L'economia del paese di Scano è stata fortemente ridimensionata dalla fine della seconda metà del Novecento in poi, che ha portato alla scomparsa di numerose attività tradizionali, un tempo fiorenti, come quelle delle conce e dell'artigianato. Ai giorni nostri, l'economia scanese permane prettamente legata al settore agropastorale, con alcuni spunti sul settore dei servizi.
La lavorazione al telaio era un lavoro cui la donna veniva avviata sin da piccola, ed era una delle principali mansioni femminili.
Il tessuto poteva essere di lana, di lino e di cotone. La lana utilizzata era quella della pecora, che prima veniva lavata con l'acqua tiepida, per poi essere lasciata ad asciugare bene. Successivamente la si districava con le mani (laminada), raccolta in ''pinnizzos" (ovvero, dei filamenti) e cardata ("pettenada") con "sos pettenes de ferru" tenuti fra le mani: così il cascame ("sa trama") veniva separato da "s'istamene", facendo passare la lana dall'uno all'altro pettine. La lana veniva poi raccolta in "pinnizzos", che venivano sistemati nella canocchia (crannuga) al momento della filatura. "S'istamene", lana pregiata, veniva utilizzata per l'ordito assieme a "sa trama po 'ettare" nella lavorazione dell'orbace (fresi) da cui si confezionavano "sos cobbanos de fresi" (cappotti d'orbace) e "sos lentolos de fresi" (lenzuola d'orbace) che venivano utilizzati come coperte. La lana non ancora cardata veniva filata dopo esser stata "laminada" e veniva successivamente utilizzata per fare le bisacce da lavoro. La lana filata veniva avvolta in gomitoli e, per poterla tingere, si suddivideva in matasse con un attrezzo di legno, chiamato "naspa".
Dopo la tintura le matasse venivano sistemate in "'su ghindalu" (arcolaio), un arnese in legno, che ruota attorno ad un asse centrale, per ottenere di nuovo dei gomitoli. Un'altra operazione da compiere prima della tessitura era l'ordito, che si eseguiva fissando per terra quattro pioli di ferro ("sos littos"), sistemati due da una parte ed altri due ad una certa distanza dai primi. La distanza era calcolata in base alla quantità di tessuto che si voleva ottenere. Fissati i pioli, ciascuna donna prendeva un gomitolo e faceva il giro attorno ad essi, formando con il filo una croce tra i due cavicchi. Dopo ciò, l'ordito veniva avvolto in un asse di legno (detto "insulu") che in "sos littos" si trovava nella parte posteriore del telaio. I singoli fili venivano inseriti, ricavati da fili di lino (vedi "La coltivazione e la lavorazione del lino" qui sotto) della stessa lunghezza, annodati ad una certa distanza in modo da ottenere tre spazi: negli spazi laterali si inserivano due canne, mentre in quello centrale il filo dell'ordito. I fili venivano poi inseriti in "su pettene" e fissati ad un'asse anteriore, "s'insulu". L'ordito veniva quindi tenuto teso tra i due assi di legno ("sos insulos"). "Sas peiganzolas" erano legate a "sos littos" mediante cordicelle che permettevano di abbassarli e sollevarli tramite il movimento dei piedi della tessitrice. A seconda del movimento delle canne e di come venivano inseriti i fili in "sos littos", si ottenevano diversi tipi di tessuto: tappeti e copriletti "a littos", nei quali il disegno non richiedeva particolare cura durante la tessitura vera e propria, perché era già predisposto dalla disposizione precedente dei fili in essi. I tappeti e copriletti "a tenidura" venivano eseguiti con diversi disegni, servendosi di un ago in legno in cui era inserito un filo di lana. Un altro tipo di tessuto era quello "a ranu", che si otteneva per mezzo di un filo di ferro, al quale si avvolgeva il cotone o la lana man mano che si lavorava: si formava così un tessuto a granelli. Lavori di questo genere, con telai più grandi, venivano eseguiti, in scala commerciale, nella cooperativa che dipende dall'I.S.O.L.A.
