Le gallerie
Salonicco, 12 maggio
Alla fine di questa lunga e disgraziata giornata di viaggio, ho trovato per bontà del Signore il tempo di scriverti almeno una volta. Ti prego di dare massima considerazione alla mia lettera, perché non sono certo di quando potrò farti avere altre notizie, se mai potrò farlo ancora.
Spero che potrai mettere da parte i dissapori che ci sono stati fra me e te, e che ti renderai conto della natura del pericolo in cui mi sono imbattuto proprio dal fatto che non c’è altra persona alla quale io senta di poter affidare la terribile verità di cui sono stato testimone.
Prima di iniziare il mio racconto, è meglio raccomandarti di rivolgere una preghiera alla Vergine, per te stesso e per me.
Questi uomini della Grecia, quando si tratta di svolgere faccende della massima importanza, sanno essere i più sbrigativi del mondo ma non i più gradevoli. Data la riservatezza necessaria alla natura del mio incarico e dei lavori che avrei dovuto supervisionare, non mi aspettavo certo il massimo del garbo, ma neanche la povertà dell’accoglienza e degli alloggi offertimi, né la nervosa fretta con la quale sono stato accompagnato fuori città.
Il mio incarico era, per la prima volta in anni di duro lavoro, qualcosa di veramente emozionante. Sai anche tu quanto il progetto del Piano Sotterraneo sia importante per la Comunità europea e quanto a lungo i nostri uffici siano stati impegnati nel dirigerne l’attuazione nell’ultimo decennio. Avrei osservato con i miei occhi il primo progetto di urbanistica nel sottosuolo!
Quando ancora la comprensione del tempo aveva un senso, ricordo di aver impiegato un’intera giornata nella discesa verso la Pianta Superiore (questo è il nome che i lavoratori danno al punto più vicino alla superficie). Questo luogo era riguardosamente attrezzato e provvisto di ogni genere di ambiente per il benessere, alloggi e sale da ricevimento, distribuiti tutti all’interno di una serie di edifici sotterranei.
Lo stato in cui questi ambienti erano stati lasciati era però di quasi totale abbandono. Il motivo di questa trascuratezza mi fu spiegato con una semplicità tale che ne trovai logica e immediata l’accettazione: si aveva avuta troppa fretta nel costruire i primi edifici per le residenze e il turismo quando in realtà c’era ancora molto da scavare, e tutto sarebbe stato sistemato prima dell’apertura.
Mi furono mostrati immediatamente gli elenchi dei responsabili, dei lavoratori suddivisi nei vari reparti e gli inventari delle macchine.
Quarantadue uomini qualificati erano responsabili di un alto numero di operai, tecnici e ingegneri che si aggirava intorno ai seimila elementi. Mi perdonerai per la vaghezza dei dati, ma circostanze successive mi hanno portato a considerare irrilevante questi numeri iniziali.
Come richiesto dal protocollo avrei dovuto subito fare conoscenza con il direttore generale dei lavori, il signor Didymos Vasiakas.
Mi informarono quasi subito che egli si trovava a tre livelli di profondità più in basso e non aveva fatto in tempo a raggiugerci, ma che lo avrei potuto incontrare a breve. Chiesi immediatamente quanta distanza ci fosse fra un livello e l’altro. Sbalordii al sapere degli svariati chilometri che, scendendo nelle profondità, collegavano le diverse basi sotterranee.
Perché per quanto i documenti che ancora oggi vengono portati nei nostri uffici sostengano che le opere che ho osservato stiano venendo realizzate in Atene, ti posso assicurare che la loro assurda enormità le rende estranee a qualunque idea di edilizia cittadina fino ad oggi formulata. Quello che sta venendo creato è decisamente qualcos’altro; non è irragionevole pensare che le sue proporzioni lo rendano un insediamento nuovo come non se ne sono mai visti nella storia.
Pensai ovviamente che quegli uomini si stessero prendendo gioco di me; allora risi con loro e decisi che sarebbe stato meglio aspettare l’incontro col direttore.
Nemmeno quando mi venne mostrato il mio primo alloggio avvertii segni di buona accoglienza. Non ti descriverò la miseria del mio appartamento e lo sporco che si arrampicava sulle pareti, perché altre stranezze, fin dalla prima notte, toccarono il centro della mia amigdala al punto da farmi dimenticare delle scomodità.
