 F. Privitera, Jugoslavia, Milano, Unicopli, 2017, pp. 92-95. S. Bianchini, La questione iugoslava, Firenze, Giunti, 1999, pp. 73-87. J. Krulic, Storia della Jugoslavia. Dal 1945 ai giorni nostri, Bergamo, Bompiani, 1999, pp. 30-67. Sugli organismi del comunismo internazionale vedi S. Pons, La rivoluzione globale. Storia del comunismo internazionale 1917-1991, Torino, Einaudi, 2012.
2 F. Privitera, Jugoslavia… cit., pp. 95-96. S. Bianchini, La questione… cit., p. 89. Id., Sarajevo, le radici dell’odio. Identità e destino dei popoli balcanici, Roma, Edizioni associate, 1993, p. 214. J. Krulic, Storia della Jugoslavia… cit., p. 4.
3 R. Supek, Socialismo e autogestione, Milano, La Pietra, 1978, pp. 35-36.
4 Il testo della legge in Ivi, pp. 203-204.
5 F. Privitera, Jugoslavia… cit., p. 97. J. Kralic, Storia della Jugoslavia… cit., pp. 71-82. Z. Cepic, I problemi politici della Federazione jugoslava (1945-1991), in L. Bertucelli, M. Orlic (a cura di), Una storia balcanica. Fascismo, comunismo e nazionalismo nella Jugoslavia del Novecento, Verona, Ombre corte, 2008, p. 209. M. Ganino, A partire dal basso. Autogestione e “Comunità locali” in Jugoslavia, p. 103; M. Dogo, La crisi, le nazioni, la storia: avanti verso il passato?, p. 310, entrambi in S. Bianchini (a cura di), L’enigma jugoslavo. Le ragioni della crisi, Milano, Franco Angeli, 1989. R. Supek, Socialismo… cit., p. 36.
6 N. Pasic. L’idea della democrazia autogestita diretta e la socializzazione del potere politico, in R. Supek, Socialismo… cit., pp. 237-242.
7 Il Fonte popolare era nato nel 1945 in sostituzione del Consiglio antifascista di liberazione popolare della Jugoslavia (AVNOJ). G.C. Reghizzi, La disciplina giuridica della Lega dei comunisti in Jugoslavia, pp. 41-43; S. Bianchini, L’Alleanza socialista nel sistema politico jugoslavo, p. 56, entrambi in S. Bianchini (a cura di), L’enigma… cit.
8 M. Ganino, A partire dal basso… cit., p. 103. R. Supek, Socialismo… cit., p. 36.
9 F. Privitera, Jugoslavia… cit., pp. 95-99. J. Krulic, Storia della Jugoslavia… cit., p. 36. Z. Cepic, I problemi politici…, p. 209, M. Ganino, A partire dal basso…, p. 103, e P. Brera, L’economia jugoslava nell’euforia della crisi, p. 193, da cui è tratta la citazione. Tutti e tre in S. Bianchini (a cura di), L’enigma… cit.
10 Il testo del discorso di Tito in R. Supek, Socialismo… cit., pp. 185-189.
11 M. Ganino, A partire dal basso… cit., p. 103.
12 J. Krulic, Storia della Jugoslavia… cit., p. 76. R. Segatori, Dall’autogestione solidale all’eterodirezione conflittuale: origini e sviluppo del “paradosso jugoslavo”, p. 90; R. Gatti, Marxismo e politica nell’ideologia e nella prassi del socialismo jugoslavo, p. 329, entrambi in S. Bianchini (a cura di), L’enigma… cit.
13 Il testo del Programma in R. Supek, Socialismo… cit., pp. 196-202.
14 F. Privitera, Jugoslavia… cit.. p. 101. M. Gilas. La nuova classe. Una analisi del sistema comunista, Bologna, Il Mulino, 1957.
15 G. La Pira, Il sindacato fra crisi sociale e crisi di rappresentatività, in S. Bianchini (a cura di), L’enigma… cit., p. 264-275.
16 F. Priviera, Jugoslavia… cit., p. 101. Z. Cepic, I problemi politici… cit., pp. 211-212. M. Ganino, A partire dal basso… cit., p. 103. Pur segnando un passo indietro nell’importanza istituzionale delle repubbliche, per Favaretto tuttavia la Costituzione del 1963 rimase ancorata ad un’impostazione federale di tipo classico, con una chiara divisione di competenze tra Stato e unità federali. T. Favaretto, Origini e sviluppi della crisi jugoslava: un tentativo di interpretazione, in S. Bianchini (a cura di), L’enigma… cit., p. 20.