La conceria a Scano è stata aperta grazie al contributo del signor Antonio Vassallu. Questa, che un tempo era sita vicino all'attuale campo sportivo, dava impiego a più di 10 persone. In una parte del locale vi erano delle vasche enormi dove si mettevano a bagno le pelli per alcuni giorni. Dalla parte opposta dell'edificio c'era una mola grandissima che per tutto il giorno veniva fatta girare da un asinello oppure da un cavallo. Qui si macinava la corteccia del leccio che, tenuta a bagno per tanti mesi, serviva per preparare l'acido per lavorare la pelle. Nel 1925, il proprietario della conceria ha cercato di migliorare il sistema di lavorazione introducendo nuovi macchinari. In quel periodo si lavorava moltissimo dato l'elevato tasso di richiesta, tanto che si importavano pelli anche dall'Australia. La conceria è stata attiva fino al 1960, ma successivamente, a causa dell'avvento di nuovi macchinari e nuovi acidi, non è stato più possibile portare avanti una lavorazione di tipo artigianale. Gli strumenti che al tempo si usavano nella conceria erano: su gallittu, sos ferros de ilmasciare, su cilindru, s'ammorbidente, sas folchiddas, sa pettiniera, su trinchittu, s'acciaritu, su compassu e sa sula. "Su gallittu" era un pezzo di legno semitondo lungo un metro con un supporto a forcella per reggerlo. Veniva usato per spellare il cuoio con dei ferri a mezza luna, chiamati "ferros de ilmasciare". Per pressare la pelle usavano un cannello di ferro pesante con un manico di legno lungo circa due metri, che veniva passato parecchie volte sulla pelle. Questo strumento era chiamato "cilindru". Per ammorbidire la pelle usavano un pezzo di legno a forma di barca, foderato in sughero con un manico di pelle e di sughero, chiamato "s'ammorbidente". Per appendere le pelli ad asciugare si usava una specie di forcella chiamata "forchidda". Alla fine del processo, per lisciare i peli veniva usata "sa pettiniera", detta così perché lo strumento era a forma di pettine. Un altro arnese era "su trinchittu", che serviva per tagliare la pelle. Per affilare questo attrezzo usavano "s'acciarinu" ed era a forma di lesina. Per misurare la pelle usavano "su cumpassu". Per cucirla usavano una sorta di ago con il manico in legno chiamato "sa sula". Per colare la pelle e conciarla si utilizzava la corteccia della quercia da sughero e del leccio. Le pelli all'interno della conceria venivano trasportate con una barella formata da due pezzi di legno, ricordante la forma di una scala. Per ingrassare la pelle e ammorbidirla veniva usato l'olio di pesce, comprato in fusti di legno da Genova e da Rivarolo, poiché inesistente in Sardegna. Per pesare le pelli venivano usati "su cantare", "s'istadea" e "sa ballansa." Per vendere le pelli ai calzolai, si usavano pesi a seconda che si vendessero all'ingrosso o al minuto.
Il mulino ad acqua
A Scano esiste ancora un mulino ad acqua in fase di restauro, forse l'unico in zona conservatosi in uno stato così buono. Si trova in località Luzzanas, a circa 3 chilometri dal centro abitato, ed è facilmente raggiungibile dalla strada provinciale Scano-Sagama, se si percorre per 100 metri la stradina a sinistra subito dopo il ponte sul Rio Mannu, che è appunto il corso d'acqua che alimenta il mulino. A 50 metri dal mulino, a monte, si trova l'invaso da cui si preleva l'acqua ("sa leada") che attraverso un canale ("sa cora") raggiunge il mulino. La costruzione, realizzata in muratura, comprende due ambienti: uno contenente la grande ruota ("su volante") che aziona le macine, che si trovano invece nella seconda stanza (attigua alla prima). Il primo ambiente ha l'aspetto di uno stretto corridoio, largo 1,5 m, lungo 5 m e alto 6 m, praticamente occupato nella totalità dalla grande ruota motrice, che ha una circonferenza di 12 m e un diametro di 4 m. Essa è stata costruita sul posto, interamente in rovere. La ruota viene azionata dall'acqua che, riempendo i cassettoni, imprime movimento all'ingranaggio. Per permettere all'acqua di entrare nel mulino è necessario azionare una leva aprente un bocchettone in legno. Il secondo ambiente è più spazioso: è qui che si macina il grano. La zona è divisa orizzontalmente in due piani: al piano inferiore si trovano gli ingranaggi, collegati alla grande ruota mediante un asse e costituiti da ruote di forma conica con dentatura in legno (sostituibile quando consumata). Un altro asse verticale collega gli ingranaggi alle macine, che si trovano al piano superiore e sono ricoperte da una cassa ottagonale in legno, sormontata da un sostegno in legno ("sa cadrea") dove si inserisce la tramoggia ("su moggiolu"), il luogo in cui si versa il grano. Un congegno costituito da un contrappeso (che va dentro la tramoggia) e da un campanello è in grado di avvertire quando il grano è finito. Dalla tramoggia il grano passa nelle macine ("sas molas"), fatte di pietra focaia e di forma rotonda: una ("sa sottana") resta fissa, mentre l'altra si inserisce nella prima mediante una crociera in ferro. Nelle macine sono scavati dei canali ("sas corettas") da cui fuoriesce la farina, che poi va a finire nei sacchi di lino ("sas cuneddas").