Affacciandomi dalla finestra del mio abitacolo e rivolgendo le orecchie verso le grandi aperture dei passaggi che scendevano verso i livelli inferiori, era possibile sentire in ogni momento dei suoni misteriosi, come di un sinistro, incessante gocciolio d’acqua. A questo liquido ritmo si aggiungeva un ronzio indistinguibile e continuo, di quelli prodotti dai cori quando si odono in lontananza. Lo trovai troppo sinistro per riuscire a dormire. Mi sembra quasi inutile specificare quanto io mi sbagliassi a ritenere che quei rumori fossero il frutto di una qualche suggestione.
Altri strani segnali giunsero in futuro.
Con l’aumentare delle profondità esplorate, la straordinarietà delle cose che vidi crebbe con l’incedere febbrile di un climax.
I cunicoli non si estendevano solo in lungo, perché il terribile aumentare delle temperature non permetteva di superare un certo numero di chilometri. Gli scavi iniziali proseguivano quindi estendendosi verso i quattro punti cardinali, dipanandosi dall’arteria principale come un irregolare tessuto tentacolare, in modo simile a come si vede nei formicai.
Avanzando silenziosamente nei lunghi corridoi oscuri, con le luci dei fari che mi trafiggevano gli occhi, alle mie orecchie continuavano a giungere strani suoni. Echi delle profondità, rigurgiti estranei e lontani che parevano propagarsi attraverso le vene della terra. Pensai che quei gorgoglii fossero gli stessi che nelle notti addietro avevo udito come dei ronzii lontani.
Quando chiesi timoroso di cosa si trattasse, mi dissero di non aver paura. “Stanno lavorando laggiù” dissero. E quando volli chiedere ancora quali strani mezzi stessero usando per produrre simili suoni, Vasiakas e i suoi fecero orecchie da mercante.
Mi accordai per farmi spiegare come orientarmi all’interno delle gallerie e promisero di prestarmi una delle loro automobili. Una maggiore autonomia mi avrebbe permesso di finire l’esplorazione in tempi minori senza togliere tempo prezioso ai responsabili dei cantieri.
Dunque Vasiakas mi spiegò la suddivisione delle gallerie con l’incedere atono di una macchina. Esse erano suddivise in diversi piani, denominati Piante o Livelli in base alla loro funzione: i primi servivano come centri operativi e avrebbero ospitato i quartieri residenziali all’apertura delle gallerie; i secondi erano utilizzati come magazzini per le macchine da lavoro. Gli operai alloggiavano nei prefabbricati edificati nei vari livelli, abbandonati poi in modo progressivo man mano che si scavava in profondità. Eccettuando la Pianta Superiore, ogni pianta era collegata a tre livelli, e da ogni livello si aprivano sei gallerie di collegamento, ognuna delle quali poteva condurre a una nuova pianta, a un nuovo livello o, in alcuni casi, a un vicolo cieco. Non erano rare le stazioni intermedie all’interno delle gallerie, o punti di collegamento che mettessero in comunicazione i percorsi convergenti di due o più gallerie.
Mi parve abbastanza chiaro.
A partire dal Quarto livello ogni galleria era utilizzata per un singolo senso di marcia, sicché esse erano collegate a due a due con un nuovo livello o una nuova pianta e ogni livello poteva collegarsi ad almeno tre nuove strutture.
Ma questa organizzazione, per quanto precisa e finora comprensibile, non riuscì a togliere alle mie esplorazioni un fortissimo senso di smarrimento labirintico. Tutte le gallerie erano uguali fra loro, deserte e desolate l’una alla stessa maniera dell’altra. E gli echi inquietanti e irriconoscibili continuavano a percorrerla, accompagnando ogni movimento della mia compagnia.
Non riuscii più a dormire.
Nonostante la pazienza con cui Vasiakas aveva provato a rendermi autonomo, non mi sentii in grado di attraversare da solo nemmeno un metro di quel dedalo spaventoso.
Quindi trascorsi due settimane al seguito del direttore e dei suoi collaboratori, esplorando cunicoli e cunicoli, settore dopo settore. Non ci fu modo che io mi ricordassi le vie percorse.