17 R. Segatori, Dall’autogestione… cit., pp. 91-92. Nel 1960 si era iniziato a parlare di Unità economiche. G. Leman, Organizzazione e funzionamento dell’autogestione operaia nelle imprese jugoslave, in R. Supek, Socialismo… cit., p. 219.
18 F. Privitera, Jugoslavia… cit., pp. 101-102. J. Krulic, Soria della Jugoslavia… cit., pp. 81-84. T. Favaretto, Origini… cit., pp. 20-21. R. Segatori, Dall’autogestione… cit., p. 92.
19 J. Zupanov, La partecipazione degli occupati e il potere sociale nell’industria, pp. 261-262; J. Obradovic, La distribuzione della partecipazione nei processi decisionali, pp. 264-269; V. Rus, I limiti della partecipazione organizzata, pp. 276-277, tutti in R. Supek, Socialismo… cit. G. La Pira, Il sindacato… cit., p. 265.
20 F. Privitera, Jugoslavia… cit., p. 102. J. Krulic, Storia della Jugoslavia… cit., pp. 83-84. R. Segatori, Dall’autogestione… cit., p. 94.
21 F. Privitera, Jugoslavia… cit., p. 107. T. Favaretto, Origini… cit. pp. 23-26. Per un’analisi delle posizioni interne alla dirigenza comunista vedi D. Jovic, Yugoslavism and Yugoslav Communism: From Tito to Kardelj, in D. Djokic (editor), Yugoslavism. Histories of a Failed Idea 1918-1992, Glasgow (UK), University of Wisconsin Press, 2003, pp. 157-181. Secondo Denitch i due approcci al decentramento, quello verso le repubbliche e quello verso i comuni, pur svolgendosi simultaneamente, erano fra loro contraddittori, con il primo improntato ad affrontare la questione nazionale mentre il secondo era più adatto alle esigenze dell’Autogestione. B. Denitch, Forme e intensità della partecipazione nella autogestione jugoslava, in R. Supek, Socialismo… cit., pp. 244-245.
22 M. Ganino, A partire dal basso… cit., pp. 102-131, da cui è tratta la citazione.
23 P. Brera, L’economia… cit., pp. 194-196.
24 Ivi, pp. 205-206.
25 G. Leman, Organizzazione… cit., pp. 215-233.
26 P. Brera, L’economia… cit., pp. 196-199.
27 Р. Вrera, L’economia… сіt., pp. 210-245.
28 S. Bianchini, L’Alleanza… cit., pp. 56-63.
29 G.C. Reghizzi, La disciplina… cit., p. 49.
Inserito il 29/08/2024.
Soldati italiani fucilano dei partigiani sloveni, villaggio di Dane, 31 luglio 1942. Questa foto viene spesso usata, anche da “autorevoli” giornali, con una didascalia errata, che indica vittime italiane e carnefici jugoslavi.
Fonte della foto: https://www.malorarivista.it/2021/02/07/le-foibe-spiegate-bene-intervista-a-eric-gobetti/
Dal sito «malorarivista.it»
Eric Gobetti intervistato da Oreste Veronesi
Con il saggio E allora le foibe?, pubblicato nel gennaio 2021 da Laterza, lo storico Eric Gobetti ripercorre la storia dell’Alto Adriatico alla fine della seconda guerra mondiale sfatando narrazioni tossiche e ricostruendo con sintesi e linguaggio accessibile le più complesse vicende che hanno caratterizzato il confine orientale.
«Decine di migliaia», poi «centinaia di migliaia», fino a «oltre un milione»: a leggere gli articoli dei giornali e a sentire le dichiarazioni dei politici sul numero delle vittime delle foibe, è difficile comprendere le reali dimensioni del fenomeno. Anzi, negli anni, tutta la vicenda dell'esodo italiano dall'Istria e dalla Dalmazia è diventata oggetto di polemiche sempre più forti e violente.