Il frantoio moderno
Il moderno frantoio (non più attivo) della cooperativa scanese è costituito da una serie di macchinari che possono lavorare continuamente e a ciclo continuo. Il ciclo di lavorazione ha inizio con la pesatura delle olive, che verranno poi immesse nella prima tramoggia di raccolta da cui, mediante un nastro elevatore, passano al defogliatore, azionato da un motore che aspira le foglie, separandole dal frutto. Dopo la separazione delle foglie (la cernita), le olive passano alla vasca per il primo lavaggio e successivamente alla seconda vasca a setaccio per il secondo lavaggio; le olive così pulite vengono depositate in una seconda tramoggia tronco piramidale, dove un nastro trasportatore le eleva al frantoio. Lì avviene la frantumazione mediante i martelli del frantumatore, che le riduce in pasta, la quale viene immessa nell'impastatrice, dotata di una vite senza tine che, girando su se stessa, impasta con l'acqua calda versata dal frantoiano. La pasta così lavorata passa poi in una centrifuga orizzontale (decanter) che gira alla velocità di 3600 giri al minuto. Così si ottiene una prima separazione dell'olio mosto dalle sanse. L'olio mosto passa in seguito ad una seconda centrifuga verticale (o separatore), dove viene separato definitivamente dalle morchie. Le sanse separate dal decanter vengono avviate alla vendita. Il frantoio può lavorare quattro quintali di olive in 35/45 minuti. Da 100 kg di olive, in media, si possono ottenere 18/22 kg di olio. La resa può variare dalla qualità delle olive, dalla maturazione raggiunta, dalla qualità del terreno coltivato a oliveto, dall'esposizione, dal periodo di raccolta e dai trattamenti antiparassitari fatti alle piante.
A sud-ovest del centro abitato si estende una vasta zona chiamata "S'Adde", che in passato veniva coltivata prevalentemente a oliveti. Si dice che la coltivazione dell'ulivo sia stata importata dagli spagnoli, i quali la sostituirono a quella della vite. Di questa precedente coltivazione, restano in S'Adde diverse vasche di pietra, dove veniva messa a fermentare l'uva, in modo da semplificarne il trasporto. Infatti, questa zona era collegata al centro abitato solo da scomode mulattiere che non permettevano il transito di autoveicoli o di macchine agricole, mentre ai nostri giorni è da segnalare la presenza di una strada quasi interamente asfaltata e semplice da percorrere. Le zone adibite alla coltivazione dell'ulivo erano: Abbadigu, Cambone, Tuvu 'e multas, Su Tonodiu, oltre a S'Adde de Trimpanos (vedi "Leggende legate ai luoghi" in "Storie e leggende", per scoprire l'origine del nome) e Ispinioro. Come risaputo, l'ulivo riesce a resistere alla siccità in quanto le sue foglie, essendo piccole e spesse, evitano una forte traspirazione. Nella nostra zona le piante non vengono potate regolarmente e assumono notevoli dimensioni, e ciò rende difficile anche la raccolta delle olive. Le attività di cura degli uliveti e della raccolta delle olive venivano svolte prevalentemente svolte dagli uomini, mentre altre erano affidate alle donne. Quando le olive iniziavano a maturare, gli uomini pulivano il terreno, lo aravano, tagliavano rovi e le erbacce, spostavano i sassi e lo preparavano alla raccolta delle olive che cadevano spontaneamente. La raccolta era un'attività svolta dalle donne, mentre gli uomini trasportavano i sacchi con le olive a casa, dove esse venivano pesate utilizzando uno strumento avente come unità di misura 5 litri. Le olive venivano poi portate al mulino per essere macinate. Il meccanismo col quale le olive erano sottoposte a