Il continuo ripetersi delle gallerie sempre uguali, tutte attraversate dagli stessi suoni, le stesse luci lampeggianti rosse e bianche disposte regolarmente lungo le pareti di cemento armato, erano destabilizzanti.
Nella storia delle mappature i punti di riferimento sono sempre stati necessari per riconoscere gli ambienti, che via via l’uomo riusciva a conquistare. E non c’è mai stato essere umano che non sia riuscito ad adattarsi agli habitat costruiti dai suoi simili. Ora mi pareva di essere il primo a non comprendere il senso o la definizione dell’habitat in cui si trovava.
Il prolungarsi spropositato di un tempo privo di riferimenti esterni che lo misurassero, non aiutava la mia capacità di abituarmi alle gallerie. E le gallerie stesse non davano l’impressione di volermi accogliere al loro interno.
Le mani mi tremano ancora al ricordo della paura, ancestrale come la sensazione provata dalla preda in trappola, che mi colse nel momento in cui mi accorsi di questo aspetto terribile della mia visita.
Fu quello il momento in cui il mio soggiorno si tramutò in una prigionia.
Iniziai a chiedere continuamente quale fosse la mia posizione, in quale livello o pianta mi trovassi, a quale regione della superficie esse corrispondessero. Il fatto che queste gallerie, oltre che in profondità, si estendessero anche a nord e a sud e che la loro lunghezza fosse evidentemente ancora maggiore delle distanze che avevo fino ad allora esplorato, mi dava la sensazione di essermi irrimediabilmente smarrito. E mentre l’uno o l’altro un giorno mi rispondevano che eravamo giunti a Orcomenos e poi a Lamia, rispetto al terrore che l’essermi allontanato così tanto da Atene incuteva in me, il sospetto che a un certo punto avrei potuto scoprire di non essere più nemmeno in Grecia mi spaventava ancora di più!
Passarono diversi altri giorni dei quali dimenticai di tenere il conto. Le gallerie aumentavano senza sosta, e il ridottissimo numero di operai rendeva chiara l’esistenza di altre profondità dove si stesse scavando. Di questi nuovi abissi non veniva ancora mostrata traccia.
Il numero e la catalogazione di queste strade inaccessibili continuava a sfuggirmi a causa dell’indecifrabilità dei codici che i lavoratori usavano per riconoscerle. Secondo la spiegazione di Vasiakas l’ordine alfabetico aveva dovuto essere abbandonato nel momento in cui ci si era accorti di non poter scavare oltre una certa profondità, e si era iniziata un’espansione della struttura verso nord, estendendo ogni progressivo avanzamento delle gallerie verso l’alto o verso il basso a seconda delle esigenze degli scavi.
Ne risultava che le lettere dell’alfabeto, il cui ordine sequenziale era stato sostituito dopo il Quarto livello, si presentavano in una disposizione la cui logica faticavo a comprendere. Alla Pianta Alfa, cioè la Pianta superiore, seguiva la Pianta Beta alla quale corrispondevano i livelli Beta alfa, Beta beta e Beta gamma, e così via fino al Quarto livello. Dopo di esso, la ragione delle denominazioni perdeva ogni consistenza, o meglio la mutava. A Pianta epsilon corrispondevano allora Theta corrispettivo Epsilon, Virgo e Camino, a loro volta collegati a gallerie, piante e livelli dai nomi sempre più arbitrari.
“Dovete capire” disse Vasiakas in risposta alle mie perplessità, “che non potevamo certo assegnare nomenclature illogiche a un sistema di gallerie che avevano perso la loro possibile assegnazione sequenziale. Ora che a una Pianta non poteva più succedere il solito gruppo di tre livelli e una Pianta ma anche due gruppi plantari, a Delta rischiavano di succedersi due Epsilon. Le omonimie di fronte alle quali avremmo rischiato di trovarci sarebbero state gravissime.
“La soluzione che abbiamo scelto è stata quella di sostituire le corrispondenze alfabetiche con quelle mentali più immediate. Insomma, scegliemmo lo stesso criterio di fantasia che utilizzarono i primi uomini quando scelsero il nome da dare all’Olimpo o al Tevere, al Reno o all’Etna.”
Il ragionamento mi sembrò mancare di accettabilità. Sarebbe bastato aggiungere una definizione topografica, anteporre le indicazione di nord o sud alle lettere identificative o che so io. Si sarebbe potuto scegliere qualunque dei sistemi già sperimentati in qualunque tipo di archivio o piano di ordinazione e il problema sarebbe stato risolto in un battibaleno.
