Letteratura e altro ancora

Trickster quando scrivo versi. Sciamano quando scrivo racconti. Me stesso quando rifletto. Insomma, una metamorfosi continua di uno stato... Seguo la sonorità del "significante" trascuro il senso del >significato<; distillo <parole> per <bevande spiritose>, poi però per l'opera scrittoria l'invecchiamento è d'uopo: per ottenere un'ottima qualità bisogna aspettare decenni. La scrittura, infatti, è come un buon whisky...

Ecco un modo nuovo di proporsi come autore: nessun editore, nessuna conventicola, nessun battage pubblicitario, niente marketing, insomma, niente di niente! Ma ora chiunque vuole può leggere e scaricare i miei libri: Gratuitamente. Una vera rivoluzione tecnologica!

Cosa chiede un autore a suoi lettori? Di solito domanda di comprare la sua opera. E decisamente non gli posso dare torto. Lui vive con i proventi della sua scrittura. Ma un autore che non vive di letteratura cosa chiede ai suoi lettori? Chiede soltanto di esser letto, perché se scrive qualcosa è perché vuole che ci sia qualcuno o più di uno che lo legga. Poi però a questo lettore l'autore domanda di divulgare la sua opera, di farla conoscere ad altri lettori. Non è meraviglioso tutto questo? Non è meraviglioso sapere che il rapporto tra autore e lettore è un rapporto puramente "ideale"? che non è affatto inficiato da una ragione di tipo commerciale?


La saga degli scrittori perfetti

Ascolta, se io ti faccio la cortesia di pigliarti in considerazione non è per ciò che tu scrivi o per come scrivi, ma per ciò che tu rappresenti. È vero, ciò che tu rappresenti rimanda al ciò e al come tu scrivi, ma il ciò e il come tu scrivi rimanda al ciò che tu rappresenti. Insomma, potrei scrivere che il tipo fa lo stile, ma lo stile fa il tipo. Allora, ti starai domandando: ma che cosa io rappresento? L’Italiota medio. Rispondo.

Vedi, l’Italiota medio non è formula contratta per dire “l’italiano idiota”. Tu idiota non sei affatto. Anzi, tu sei un dritto. Un dritto con la penna in mano, come si diceva un tempo. Come Italiota medio sei un tipo che quando prendi in mano la penna scrivi sempre e comunque in uno stile “medio”, potrei anche dire: scrivi in uno stile “piatto”, “convenzionale”, uno stile (per dare un’idea) come quello usato dagli speakers dei telegiornali italiani che tanto erano in voga negli anni Sessanta.

È uno stile che quando uno è a cena, riunito con la sua famigliola, non lo fa mai sobbalzare. Uno stile dimesso, grigio, senza né alti e né bassi. Uno stile che ti tranquillizza, che ti rassicura. Credo che per questa ragione piace tanto alle signore. È uno stile educato, gentile, sobrio. È dunque uno stile consono all’Italiota medio, perché è uno stile che non disturba mai. È uno stile assimilato leggendo la Tamaro o il Moccia. Uno stile che concilia bene il sonno, che alcuni usano al posto del sonnifero.

Perché vedi, l’Italiota medio non è abituato a vivere la scrittura come una lacerazione, uno strappo fatto nella tela, un campo di battaglia, dove si dispiegano forze ed energie, lotte, contrasti, scomposizioni, disordine e caos, ma è abituato a viverla come se si prendesse il tè con i pasticcini insieme alle quattro solite signore: si dialoga, si discute, si raccontano aneddoti, episodi della vita, ricordi, si commenta, usando sempre un tono pacato, cortese, chiedendo persino scusa quando si vede “costretto” ad usare una parolina più “osé”, o, se, mi permetti, “più spintarella”. L’Italiota medio conosce il gioco, e sa che il termine “guêpière” fatto cadere lì in quella circostanza strappa un sorrisino alle signore, e sa che è l’unico “strappino” alla regola, il solo che si concede.

Perché vedi, l’Italiota medio vive la scrittura come un passatempo, un hobby, un modo per rilassarsi e divertirsi in compagnia delle amiche ed amichette. L’Italiota medio è un tipo anonimo, grigio, infarcito di luoghi comuni, ligio al dovere, sempre pronto a scattare in piedi quando l’Autorità lo chiama, è quello che, in altri tempi, correva alle adunate, partiva volontario per la guerra, che sputava in faccia all’operaio quando osava scioperare, che si scaldava quando in televisione vedeva comparire quel bel faccione, è quello che odia chi non si conforma, che ha in antipatia tutto ciò che è sopra o sotto le righe.