Questo “Fact Checking” non propone un’altra verità storica precostituita, non vuole negare o sminuire una tragedia. Vuole riportare la vicenda storica al suo dato di realtà, prova a fissare la dinamica degli eventi e le sue conseguenze. Con l’intento di evidenziare errori, mistificazioni e imbrogli retorici che rischiano di costituire una “versione ufficiale” molto lontana dalla realtà dei fatti. È un invito al dubbio, al confronto con le fonti, nella speranza che questo serva a comprendere quanto è accaduto in quegli anni terribili.
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Le foibe spiegate bene
Intervista a Eric Gobetti a cura di Oreste Veronesi
Il 7 febbraio 2019 il consiglio comunale di Verona ha approvato la mozione 862 che impegna il Comune a disincentivare eventi che minimizzano o “siano oggetto di teorie negazioniste o giustificazioniste” delle foibe. Negli stessi mesi in tutte le scuole venete è stato distribuito dalla Regione il fumetto Foiba rossa, edito dalla casa editrice di estrema destra Ferro Gallico. Da diversi anni le vicende del confine orientale alla fine della seconda guerra mondiale sono strumentalizzate da gruppi neofascisti i cui argomenti sono ripresi dai più alti livelli istituzionali. Per fare chiarezza sul tema, di cui ricorre il 10 febbraio il “Giorno del Ricordo”, abbiamo intervistato lo storico Eric Gobetti autore del volume E allora le foibe? (Laterza, 2021).
Il termine “Foibe” si è diffuso nel dibattito pubblico caratterizzando fenomeni molto diversi tra loro. Ma di cosa parliamo quando usiamo questo termine?
Il fenomeno delle foibe è legato a due momenti specifici, scollegati tra loro e nemmeno collegati del tutto alle foibe nel senso proprio del termine, ovvero le cavità carsiche dove vengono gettati i corpi dopo l’uccisione. Con questa funzione vengono usate soprattutto nel 1943 per occultare i cadaveri e diminuire la probabilità di rappresaglie sui villaggi da parte dei tedeschi. Ma vengono usate molto meno del 1945 quando la maggior parte delle vittime muore nei campi di prigionia jugoslavi. Però sono due fenomeni molto specifici e precisi. Il primo accade nell’arco di meno di un mese fra l’8 settembre 1943 e gli inizi di ottobre, e il secondo nella primavera del 1945, dopo la liberazione della zona dell’alto adriatico.
Nel libro sostieni che è stato un tema tabù per lo schieramento conservatore. E a leggere la tua ricostruzione, anche oggi affrontare storicamente quei fatti sembra essere un tabù. Significherebbe riconoscere più le responsabilità fasciste e dell’imperialismo italiano che quelle dei partigiani e delle popolazioni della Jugoslavia?
È ovvio che se si vuole raccontare questa storia in maniera corretta e comprensibile non si può iniziare dall’arrivo dei partigiani. La storia comincia prima e per capire le motivazioni di quelle vicende bisogna capire cosa li anima, qual è il loro obiettivo, perché sono così arrabbiati. Innanzitutto bisogna comprendere quella vicenda all’interno della seconda guerra mondiale, che fa decine di milioni di morti solo in Europa. E poi bisogna inquadrarla nel contesto storico di quei territori, che hanno vissuto una stagione di violenza che comincia con la fine della prima guerra mondiale. Anche prima del 1918 c’erano momenti di tensione, però la convivenza delle popolazioni nella lunga epoca dell’impero austro-ungarico era stata sostanzialmente pacifica. Dal 1918 le cose cambiano perché questo territorio entra a far parte di uno stato-nazione, l’Italia, che diventa presto uno stato fascista e impone con la violenza l’appartenenza a un’unica identità nazionale. Quindi questa storia di violenza inizia con il nazionalismo italiano. Tutto questo era difficile da affrontare nella Prima repubblica. Da una parte è vero che si voleva evitare di mettere in discussione il mito fondativo della repubblica, quello partigiano. Ma bisognava anche mettere in discussione l’operato dello stato fascista, e dell’esercito italiano. Era l’esercito italiano che aveva commesso quei crimini, creato campi di concentramento, ucciso civili. E bisognava per forza parlarne per capire la vicenda. Quindi non si volevano mettere in discussione questi due elementi. E paradossalmente anche oggi non è molto facile. Da una parte è stato molto difficile per le sinistre accettare di mettere in discussione l’operato della resistenza, che è un’operazione che va fatta, almeno moralmente. Dall’altra le istituzioni non hanno nessuna intenzione di sottoporre a critica l’operato del regio esercito, all’epoca fascista, che ha commesso quei crimini. Questo è davvero grave, perché riguarda le nostre istituzioni. Questo stato dovrebbe assumersi la responsabilità dei crimini fascisti, ad esempio con una visita al campo di concentramento Arbe, che si trova di fronte a Fiume, dove sono morti 1500 civili in gran parte sloveni.