Una decisione come quella di Vasiakas e del suo team era da considerarsi semplicemente irragionevole, vicina all’imbecillità. Ma ammetto di aver trovato affascinante una simile creatività.
Non mi fermai dal chiedere perché si fosse deciso di continuare a scavare nonostante le grandi profondità raggiunte e i già immensi spazi ricavati.
“Perché era necessario” fu la risposta che mi venne data. Il tono di Vasiakas era quello assolutamente convinto di chi non ha bisogno di fornire ulteriori spiegazioni, e io non ebbi il coraggio di chiedere oltre. “Quello che vi abbiamo mostrato finora vi potrebbe sembrare già abbastanza, e in effetti lo è. Il Piano sotterraneo sarebbe già in grado di ospitare l’intera popolazione di Londra e rimarrebbe ancora spazio, ma sotto terra ci sono risorse e novità mai viste, e se non avessimo iniziato questa impresa sarebbe stato impossibile scoprirle. Quando ce ne siamo accorti abbiamo capito che non potevamo ancora fermarci, la portata delle nostre scoperte è rivoluzionaria!
“Mi comprenda, signore. Dobbiamo continuare a scavare ancora un po’, ma il momento in cui tutto sarà rivelato al mondo è dietro l’angolo.”
Non volle dirmi però di quali scoperte stesse parlando.
Mi avrebbero mostrato tutto a suo tempo. Questo non mi curò dal senso di smarrimento che ormai si era impossessato di me, moltiplicando i miei dubbi, le mie esitazioni e i miei timori.
Del lavoro degli operai continuavo a non avere prova. Iniziai a sospettare che in realtà le costruzioni fossero già terminate, che si stesse tentando in qualche modo di imbrogliare le nostre istituzioni e far finire i soldi dei finanziamenti chissà dove.
I miei occhi allora, con una certa compiaciuta facilità, guardarono a Vasiakas come a una specie di impostore.
Decisi che era arrivato il momento di muovermi in autonomia. Pur spaventato dall’idea di perdermi, era la cosa migliore da fare. Il direttore fu molto contento quando lo informai della mia risoluzione e mi regalò una fitta mappatura per evitare che mi smarrissi.
Mi furono dati l’automobile promessa e due pranzi a sacco, casomai non avessi voluto fermarmi al tavolo degli operai o non avessi trovato nessuno nelle sezioni che avrei esplorato.
Dunque mi avviai, per la prima volta fisicamente lasciato solo. Dico fisicamente perché, sul piano dello spirito, già da molto tempo mi sentivo completamente isolato. Verso gli uomini che mi avevano accolto io sentivo la stessa affinità che si può avvertire di fronte a delle statue umanoidi: niente più che il riconoscimento della loro esistenza, e della più estrema lontananza della loro natura dalla mia.
Partii con l’impressione di star commettendo una grossa trasgressione.
Attraversai la pianta Colonna –ebbi l’impressione di averla già superata in precedenza- e da lì la galleria Porfiria prima. Giunsi all’ingresso del livello Theta gamma (questo molto lontano da dove ricordavo di aver trovato Theta alfa e Theta beta) e mi misi alla ricerca degli operai.
Avevo fatto attenzione a seguire i suoni misteriosi che si propagavano attraverso i corridoi, e mosso dalla curiosità avevo deciso di proseguire per la via dove le pulsazioni, le cacofonie e le nenie gorgoglianti mi fossero sembrati più intensi.
Il suono quindi si faceva più forte lungo la galleria Grano, e per ogni metro che percorrevo le mie orecchie riuscivano a udirlo con maggior chiarezza. Giunse la disturbante impressione che in quelle sonorità paludose e gravi fossero rinchiuse delle specie di parole.
Alla fine di Grano mi imbattei nella prima porta d’acciaio chiusa.
Ne cercai il nome e lo lessi sottovoce: Radice di meno uno. Non capii.
Non vi erano lucchetti, serrature o sbarramenti, quindi appoggiando le mani alla maniglia aprii la porta. Un’immane massa di aria gelida, veloce come se fosse stata bora, mi investì e provai un freddo tremendo misto a interminabili brividi: mi ricordai del vento, di quanto a lungo non ne fossi stato toccato.