Sì, perché l’Italiota medio ama soltanto le linee dritte, il rigar dritto, i dritti, le dritte…

Accanto o a fianco dell’Italiota medio abbiamo l’Italiota liricata. Quando Eugenio Montale, in Ossi di seppia, dichiarava la sua poetica, con questi versi:

Ascoltami, poeti laureati / si muovono soltanto fra le piante / dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.

voleva esprimere una presa di posizione forte contro i poeti aulici, vuoti e ampollosi, avvezzi a usare soltanto termini ricercati. Si parla di “poeti laureati”, cinti di una corona di alloro, ossia di poeti dannunziani. Oh, sì! D’Annunzio, quello delle “coccole aulenti”, quello delle chiome che auliscono, che ha “quattro ali d’alcédine”, che vede “figure di nèumi”, il poeta scerno, dall’albèdine immota, che sparge fiori d’acònito, insomma il poeta ideale della Italiota liricata.

Ora vi starete domandando, dopo l’italiota medio chi è questa italiota liricata? È l’italiota ammalata di versi, che invade i siti con le sue liriche. L’italiota liricata è una donna che si nutre del solo cibo che ha gustato in passato. Come direbbe il dottor Freud, l’italiota liricata ha un udito regredito che può captare soltanto suoni uditi in precedenza. Come una bambina, rimane affascinata dai suoni vivaci, dai timbri coloristici, dalle parole sconosciute, o, come diceva Montale, “dai nomi poco usati”. Ecco perché scrivere liriche per lei vuol dire tornare bambina, regredire cioè ad uno stadio infantile. Che non si confonda lo scaltro poeta del fanciullino con l’italiota liricata. Per Pascoli, il poeta è colui che conserva intatta la sua anima di fanciullo, che vive con stupore il mistero del mondo che palpita in ogni aspetto della vita.

La regressione infantile dell’italiota liricata assume tutt’altro significato. Denota soprattutto una sua incapacità a saper leggere e interpretare il mondo. La liricata crede che la poesia sia ferma a un certo stadio, e che scrivere versi vuol dire appunto ripetere formule del passato, quelle studiate a scuola, vuol dire usare termini difficili, vuol dire esprimere sensi ineffabili. Il linguaggio per la liricata resta un mezzo di comunicazione atto a veicolare emozioni con termini connotati di poeticità.

La liricata non agisce sul linguaggio, perché, come una bimba, n’è intimorita. Ella subisce il linguaggio. Il linguaggio incarna l’Autorità introiettata, e davanti alla sua possanza, lei si sente piccina, devota, smarrita. Perciò per la liricata il linguaggio è sacro, ed è blasfemo chiunque lo dissacri, se ne vuole prendere gioco. Quindi, il linguaggio della liricata è un sintomo regressivo nei confronti del’autorità irrazionale, e manifesta la passiva accettazione della “forza dei fatti”, del “dovere”, della “volontà di Dio”, e così via.

Questo timore infantile nei confronti dell’Autorità, le italiote liricate lo manifestano soprattutto quando giunge loro notizia della morte di un poeta o scrittore di riconosciuta fama. Sono sempre le prime a precipitarsi a incollare e postare un “necrologio” (copiandolo, magari, da Wikipidea). Ecco allora che alla notizia della morte di uno Zanzotto o di un Pagliarani (poeti che hanno dissacrato il linguaggio poetico) sono sempre in prima fila a piangerne la Grandezza. Perché per loro la Grandezza è tale quando la vedono stampata sui libri di scuola, altrimenti sono soltanto “palloni gonfiati”.

Mi sorprenderebbe sapere che l’italiota medio o liricata ha letto e apprezzato i miei testi. Se così fosse, vorrebbe dire che ho fallito il mio scopo. Il mio scopo, infatti, era proprio quello di essere disprezzato da loro. La mia ricompensa maggiore consisteva proprio nell’ottenere il loro disprezzo inappellabile. Quando la mediocrità comincia ad apprezzare ciò che scrivi, vuol dire che sei finito come scrittore, che non hai più niente da dire o da aggiungere al ciò che hai già detto o scritto.

La loro reazione è indice del fatto che ho colpito così bene il bersaglio, che mi sono spinto a tal punto nel cogliere le loro debolezze da meritarmi il disprezzo. L’italiota medio e la liricata non hanno altra arma di difesa, se non questa. Non possono reggere il confronto, non hanno la capacità di innescare una diatriba dialettica. Hanno solo il disprezzo per poter difendere il loro essere mediocre. Quel disprezzo che si racchiude nell’indifferenza, nel fingere che tu non esisti, che tu per me non conti nulla.