compressione (schiacciamento) per estrarre l'olio era molto semplice: veniva sfruttata un'energia animale. La macina era composta da una vasca troncoconica ad orlo rialzato con un'altezza di 60/80 centimetri circa, che aveva come base una pietra (generalmente in trachite o in granito) a pezzo unico chiamata "sotana", al centro della quale era collocato un albero verticale che a sua volta collegava la macina con un asse orizzontale, e questa direttamente alle briglie dell'animale, che generalmente era un cavallo. Le olive, versate a mano con continuità nella vasca, venivano triturate e impastate e, dopo un certo tempo, la pasta veniva tolta dalla vasca e sistemata dentro dei fiscoli. Dopo di che, i fiscoli con la pasta venivano sottoposti alla pressatura mediante il torchio a vite (la pressa), il quale era formato da tre colonne in ghisa (che fungevano da gabbia) avente alla base un piatto in ferro e al centro una vite. I fiscoli si infilavano nella vite l'uno sull'altro, sino a formare una pila o torre alta 1,5-1,7 metri circa. Formata la torre dei fiscoli, una certa quantità di olio scolava naturalmente, favorito anche dal gettito di acqua calda appositamente preparata, la quale aiutava la separazione dell'olio dalle sanse, ovvero dai prodotti di scarto. Iniziava poi la compressione vera e propria, che veniva eseguita con la forza della mano e che doveva essere molto lenta ed eseguita a più riprese, in modo da dar tempo all'olio di attraversare lentamente i fiscoli ed arrivare al piatto di raccolta del torchio. Terminata la pressatura, si disfaceva la torre che veniva svuotata dalle sanse; i fiscoli venivano subito dopo riempiti di pasta. Le sanse, a loro volta, potevano essere rimacinate a parte. In questo modo si poteva ottenere ancora altro olio che veniva conservato a parte in quanto era meno buono del primo, chiamato olio di sansa. La gabbia poteva contenere 150 kg di pasta di olive, chiamata "maghinadas". L'olio veniva raccolto in recipienti di legno, separato con l'utilizzo di "spumarole" e misurato.
Nei tempi passati, tutte le famiglie erano solite coltivare e lavorare il lino. La sua semina avveniva nel mese di ottobre e interessava solitamente campi vicino ai corsi d'acqua e terreni non aridi. Veniva compiuta in modo che il lino crescesse fitto fitto e per non permettere la crescita delle erbacce (le quali - in caso di crescita - venivano superate di gran lunga dal lino, che poteva raggiungere l'altezza di 70 centimetri circa). A maggio, quando lo stelo era ormai secco, veniva raccolto in fasci che, eliminati i semi, venivano messi a mollo in un torrente per un periodo di 10 o 12 giorni (la durata dipendeva dalla temperatura dell'acqua). Rimosso dall'acqua, il lino veniva sciacquato in acqua pulita, e messo ad asciugare al sole. Procede così la lavorazione: gli steli ben essiccati a piccoli mazzi venivano maciullati con un arnese di legno formato da due sostegni, sui quali poggiavano due aste di legno di un certo spessore, unite ad una estremità da un'assicella che serviva da perno. Queste aste venivano sollevate e abbassate con forza sui mazzi di lino che, dopo essere stato maciullato, veniva poi cardato con degli attrezzi muniti di punte metalliche. Il lino veniva quindi filato e utilizzato in base alla qualità del tessuto che se ne doveva ricavare: per gli indumenti delicati e personali, per le tovaglie, asciugamani e lenzuola di pregiata qualità si usava una fibra finissima. Invece, per i tessuti più grossolani (tovaglie giornaliere, lenzuola di qualità meno pregiata) si usava una fibra più grossa.