Insieme a quella misteriosa folata d’aria, l’apertura della porta liberò un concerto di suoni di cui ciò che avevo potuto udire fino a quel punto non doveva che essere una minuscola propagazione. Note gutturali, vocali graffiate, scrosci indistinguibili e stridii lamentosi si univano e si separavano, scomponendosi e ricomponendosi e torturando i miei timpani. Li accompagnava il ritmo regolare delle percosse, e con esso il tragico fragore della roccia spaccata, perforata.
Afferrarmi le orecchie con le mani non poteva sortire alcun effetto e per fortuna riuscii a rimanere abbastanza lucido da ricordarmi dei paraorecchie di sicurezza che mi erano stati consegnati insieme all’automobile.
Radice di meno uno, che adesso mi pareva attraversata da una cacofonia più lieve e ovattata, si presentava come un corridoio troppo stretto perché io lo potessi attraversare in auto. Ed era molto buio.
Raccolsi la torcia e infilai i pasti a sacco in uno zaino. Indugiai, poi attraversai la porta.
Anche con i paraorecchie era impossibile non notare che il concerto abissale diveniva via via più intenso e fastidioso, e i miei brividi più freddi. Non vi erano luci che illuminassero la galleria per tutta la sua lunghezza e non se ne vedevano in lontananza, e io mi chiesi preoccupato come potessero lavorare degli operai, a quelle profondità, in una così totale assenza di illuminazione.
Ciò che la torcia poteva mostrarmi era comunque poco rispetto a quello che, mi pareva, ci fosse da vedere nel tratto di strada che stavo attraversando.
Il terreno sotto i miei piedi mi pareva molto umido, e quando lo illuminai scoprii che non era stato asfaltato né piastrellato come tutti gli altri stabilimenti; fatto insolito anche per una galleria di collegamento. Era viscido, di consistenza fangosa e di uno strano colore pallido.
Ora mi pareva di scendere verso il basso, molto in basso vertiginosamente.
L’aria, che sembrava molta e ben fresca e respirabile, mi diede l’impressione di trovarmi in uno spazio molto ampio. Allora rivolsi la torcia nelle quattro direzioni e, non notando alcune pareti, provai a muovermi verso destra e verso sinistra. Scoprii allora di essere vittima di una strana illusione: mi trovavo in realtà in un corridoio ancora molto stretto, e credo che non vi sarebbero potuti passare due uomini uno di fianco all’altro, ma né le pareti né il soffitto riflettevano alcuna luce. Era come camminare sotto una volta di pura oscurità.
I versi orribili e rigurgitanti iniziarono intanto a intonare nuove note. La loro intensità aumentò quando il mio percorso curvò improvvisamente verso sinistra, una novità nello schema ripetitivo e poligonale delle gallerie.
Immaginai di potermi trovare alla fine di fronte a uno scenario gradevole, magari una fantasia creativa posta come ciliegina sulla torta di un lavoro quasi concluso. Allora avrei riso dei miei timori e mi sarei complimentato con gli architetti e con gli operai. Poi avrei dato qualche bella opinione sulle macchine e sul cantiere, stretto le mani a Vasiakas e mi sarei fatto accompagnare fuori. Lo sperai con tutto il mio cuore, pregando.
Sprofondando ancora di più nella terra oscura attraversai la spirale di oscurità. Per ogni metro che percorrevo, le note claudicanti e orrende della cacofonia misteriosa aumentavano di volume e per ognuno di questi aumenti io divenivo sempre più incapace di tranquillizzarmi.
Finalmente avvistai una luce, un alone rosso che veniva da dietro la prossima svolta del tunnel. Si muoveva come la luce di un fuoco e mi parve molto strano che gli operai avessero acceso un falò.
Intanto le cuffie non erano più in grado di proteggermi dal fastidio provocato dai suoni, ai quali adesso si erano aggiunte voci umane.
La lingua in cui questa moltitudine si articolava era difficile da riconoscere.
Discesi gli ultimi gradini e mi avvicinai alla porta, ammiccando per abituarmi all’improvvisa luce. Mi aspettavo di trovarmi di fronte a una pianta o a un livello finale, un ultimo accampamento di prefabbricati dove si stesse celebrando una festa. Avevo rigettato tutte le stranezze e i segnali di pericolo, mi ero fidato di Vasiakas e della sua accoglienza, e avevo compiuto uno sbaglio.
