Altri significati simbolici del numero sette
Capitolo 7
Altri significati simbolici del numero sette
Altri significati simbolici del numero sette
Nella tradizione ebraica, il numero sette ha un’importanza speciale. Denota tenerezza, affetto: i nostri saggi dicono tutti i sette sono cari. In particolare, quando il sette diventa settanta indica le nazioni della terra.
La lista delle nazioni originatesi da Noè, e che la Genesi enumera, ne comprende settanta. Questa è anche la cifra alla quale accenna il passo del cantico di Mosè: Fissò le frontiere dei popoli secondo il numero dei figli di Israele41. Questo testo allude ai settanta figli di Giacobbe che, con il padre, discesero in Egitto. Insinua con ciò il carattere rappresentativo, dal punto di vista religioso, dei figli d’Israele nei confronti delle altre nazioni, poiché i settanta capifamiglia israeliti divengono in seguito i rappresentanti religiosi delle settanta nazioni della terra. È probabilmente per questo che tale cifra è rimasta sistematica nell’ebraismo. Il primo consiglio supremo istituito da Mosè in Israele, e più tardi il Sinedrio, erano composti, ciascuno, da settanta membri (E. Benamozegh, op. cit.).
Per continuare ad approfondire il significato altamente simbolico del numero sette e introdurre la seconda parte del nostro testo che inizierà affrontando la questione dell’unità e unicità divina, esamineremo di seguito un passaggio di Isaia e precisamente i versetti 48, 12-16:
(12) Ascoltami, o Giacobbe, e Israele da me chiamato.
Sono Io, sono Io il primo e Io sono anche l’ultimo.
(13) La mia mano fondò la terra e la mia destra distese i cieli.
Io li chiamo, ed essi si alzano assieme.
(14) Tutti voi radunatevi e ascoltate: chi tra loro annunciò tali cose?
Colui che è amato dal Signore, eseguirà ciò che a Lui piace in Babilonia e il suo braccio sarà contro i Caldei.
(15) Io, Io ho parlato e anche l’ho chiamato.
L’ho fatto venire, il suo cammino sarà fortunato.
(16) Avvicinatevi a me ed ascoltate:
“Non ho parlato sin dall’inizio in segreto.
Da quando esiste, Io sono là”.
Ed ora il Signore Iddio e il suo spirito mi hanno inviato.
Prima di tutto bisogna osservare che quasi ogni versetto della Torà è composto da due proposizioni. Questa struttura è sottolineata da una nota emessa con una cantillazione più accentuata, l’etnachta.
La seconda proposizione dell’ultimo versetto del passo sopra citato si può anche interpretare: “E ora il Signore Iddio ha inviato me e il suo spirito”. Il Targum42 e Rashi spiegano che in questa frase finale avviene un cambio di soggetti. Le ultime parole della proposizione precedente si possono anche intendere come: “Io sono qui”. Con queste parole si conclude la parte pronunciata da D-o, mentre la frase finale è del profeta e, come abbiamo appena detto, si può interpretare leggendola “ed ora il Signore Iddio ha inviato me e il suo spirito. Radak43 spiega che talvolta il profeta sente una voce che proviene direttamente da D-o e talvolta ha la visione di un angelo inviato per parlargli; secondo tale lettura, “il suo spirito” rappresenta l’angelo. Il significato del verso sarebbe dunque: “D-o mi ha mandato insieme all’angelo che vedo nella mia profezia ecc.
Un’altra lettura del “suo spirito” è: “lo spirito dentro di me”. Il profeta riferisce di essere ispirato ed è questa la spiegazione che ne dà rav Sa’adià Gaon. La vav della parola v’rucho - “e” il suo spirito - viene tradotta come “con”. Il significato del versetto secondo questa lettura è: “D-o ha suscitato il suo spirito in me, e con il potere di questo spirito mi ha mandato a profetizzare per il popolo”. È evidente che in questo passaggio non è enunciata la presenza di tre differenti divinità.