Nel passato si coltivava il grano molto più di oggi: lo coltivavano tutti, e chi non aveva il terreno, o lo prendeva in affitto, o lo coltivava a mezzadria. Chi lavorava il grano veniva chiamato "massaggiu". Ogni famiglia coltivava una certa estensione di terreno a grano, di modo da soddisfare il proprio fabbisogno. Il grano era coltivato in quasi tutte le zone di Scano, ma la coltivazione rendeva di più nelle zone di pianura, soprattutto nei terreni di "Padra", "Sentisi" e "Nueddas". Il grano era di varie qualità, e ciascuna si coltivava secondo le zone: in pianura si seminava il grano duro (detto "trigu capellu"); in montagna si coltivava il grano tenero (detto "trigu rugiu". Il terreno si arava due volte. La prima volta verso aprile e maggio (a "Beranile"); questi campi venivano poi seminati a fagioli o a patate. Verso settembre-ottobre (o "Albattu"), quando iniziava la stagione delle piogge (poiché se la terra era arida i buoi non aravano) questi campi, ormai privi di fagioli e da patate, venivano di nuovo arati con i buoi e l'aratro in legno (l'aratro di ferro venne introdotto verso il 1925); i buoi aravano e i contadini stavano dietro. Questi ultimi prendevano i semi dalla bisaccia appesa al collo, e con la mano li buttavano nel terreno. Il seme, prima di essere seminato, veniva setacciato nel cosiddetto "chiliru" (un setaccio), che lasciava passare altre erbacce e tratteneva il seme. Esso veniva poi bagnato nel solfato di rame, che gli conferiva un odore che faceva allontanare uccelli e insetti. All'arrivo della primavera, quando iniziava a spuntare la piantina, la terra veniva zappettata ("marischeddada"). La terra e le piantine erano sempre curate dal contadino con il diserbo a mano. In piena estate, quando la piantina era già matura, si mieteva con la falce dentata a mano ("messadura e messaresu"). Dopo la mietitura si preparava l'aia (dove sarebbe avvenuta la trebbiatura), si delimitava una superficie e si puliva bene con una ramazza di mirto. L'aia veniva preparata su un'altura, dove arrivasse il vento da ponente ("bentu 'e giosso") che permetteva di sventolare il grano. Quest'ultimo veniva raccolto in covoni, caricato sui carri e portato nell'aia. Il grano veniva ammucchiato, e il giorno della trebbiatura veniva disposto a forma di cerchio. Veniva quindi trebbiato con i gioghi di buoi: il numero dei gioghi veniva stabilito secondo la quantità di grano da trebbiare. Per tre carri di grano occorrevano due gioghi di buoi. Come consuetudine scanese, quando si arrivava a un certo numero di personale e di quantità del grano, si faceva un pane grande e tondo, detto "su tundu de s'arzola". Chi entrava con il primo giogo dentro l'aia diceva una preghiera, detta "s'obbrigassione", consistente in un'Ave Maria, un Gloria al Padre e un Padre Nostro. Si faceva poi il segno della Croce, una Croce sul fieno e si prendeva il pane dicendo: "Sia pro amore de Deus", augurando un buon lavoro sia agli uomini che agli animali. I buoi, mentre trebbiavano, non calpestavano il pane né con i piedi né con la pietra che avevano attaccata al giovale con una catena. Era una grossa pietra, che schiacciava il fieno con dentro il grano, separandolo dalla paglia. Per ogni giogo vi erano due uomini: uno che portava i buoi e uno con la forca di legno ("su triuttu") dietro rivoltava il fieno. Quando quello che portava i buoi era stanco, gli dava il cambio quello che girava il fieno. Si facevano così i turni. Quando il grano, la sera, era separato dalla paglia, si smetteva di trebbiare, e quello che aveva fatto l'orazione la rifaceva, ed era il primo ad uscire dall'aia. L'aia veniva pulita e il grano sistemato per l'indomani, quando sarebbe avvenuta la sventolatura. Il giorno successivo, tutti aspettavano il vento e, appena si levava, tutti alzavano in aria il grano con i badili e le forche di legno. Il vento portava via la paglia e il grano ricadeva. Si procedeva così fino a quando il grano non era ben pulito dalla paglia.
Foto di Piras S.
In ogni famiglia la preparazione del pane avveniva in media una volta la settimana, a seconda delle necessità, e così, anche la farina. Questo lavoro iniziava con la pulizia del grano. Stabilite le quantità del grano da macinare, questo veniva pulito mediante due operazioni: la prima serviva per togliere dal grano tutti i residui che questo ancora conteneva dopo la trebbiatura. In quest'operazione si usava un setaccio a maglie larghe nel quale si metteva un po' di grano per volta, e lo si girava tra le mani facendolo ruotare in modo da far convogliare al centro le scorze che venivano scartate. Intanto altri materiali di scarto passavano attraverso le maglie del setaccio e si depositavano a terra: si trattava di chicchi di grano maciullati e poco maturi, oltre che di altre erbe. Il residuo, chiamato "gianina", veniva dato