Immensamente più grande e più spaziosa di ogni altro livello che io avessi visitato, una contorta cattedrale sotterranea si apriva senza che io ne potessi vedere il fondale oltre l’oscurità che ne avvolgeva la maggior parte delle pareti, dei bordi e dei volumi irregolari.
Pinnacoli impossibili, come stalattiti e stalagmiti generati dalla terra, si estendevano incredibilmente in azzardi strutturali puntellati di buchi e fessure, come fossero essi stati le feritoie di un terribile castello maledetto. Da questi angoli oscuri emergevano lumi e bagliori di fiamme rosse, che mi guardavano come gli orribili grappoli di occhi di una creatura aracnide. E se ne diramava, come il suono di uno zufolo, tutta la disarmonia inaccettabile e aliena che avevo udito nella mia discesa infernale.
Ai piedi di queste colonne minerali stavano le macchine distrutte o semidistrutte, lasciate abbandonate senza cura e immerse in disgustevoli amalgamati di rifiuti, sterco e sostanze semisolide sconosciute. Guardai ai miei piedi e scoprii che il pavimento sul quale avevo camminato era fatto dello stesso vomitevole materiale, e provai un odioso disgusto.
Dove non stavano le macchine, in grandi spiazzi pieni di rocce lapidarie e strani cumuli fatti di sbarre di ferro si trovavano gli operai. Ma ti assicuro che li riconobbi solo per i loro elmetti di sicurezza o per gli altri riconoscibili brandelli di abiti da lavoro che vidi loro indossare. Per il resto, stabilire se l’aspetto di quelle creature estranee e inspiegabili fosse umano mi è ancora difficile.
Non riuscii a guardare per più di qualche attimo i loro arti informi e contorti, i pori spalancati in bocche schifose vomitanti esalazioni che percorrevano le loro schiene.
Di quelle creature ce n’erano a migliaia. Erano tutti addossati intorno alle stalagmiti, abbarbicati sulle scale che percorrevano le immense pareti, o riempivano le finestre e i fori dei pinnacoli. Non sono riuscito a contarli, ma il loro numero era sterminato.
Mentre la mia vista si annebbiava, dovetti lottare con tutte le mie forze per non cadere a terra in preda al panico. Perché era il panico più puro che ora scorreva nelle mie vene insieme al sangue e trafiggeva le mie membra come un coltello seghettato. La voce e il respiro abbandonarono i miei polmoni.
E mentre, incerto, cercavo di riprendere coscienza di me stesso, alle mie orecchie giunsero finalmente distinti gli empi versi di una lingua distorta.
Iä! Iä! Khu’rah khu! Phli’n gha fb’ehä Astaron’eph
Astaron’eph gh’lua gha iä!
Fuggii da quelle mostruosità di cui non sapevo giustificare la presenza, da quelle opere impensabili la cui struttura fuori dal mondo mi era impossibile da capire. Corsi incespicando qua e là sui gradini umidi a causa di quella sostanza orripilante, e ogni volta che provavo a chiudere gli occhi rivedevo tutte quelle lucine rosse e maligne mentre si affacciavano e mi osservavano dalla roccia dannata.
Continuava intanto ad assillarmi il fragore di quel rituale che fui felice di non aver interrotto. Le pareti oscure rimbombarono dei suoni corrotti con maggiore forza finché non mi parve che la terra stesse tremando.
Varcai di nuovo la Radice di meno uno e mi avvinghiai al volante della mia vettura con le mani tremanti e l’anima spezzata in due, poi premetti sull’acceleratore e iniziai una disperata corsa a ritroso.
Non volsi più lo sguardo all’indietro e non tornai verso i livelli superiori alla ricerca dell’uscita. Vagai errabondo col piede piantato sull’acceleratore finché il carburante non esaurì le sue ultime gocce, poi ripresi a camminare per le lunghe gallerie deserte col passo incerto e il cuore che batteva all’impazzata.
Marciai morso dalla fame e dal terrore. Volevo uscire e volevo scappare da Vasiakas e dagli operai.
