Fuori fuoco di Maria Wanda Amato
Quando le ho chiesto quale cravatta mi stesse meglio tra le due che mi ciondolavano dal braccio, Lei ha risposto che sembravo un idiota con entrambe. Mi ero guardato bene allo specchio e le avevo dato ragione. Ma solo nella mia testa, guai a dirglielo, le si sarebbero spalancati gli occhi e dilatate le pupille ed uno strano sorriso si sarebbe fatto largo sul suo volto. Non sorride spesso e quando lo fa è sempre per gli stessi motivi incomprensibili – al bar sotto casa è rimasto un ultimo cornetto ai frutti di bosco, è riuscita a fare esattamente ventitré passi per arrivare alla porta, e ancora al cinema o in pullman nessun ragazzino fastidioso le ha preso a calci il sedile. Nessuna delle cose che ho fatto per lei l’ha mai resa felice quanto un cornetto, ammesso poi che io abbia realmente fatto qualcosa. Per ogni rosa regalatale avevo collezionato un sorriso spento ed un grazie detto a denti serrati. Un gesto banale di una persona banale per un’altra persona banale, pensavo, e intanto salivo su quell’incessante giostra delle convenzioni sociali che mi aveva sempre fatto venire la nausea, cercando di raggiungerla. Lei però non si lasciava mai prendere e anche quando era ad un passo, in realtà distava anni luce. Era lì, in piedi, di fronte a me. Eppure non c’era, quello non era che il suo spettro. Sorprendevo me stesso ad immaginare che quella fosse la controfigura che lasciava vivere al suo posto perché troppo impegnata a farsi strada tra labirinti di pensieri o ad indossare l’armatura di acciaio e impugnare la lunga spada per trafiggere senza pietà i mostri che lei sola poteva vedere.
Quando ci siamo conosciuti era un insignificante pomeriggio di Aprile che, converrete, è a sua volta un mese insignificante. Niente roba da film o cose del genere. Io avevo appena finito di registrare il programma alla radio dell’università. “She came in through the bathroom window” dei Beatles aveva concluso la puntata di quel giorno. Al tempo Lei usciva con Lui, che conduceva con me “13 secondi”, probabilmente il tempo che la gente ci impiegava a capire quanto il programma fosse terribile e cambiare stazione. Ad ogni modo dicevo che la prima volta che l’ho vista era un normale venerdì di Aprile. I capelli li aveva raccolti in una coda scompigliata che non le donava affatto e aveva indosso una giacca a vento di un giallo sbiadito e di una o due taglie più grande. Saliti in macchina era piombato il silenzio. Poi Lei aveva detto “Ho ascoltato il programma”. Lui si era girato entusiasta verso di Lei, che guardava distrattamente la strada, e mentre socchiudeva gli occhi e serrava le labbra per fingere un’umiltà che non gli apparteneva, Lei aveva aggiunto “Fa schifo”, senza staccare la fronte dal finestrino. Tutto a un tratto Lui non aveva avuto più motivo per fingere di non sorridere, ed Io invece per fingere di farlo. La vecchia Mercedes si era fermata sotto casa mia ed Io ero sceso salutando timidamente, senza aspettare una risposta. Qualche tempo dopo si sono lasciati e lui veniva in studio con le t-shirt sporche e la barba incolta. Con la superbia di chiunque provi a consolare qualcuno da un male che non può capire continuavo a ripetergli le stesse frasi di circostanza.
Una sera di Novembre poi, mentre tornavo a casa a piedi con le mani nelle tasche e il naso nella sciarpa, l’avevo vista. Stava comprando un trancio di pizza nel locale più squallido del quartiere.
Il resto lo immaginate, no?
Mi annodo la cravatta color malva – ha detto che si chiama malva e non verde, come se poi ci fosse differenza- e da sopra alla mia spalla sinistra riflessa nello specchio la spio. Lei sta guardando fuori dalla finestra, l’espressione assente, la schiena curva e le mani l’una nell’altra poggiate sulle gambe nella sua solita posizione. A volte mi chiedo se respira, se è vera. In certi momenti vorrei prenderla per le spalle e scuotere forte per vedere se c’è o se mi sta ingannando, se anche questo è uno dei suoi giochi perversi.
Poi però guarda a terra e senza alzare gli occhi dice “Ripensandoci, ti sta meglio l’altra”