Da quando i girasoli hanno le spine?
08.12.2017
“Qua è tutto matto il mondo!”
Come un orologio le sue grida mi svegliarono da quel sonno -durato troppo poco- accompagnate dall’odore di caffè amaro.
Io odio il caffè.
Quella era l’ennesima mattina in cui provavo un fastidiosissimo prurito al naso che aumentava solo il mio nervosismo.
“E questa mattina cosa succede?” cercai di nascondere il tono saccente fingendomi sorpresa ed interessata (i risultati furono scarsi ma a lui poco interessava, aveva già assunto quello sguardo da finto imbestialito).
“Quell’idiota del mio capo mi ha ordinato di andare immediatamente in ufficio o me la farà pagare molto cara! Devo scappare amore, non credo di tornare per pranzo, dovrebbero esserci del tonno e della marmellata di lamponi. A dopo!”
“Oh ma certo, non vorrai farlo arrabbiare”
Gli diedi un bacio mentre facevo un fiocco ai nastri della mia vestaglia turchese che mi regalò mia madre il natale scorso, per poi accompagnarlo alla porta.
Imbecille.
Era davvero arrivato a credere che io potessi bermi queste stronzate? Cambiasse almeno scusa ogni tanto!
E poi cosa dovrei farci col tonno e la marmellata di lamponi a parte una bella indigestione?
Il suo “capo” era quella ragazzina, quella con le unghie troppo lunghe di quel colore troppo rosa che si guadagnava da vivere facendo la cassiera al supermercato all’angolo, quello che aveva più roba scaduta che fresca.
Ma se vuoi bere champagne a colazione e far indossare al tuo chihuahua collarini diamantati non puoi semplicemente fare scontrini mentre mastichi una gomma
-così a lungo da farle perdere sapore- che lascia intravedere il piercing alla lingua.
E così la biondina ebbe la geniale idea di adescare qualche allocco nella sua trappola sbattendo le ciglia cariche di mascara per togliersi qualche futile sfizio.
Atteggiamento tipico di una ragazzina di quell’età senza sogni né aspirazioni, abituata al ‘tutto e subito’.
Ma mio marito come era potuto cascarci?
Lui che viveva nell’eleganza, che mi aveva insegnato a bere il vino e mi leggeva Platone.
Ricordo ancora quel febbraio in cui parlammo per la prima volta, eravamo così complici ed esilaranti:
io ero seduta al tavolino di quel bar in periferia (era meno affollato di quello in centro) a studiare filosofia mentre fumavo una sigaretta dopo l’altra, ricordo che quell’interrogazione andò malissimo perché passai tutta la settimana in giro con lui che mi fotografava ogni volta che ero distratta.
Indossavo quel basco verde che imparò ad amare e che mi chiedeva di portare sempre; lui venne quando ero sull’orlo di una crisi di nervi, girò la sedia accanto alla mia e si sedette a gambe divaricate.
“Sei bellissima qui da sola mentre fumi”
“In compagnia lo sarei certamente di più!” ribattei con una faccia tosta che non mi apparteneva ma che fece sì che quel ragazzino sbarbato e misterioso quanto sfacciato diventasse mio marito.
Di lì in avanti un lento declino.
Vivemmo quelle esperienze tipiche delle giovani coppiette, ma non eravamo destinati a star insieme.
Un po’ per pigrizia, un po’ per abitudine ed un po’ per paura decidemmo di sposarci.
Non sono mai stata una donna abituata a grandi cose, ma almeno la proposta di matrimonio me la sarei aspettata un tantino più speciale.
Aveva già perso la sua fantasia:
eravamo a casa, nel nostro ufficio, indaffarati fra una violazione della privacy ed un ergastolo.
Il destino volle che nello stesso momento in cui lessi delle carte riguardanti un divorzio lui mi dicesse “Sai, dovremo sposarci”
Avrei dovuto capirlo già allora che era una trappola.
Ma fui ingenua e poco furba biascicando un silenzioso “sì” camuffato da uno sbadiglio.
Le cose che più mi eccitarono di quel matrimonio furono il mio vestito bianco che stringeva bene i fianchi e metteva in risalto quel corpo per cui avevo lavorato tanto e la nonna che si addormentò in chiesa durante l’omelia del prete facendo un rumore simile al grugnito di un maiale.
Inutile dire che mio marito ricorda con entusiasmo solo una di quelle due cose.
Un’altra mattinata era stata sprecata fra pensieri e nervosismo, ormai ci ero abituata.
Tutto quel rivangare il passato mi mise
-però- una gran fame ed optai per una fetta di pane spalmata con la marmellata presente in frigo.
Aprii il mobiletto della cucina che emise il solito scricchiolio -avevo detto almeno cento volte a mio marito di ripararlo- e a cadermi in testa non fu la confezione del pane tostato ma un bigliettino:
“Amore, ho finito il pane appena tornato stanotte, avevo un gran fame. Ci pensi tu a ricomprarlo?”
La fame mi era passata. Uscii in giardino per prendermi cura di quei fiori gialli che aveva deciso di piantare.
Un’altra delle sue idee geniali che aveva dimenticato ed abbandonato col tempo.
Rendevano il nostro giardino più vivace e curato, lui pensava che così i nostri vicini potessero credere che fossimo una coppia sposata e senza figli, ma felice.
In verità, tutti sapevano delle sue scappatelle quotidiane con la cassiera.
Un tempo era solito portarmi dei girasoli per ogni occasione: compleanni, anniversari, onomastici o anche quando litigavamo per farsi perdonare.
Lo perdonavo sempre, mi annoiava dover litigare.
Pensandoci bene, forse decise di piantarli per risparmiare soldi dal fioraio e fare dei regali alla ragazza che davvero credeva lo amasse.
Povero vecchio.
Mi inginocchiai strappando le foglie secche ed innaffiando i pochi fiori che rimanevano.
“Ehilà, sono a casa, vado a riposare che il capo mi ha fatto una bella lavata di testa!”
Sentii delle gocce fra le dita e -guardando meglio- notai che avevano un colorito rosso.
Sbuffai alzando gli occhi al cielo e
“Da quando i girasoli hanno le spine?”
di Iolanda Caggiano