L’uso del concetto delle Foibe serve a drammatizzare la narrazione di questo passaggio storico. Nel libro ne parli facendo riferimento al film Rosso Istria e al fumetto Foiba rossa.
Il film e il fumetto raccontano la stessa storia, quella di Norma Cossetto, che è ormai diventata una sorta di martire nazionale, usata strumentalmente come esempio di tutta la vicenda. L’estrema destra sta portando avanti una vera offensiva in questo senso, come dimostrano le intitolazioni di parchi, vie e giardini pubblici. Però questo personaggio è molto problematico. La famiglia di Cossetto è fascista e viene colpita in quanto rappresentante delle istituzioni fasciste: il padre di Norma è un podestà e lei è nei gruppi universitari fascisti. Il che non ne giustifica l’uccisione, naturalmente. Ma portare l’esempio di una persona uccisa per le sue posizioni politiche mette in crisi lo stereotipo che si è voluto costruire delle vittime in quanto italiane, quindi della pulizia etnica. Tuttavia mettendo insieme due storie, una vera, cioè il fatto che sia stata uccisa perché fascista, e una falsa, cioè che gli italiani venissero uccisi perché italiani, ne viene fuori che lei è stata uccisa perché italiana e quindi fascista: fascismo e italianità diventano la stessa cosa. Nel film è molto evidente, ma anche nel fumetto che porta come sottotitolo “storia di un’italiana”. Invece no, è una storia fascista. Questa confusione di piani fra italianità e fascismo porta alla celebrazione delle vittime fasciste. E per la Repubblica italiana, fondata sui valori antifascisti, è un fatto grave. Una parte significativa delle persone che hanno ricevuto la medaglia come infoibati erano fascisti conclamati se non addirittura militari che combattevano al fianco dei nazisti. Questa assimilazione fra italiani e fascisti poi non fa bene soprattutto agli esuli, che finiscono di nuovo per essere considerati fascisti anche se non lo erano. Quindi si identificano i fascisti come vittime e tutte le vittime come fasciste, addossandogli colpe che non hanno.
Parlando di esodo, nel tuo libro affronti questo tema partendo un aneddoto personale: l’incontro con Giuseppe Bulva, un vecchio ragazzo di 86 anni che si definisce fascista, ma che ha vissuto gran parte della sua vita in un paese socialista.
Questa è una storia singola che racconta una vicenda molto comune, e serve a guardare a quegli eventi nella complessità in cui si sono verificati: l’esodo non è frutto dell’espulsione della popolazione italiana da parte delle autorità jugoslave, come spesso viene rappresentata in Italia e in molti film, come Il cuore nel pozzo. L’esodo è un fenomeno molto lungo che comincia già durante la guerra e termina a metà degli anni Cinquanta, dopo la definitiva attribuzione dei confini del 1954. Ed è un fenomeno che ha molte ragioni, ma nulla a che fare con un’espulsione. Cosa che avviene invece nel territorio jugoslavo con la popolazione tedesca. I tedeschi sono riconosciuti come gruppo etnico nemico dello stato jugoslavo perché avrebbero appoggiato in toto l’occupazione nazista. Quindi vengono espulsi tutti, per legge. Cosa che non avviene con gli italiani. Non vengono considerati tout court fascisti e nei loro confronti c’è una politica di accoglienza, che veniva definita di fratellanza italo-slava. Dopodiché, nel libro lo dico chiaramente, si creano delle condizioni di tale difficoltà di vita da parte di queste persone, non solo per gli italiani ma per la maggioranza della popolazione, per cui chi può scegliere, cioè gli italiani che hanno la possibilità per legge di “optare”, come si diceva all’epoca, scelgono l’Italia per tante ragioni: le difficoltà di vita, ma anche la speranza di vivere in un territorio più accogliente per loro.
In questi anni sono stati pubblicati tanti libri sulle “Foibe”, eppure nel testo parli di un’“urgenza” da cui è scaturito il tuo. Puoi spiegarci da cosa nasce?