Nel versetto 12, la parola “Io” (anìy) è ripetuta tre volte: Sono Io, sono Io il primo e Io sono anche l’ultimo; questa ripetizione significa che “Io sono unico e lo stesso”. Il versetto 15 inizia con la parola “Io” ripetuta due volte: se riflettiamo sul significato di questa seconda ripetizione, ci accorgiamo che i due Io indicano due manifestazioni complementari dello stesso Io, come se la stessa persona parlasse da due posizioni diverse. Il versetto 12 significa “Io compaio come primo, compaio come ultimo e Io sono Io”.
Secondo la mistica ebraica, in questo passaggio di Isaia si cela un numero che esprime bellezza e importanti segreti. Come abbiamo già visto, il numero sette è estremamente significativo nella Torà e il valore numerico della parola anìy è sette (alef = 1, nun = 50, yud = 10; togliendo, secondo un principio accettato della Ghematria, lo zero di 50 e 10 abbiamo: 1 + 5 + 1 = 7)44.
La parola anìy è ripetuta sette volte in tutto il passaggio. Appare tre volte nel primo versetto, una volta nel secondo, due volte all’inizio del quarto e una volta a conclusione della penultima frase dell’ultimo versetto: Io sono là. Nella Cabala la parola “là” è sempre il simbolo di malchut, regno, che si trova al settimo livello delle sefirot legate alle emozioni, l’ultimo; il settimo livello è dunque esplicitato in “Io sono qui”. Da questo passaggio di Isaia apprendiamo così che le manifestazioni di D-o sono sette, e non semplicemente tre.
Ora, la parola ebraica ayin designa l’occhio e la lettera ayin rimanda sempre alla lettera alef che contiene (sia per la similitudine fonetica delle due lettere sia per il loro rapporto numerico 1: 70). L’essenza interiore di occhio è ayin (con la lettera alef che sostituisce la ayin), che è una mutazione della parola anìy, “io”. Analogamente all’inglese I (io) che si pronuncia come eye (occhio), in ebraico esiste una stretta correlazione fra anìy, io, e ayin (occhio). Nelle Scritture leggiamo che D-o ha sette occhi (Zaccaria 4, 10); ovviamente questa affermazione non va presa alla lettera ma vuol dire che D-o guarda e giudica il creato da sette prospettive diverse (corrispondenti alle sette sefirot sopra esaminate). E come D-o ha sette ayin, rivela se stesso attraverso sette anìy; approfondendo questo passagio di Isaia, ci immergiamo sempre di più nel segreto del numero sette.
Infine nel primo versetto “Io” compare in sequenza come sesta, ottava e undicesima parola; nel secondo versetto si trova al nono posto, nel quarto versetto al primo e secondo posto e nell’ultimo al dodicesimo. Se addizioniamo questi numeri, otteniamo 25 (5 alla seconda) nel primo versetto e 24 (25 meno uno) per i versetti rimanenti (25 è anche il valore della parola anìy se ne consideriamo le lettere che la compongono nella sequenza dell’alfabeto: alef, la prima lettera, è 1; nun, la quattordicesima lettera, è 14; yud, la decima lettera, è 10; sommandoli insieme, il risultato è 25). Ora, 24 + 25 = 49, che equivale a 7 alla seconda. Questo risultato esalta il significato del numero sette; come dicevano i nostri saggi: tutti i sette sono cari.
Se consideriamo la posizione di anìy a partire dalla fine di ogni versetto seguendo il procedimento precedente, otteniamo il numero 39, tre volte 13; sette e tredici compaiono spesso accoppiati nella Torà. Tre volte 13 è il valore numerico di Havayah echad, “D-o è uno”; il valore numerico di Havayah è 26, due volte 13, il valore di echad che significa “uno”. Il Nome di D-o ha dunque in sé due manifestazioni complementari di unicità: Havayah echad, “D-o è uno” equivale a tre volte uno (echad, 13). Possiamo così osservare che il valore di “tre” uno - echad, echad, echad - corrisponde al valore numerico dei sette anìy se ne consideriamo la collocazione nella sequenza delle parole dei versetti a partire dalla fine.
Possiamo così comprendere come ognuna delle migliaia di parole e segni che si trovano nella Torà sia una manifestazione della Divinità e dell’Unità e tutti questi segreti concorrono a mostrarci la perfezione del D-o unico.