Scoprii gallerie e livelli dalle forme contorte, mi persi più volte, e non ricordo quante volte fui costretto a tornare sui miei passi.
Nella mia fuga non seppi quasi più riconoscere le direzioni, o forse esse non vollero più mostrarsi a me: sottoterra il sotto può diventare il sopra, il nord scompare e l’est divora l’ovest. Mi muovevo nell’assenza di direzioni inseguito dal terrore generante nemici invisibili, e dall’orrenda canzone delle profondità.
Non ti racconterò dell’agonia che fu per me quest’ultimo percorso, perché quando anche la torcia si spense fui costretto a proseguire al buio e alla cieca (non vi erano più fari a illuminare la via!) per non so quanto tempo. Allora anche le tre dimensioni si annullarono e io le dimenticai.
Nel buio i miei piedi erano incerti, e tastando la roccia e il cemento mi affidavo alle mani cieche. Gli occhi, l’olfatto, tutto ciò che reputavo prezioso per la sopravvivenza non contò più nulla. Solo l’udito si riempì di certezze maledette e mi costrinse ad ascoltare l’eterno ripetersi di Astaron’eph e iä! Iä! senza permettermi di farne a meno.
Quelle parole mi tormentarono fino a che non le accettai come unica compagnia.
Quelle parole si insinuarono nella mia testa come vive creature verminose.
Continuarono e continuarono a tormentarmi, quelle parole, finché non accadde che io le sentissi in modo diverso, in forma diversa. Avevano in qualche modo il suono della Verità, ma quale verità questa fosse io non riuscivo a capirlo, e sospettai la mia pazzia.
Credo di aver passato tre giorni così.
Ricorderò il giorno del 6 maggio come il più fortunato della mia vita, come una seconda venuta al mondo.
Una piccola botola che vidi immediatamente sopra la mia testa mi salvò. Dalle sue minuscole fessure filtrava della luce e io la vidi quando, ormai esausto e assetato, stesi la mia schiena a terra. Dopo essermi arrampicato sui pioli della scala finalmente riuscii ad evadere dalla prigione labirintica in cui ero stato rinchiuso e dagli orrori che vi avevo trovato.
Scoprii di trovarmi a Giannouli, a più di cinquanta chilometri a nord di Atene.
Chiusi la botola, riposai un po’ e poi mi misi alla ricerca di un motel nella cittadina. Il giorno dopo partii per Larissa e da lì ho raggiunto Salonicco a piedi: pensai che viaggiando per le strade di campagna e lungo l’autostrada sarei stato più al sicuro se avessero mandato qualcuno a cercarmi.
Temo che il mio calvario non si concluderà qui, ma per il momento è meglio che tu riceva quanto ti ho scritto. Perdona la mancanza di ulteriori dettagli, ma la fretta e la paura mi impediscono di indugiare.
Per il tempo che mi rimane da vivere –e non me ne rimane molto se Vasiakas, come penso, vorrà mantenere intatti i suoi segreti- non dimenticherò mai ciò di cui i miei sensi sono stati testimoni.
Non abbandoneranno mai la mia memoria le immagini raccapriccianti delle creature inumane che ho visto festeggiare sui cumuli di sporcizia profana nascosta dal sottosuolo, né il loro canto abominevole nelle loro costruzioni inenarrabili.
Quel canto indescrivibile, alieno e odioso, non era di questo mondo e il suo linguaggio non credo sia mai stato noto all’essere umano se non nelle epoche ancestrali, in cui l’esistenza degli uomini si confondeva con quella delle bestie e gli antichi sacerdoti conversavano con divinità sanguinarie di altri mondi, ora dimenticate.
Ma io so ora cosa significava. Nel mio errare cieco, mentre nelle mie orecchie il canto rimbombava terribile come la Verità, io l’ho capito: loro si preparano a salire da noi.
Conquisteranno la superficie, reclameranno il loro diritto originario.
Ora la grandiosità della scoperta di Vasiakas mi è comprensibile.
Ammetto, con quel poco di terrore che rimane alla mia coscienza corrotta, di essere spaventato dai miei pensieri, e ti chiedo ancora oltre di pregare per me. Perché vedi, io ora mi ritrovo fremente nell’attesa che il loro ritorno avvenga, e non vedo l’ora di unirmi al loro Canto.
Abyssus abyssum invocat.
Francesco Sicilia