Eppure, io posso ben dire di non ricambiare il loro sentimento. Per me loro esistono, ci sono, li leggo, ma non li disprezzo. Anzi. Li ritengo così interessanti come casi umani da prenderli in considerazione, da esaminarli con estrema attenzione. Non disprezzo affatto l’italiota medio o la liricata. Non disprezzo affatto neanche ciò che scrivono. Neanche lo apprezzo, è vero, ma non perciò lo disprezzo. Non li disprezzo perché ciò che scrivono non mi coinvolge, non mi riguarda affatto, né come uomo né come lettore. Perché appartiene a un’altra epoca, a un’altra era.

Loro, invece, non possono fare a meno di disprezzarmi, perché ciò che scrivo li riguarda come autori e come tipi umani. Perché, quando si guardano allo specchio mentre scrivono, non possono fare a meno di vergognarsi per ciò che scrivono. Da un lato, è vero, vorrebbero scrivere altro, ma poi, non essendone capaci, si vedono costretti a scrivere nell’identico modo in cui li derido. E questo provoca la loro rabbia.

Ma noi scriviamo solo per diletto. Dicono in tanti. Anche a me piace cucinare qualcosa ogni tanto per diletto, ma non vado poi in un ristorante a proporre i miei piatti. È buon senso, che, invece, quando entra in gioco la scrittura, non vale più. Perché mai mi dovrei arrabbiare se da cuoco per diletto vado in un ristorante a cucinare e trovo dei commensali che prendono in giro il mio modo di preparare i piatti?

Ma tu non sei un esperto per poter giudicare la qualità delle cose che scrivo! Mi si obietta. Esperto? Chi rilascia questa qualifica? Confrontati, se sei capace, con ciò che scrivo, e lasciare perdere tutto il resto.


Nel Marzo 2013 scrissi questo post: Sfiorirà l’aspirapolvere? Sulla narrativa addomesticata dei nostri tempi: Castaldi, Di Grado, Veladiano, che adesso è possibile leggere in Per un'idea letteraria. Io penso che nonostante siano trascorsi diversi anni, le cose che sostenevo allora in quel post siano tuttora di una attualità lampante (o allarmante):

Che l’aspirapolvere, semplice oggetto d’uso domestico, potesse un giorno aspirare a divenire espressione di tutta una tendenza narrativa ha davvero del miracoloso. Eppure, contro ogni aspettativa, è accaduto proprio ciò. Per verificare la veridicità è sufficiente sfogliare in libreria qualche romanzo e leggere quanto c’è scritto in seconda copertina.

Leggo l’incipit di La fame delle donne di Marosia Castaldi: «Una donna in una casa appartata passava l’aspirapolvere ogni mattina Vedevo nella sua sorte riflessa la mia via Passavo il tempo come lei a pulire e cucinare per la famiglia Avevo una figlia grande che viveva ancora in casa». Come si può notare, andando avanti nella lettura, l’aspirapolvere, passando e ripassando, ha aspirato tutta la punteggiatura! Così il lavoro risulta più pulito e ordinato.

Probabilmente, la figlia grande che viveva ancora in casa si chiama Camelia, la protagonista di Settanta acrilico trenta lana di Viola Di Grado, che anziché tradurre manuali di istruzioni per aspirapolveri, traduce quelli per lavatrici. Comunque si tratta sempre di elettrodomestici. In questo romanzo conosceremo il punto di vista di una figlia, nell’altro, invece, quello di una madre. Se vogliamo avere una descrizione più dettagliata di questa figliola, dobbiamo aprire un terzo romanzo, La vita accanto di Mariapia Veladiano. In realtà, la protagonista di questo romanzo potrebbe essere sia la donna della porta accanto del romanzo della Marosia, quella che passa tutte le mattine l’aspirapolvere in casa, che la figlia della donna che passa il tempo a fotografare i buchi (una donna addomesticata non è tale se non coltiva nella vita almeno un’ossessione). Fatto è che questa figliola è “brutta, è proprio brutta”.

«Rosa è una donna tormentata alla ricerca di sé»: chi mai sarà questa donna tormentata? La ragazza brutta, quella abituata a vivere sempre in punta di piedi, «sul ciglio estremo del mondo»? oppure è la donna raccontata dalla Di Grado, quella che vive con la madre traducendo manuali di istruzioni? Ma potrebbe essere la madre della Castaldi, quella che si tiene la figlia dentro le pareti domestiche.

In fondo, questi diari si somigliano un po’ tutti: quantunque le autrici appartengano ad ambiti regionali distanti, usano più o meno lo stesso linguaggio, gli stessi ritmi narrativi, le stesse ambientazioni domestiche, fanno lo stesso uso addomesticato della scrittura, la usano appunto come un’aspirapolvere, per creare un ambiente domestico pulito e ordinato. Mi chiedo, allora, è possibile fare a meno dell’aspirapolvere? È possibile uscire dalle pareti domestiche e osservare cosa c’è al di là? Oppure non ci resta che rimanere chiusi in queste strutture addomesticate e asfittiche?