alle galline. Si passava quindi all'altra fase del lavoro: il grano veniva messo a poco a poco in setacci a maglie strette e veniva pulito con le mani, in modo da depurarlo dai chicchi di orzo e di gramigna che poteva ancora contenere. Una volta pulito, il grano veniva lavato e messo in "canisteddas" e lo si girava di tanto in tanto fino a farlo asciugare. Dopo quest'operazione si versava in un sacco apposito ("sa molenda") e veniva trasportato al mulino. Dopo la molitura, la farina veniva messa nuovamente nel sacco che precedentemente conteneva il grano, e quindi veniva riportata a casa. Qui veniva separata, dal momento che si dovevano ottenere diversi tipi di farina. Quest'operazione comprendeva diverse fasi. Prima di tutto, si separava la crusca dal resto della farina mediante una prima setacciatura con un setaccio di crine o di rete metallica a maglie larghe. Il setaccio veniva collocato dentro un canestro abbastanza grande, e mediante un movimento semirotatorio datogli dalla massaia, la farina più sottile scendeva nel canestro, mentre sulla rete del setaccio restava quella grossa: la crusca. La farina caduta nel canestro si faceva filtrare con un setaccio di seta o rete metallica a maglie strette. Mediante lo stesso procedimento, quella più sottile scendeva nel canestro, mentre la semola e i tipi di farina più grossi restavano nel setaccio. Una volta separati la crusca e "su poddine", la prima, filtrata, veniva messa a poco a poco in un canestro di asfodelo. Questo, tenuto con entrambe le mani, veniva fatto girare in modo che al centro si raccogliesse il cruschetto, che veniva scartato e messo da parte per confezionare il pane nero. Dopo questa separazione si prendeva il setaccio di "tinnia", lo si sistemava dentro un canestro che a sua volta andava messo dentro un altro di maggiori dimensioni. La farina si metteva a poco a poco nel setaccio, che si agitava in senso rotatorio, battendolo sul canestro fino a che quella più grossa non si depositava al centro. La più sottile passava attraverso il setaccio e si raccoglieva nel canestro sottostante. Quest'ultima era la semola pura, mentre il residuo, che restava nel setaccio, era composto da cruschello e semola grossa, che potevano essere separati mediante un analogo procedimento. Quest'operazione era chiamata "cherrere". Questo lavoro si svolgeva anche di notte e di mattina presto, e spesso in compagnia per aiutarsi a vicenda. Se la quantità era poca si impiegavano due ore, viceversa, tre o quattro ore.
Foto di Piras S.
Come prima cosa, si metteva a riscaldare il latte di mucca sino a farlo diventare tiepido. Successivamente si aggiungeva ad esso il siero (un sottoprodotto della produzione di formaggi) e il caglio di capretto (la quarta parte dello stomaco per i ruminanti, chiamata "abomaso"). Esso veniva squagliato nell'acqua e posto in una tazzina, colato nel latte e mantecato assieme al siero. Il composto veniva poi lasciato a riposare per far "cagliare" il latte (25/30 minuti). Quando cagliato, si faceva girare un'altra volta e veniva riposto in "su coninzolu" (in un sacchetto) per essere separato dal siero (se di pecora, con il siero avanzato veniva fatta la ricotta). Il composto doveva essere riposto in "sa tianèdda" (una grande ciotola in terracotta), per poi venire coperto da un grande piatto e da una copertina, di modo che questo fermenti. Durante la fermentazione, il formaggio rilasciava altro siero, spesso conservato per nuove forme. Veniva svolta una prova per verificare se il formaggio fosse fermentato. Se ne prendeva un pezzo, che veniva calato nell'acqua calda con un cucchiaio. Veniva così testato, provando ad allungarlo: se la filatura del formaggio si spezzava, esso non aveva avuto una corretta fermentazione. Questa prova veniva chiamata "sa corrìa"; alla sua eventuale riuscita, l'ottenuto si immergeva nell'acqua calda, all'interno di una pentola in rame. Veniva poi lavorato e mescolato "cun sa terudda" e nuovamente riposto in "sa tianèdda" per essere lavorato con le mani. Datagli la forma e legatagli la rafia per essere successivamente appeso, su casizolu veniva messo nell'acqua per raffreddare. Una volta raffreddato, veniva per la durata di un giorno ("dalle 8:00 del mattino di un giorno fino alle 8:00 dell'altro") riposto in "sa mulza" (un composto di acqua e sale). La salatura di questa veniva testata con un uovo; quest'ultimo dovrebbe salire a galla con una corretta salatura. Questo si faceva per non far perdere al formaggio la tipica forma sferoidale con la testina. Rimosso dal composto di acqua e sale, su casizolu veniva sciacquato e appeso con sa rafia.
Fonti:
"Scano Montiferro - Ambiente - Storia - Tradizioni" a cura delle Scuole Medie di Scano Montiferro - Anno scolastico 1987-1988;
"Iscanu - Storia di una comunità sarda" di Giacomino Zirottu;
Fonti orali.