C’è un aspetto personale e uno più generale di utilità pubblica. L’aspetto personale ha un carattere professionale, legato alla distorsione con cui questi temi sono discussi nel dibattito pubblico. La ricerca storica è molto chiara, gli storici condividono tutti lo stesso quadro, eppure il dibattito pubblico è falsato, pieno di errori e confusione. C’è quindi la necessità di ribadire la rilevanza della ricerca storica, che è il mio mestiere. Ma c’è anche una necessità etico-morale, di fronte a un tema sempre più strumento politico dell’estrema destra italiana, che ne fa una sorta di bandiera per rendersi credibile. Il tentativo è allora quello di provare a spuntare quest’arma. Certo esistono già molti libri sul tema, ma questo forse è il primo che mette insieme sinteticamente i risultati della ricerca, ridotti all’osso per un lettore “medio”, e un’analisi delle contraddizioni del discorso politico e mediatico.
Quindi provi a colmare un vuoto, in cui il lavoro degli accademici possa parlare anche a un pubblico più ampio.
Il problema è che i lavori degli accademici non sono riusciti a raggiungere l’opinione pubblica e il discorso pubblico non è fatto dagli accademici. Quello che si vuole raccontare è in gran parte pura fantasia e non coincide con la ricerca storica. Ad esempio, se noi vogliamo presentare questa storia come una pulizia etnica diciamo una bugia. Tutti gli studiosi sanno perfettamente che non è una pulizia etnica. C’è una espulsione della storia dalla costruzione memoriale su questa vicenda. È grave perché è strumentalizzata dall’estrema destra, ma sarebbe grave anche se fosse funzionale alla memoria della repubblica. Perché raccontare falsità non porta da nessuna parte.
Credi sia ancora possibile affermare una pratica democratica e storiograficamente rigorosa nel dibattito su questi argomenti?
Non credo abbia senso perdere le speranze. Credo si stia sempre più diffondendo un atteggiamento dubitativo su questi temi. E forse è questa la ragione del successo di questo libro, che prova a dire a un pubblico comune: proviamo a ragionare insieme su quello che è successo. Inoltre credo ci sia la possibilità di influire sulle politiche della memoria. Ad esempio io ho sottoposto a critica gli interventi dei presidenti della repubblica, in particolare Napolitano e Mattarella, che hanno parlato di pulizia etnica, facendo notare come sia un termine sbagliato, messo in discussione da tutti gli studiosi. Non vuol dire per questo che critico il loro intero operato o loro stessi come politici. È una critica costruttiva, li invito a rivedere le proprie posizioni in merito a questo tipo di narrazione.
È necessario e doveroso costruire delle politiche della memoria europee, che abbiano una prospettiva transnazionale. Nell’Unione Europea di oggi non è possibile continuare con politiche della memoria rivolte solo al proprio Paese. Lo si vede in tutti i rapporti internazionali. Nei discorsi ai memoriali che vengono fatti a livello europeo non ci sono più discorsi nazionalisti. L’Italia è uno dei pochi paesi che mantiene, su questa vicenda in particolare, un atteggiamento fortemente nazionalista che non a caso suscita continue proteste in Slovenia e Croazia. È ovvio che bisognerà trovare una mediazione, che non deve essere la costruzione di una memoria condivisa, che è impossibile, ma una memoria integrata. Si devono integrare le diverse memorie nazionali e creare una memoria europea, che sia costruita da più memorie differenti. Mi auguro che anche l’Italia prima o poi faccia questo passo. Per farlo deve usare anche libri come il mio. Sono uno studioso che conosce le lingue jugoslave, che ha studiato in quegli archivi, conosce quei territori. Questo mi consente di adottare anche un altro punto di vista. All’inizio del libro dico proprio questo: noi parliamo di “confine orientale”, ma quello è il “nostro” confine orientale, per qualcun altro sarà “occidentale” o “meridionale”. Proviamo ad accettare anche altri punti di vista e troveremo il modo di pacificare le memorie.
7 febbraio 2021
Intervista a cura di Oreste Veronesi
(Tratto da: Oreste Veronesi: Le foibe spiegate bene. Intervista a Eric Gobetti, in: https://www.malorarivista.it/2021/02/07/le-foibe-spiegate-bene-intervista-a-eric-gobetti/ visitato il 5 febbraio 2024).
Inserito il 07/02/2024.