Scienza di stagione
Temi di attualità
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Credits: Gemini AI
Nel silenzio della verifica nasce la scienza
21 novembre 2025
A volte, di fronte all’incertezza, vorremmo risposte chiare anche quando ancora non esistono. Ma la scienza procede diversamente: non grida, osserva. L’ultima review pubblicata su The BMJ sul rapporto tra paracetamolo in gravidanza e disturbi del neurosviluppo ci ricorda quanto sia pericoloso confondere un’ipotesi con un fatto, e quanto sia preziosa — quasi rivoluzionaria — la capacità di sospendere il giudizio.
Credits: Eric BARBEAU
Forse abbiamo paura dell’ignoto. Forse ciò che ci inquieta davvero non è ciò che sappiamo, ma ciò che ancora non comprendiamo. Davanti all’incertezza cerchiamo appigli, scorciatoie, qualche sicurezza da stringere anche quando è improvvisata. È umano: ci rassicura. Eppure, allo stesso tempo, l’essere umano è spinto a cercare la verità, anche quando è scomoda, lenta, complessa.
Forse è per questo che, a poche settimane dalla dichiarazione del presidente degli Stati Uniti che metteva in relazione l’uso del paracetamolo in gravidanza con l’autismo nei bambini, la comunità scientifica ha reagito come sa fare: non con slogan, ma con dati. È stata pubblicata su The BMJ una review che rianalizza criticamente dieci anni di letteratura. Questo lavoro ci ricorda che la scienza non nasce da certezze improvvise: nasce dalla pazienza del dubbio.
Gli autori hanno raccolto e valutato 9 review sistematiche pubblicate negli ultimi dieci anni, basate su 40 studi osservazionali che analizzavano l’associazione tra assunzione di paracetamolo in gravidanza e rischio di autismo o ADHD nei figli. Molte di queste review avevano riportato una possibile associazione tra paracetamolo e disturbi del neurosviluppo. Tuttavia, il nuovo lavoro mette il luce la loro scarsa qualità metodologica. In diversi casi, le review analizzate non avevano registrato un protocollo a priori, una mancanza che può portare — anche involontariamente — a scegliere gli studi in modo non del tutto imparziale. Spesso non veniva nemmeno fornita la lista degli studi esclusi, rendendo poco chiaro su quali criteri fosse stata costruita la selezione della letteratura. Inoltre, la qualità degli studi originali veniva valutata con strumenti poco adatti, finendo per mettere sullo stesso piano ricerche molto solide e ricerche più fragili. Alcune metanalisi, infine, utilizzavano modelli statistici non adeguati ai dati disponibili e non tenevano conto in modo corretto delle variabili che potevano influire sia sull’uso del farmaco sia sugli esiti nei bambini. Nel complesso, queste carenze facevano apparire più robusta di quanto fosse realmente l’evidenza a favore di una relazione tra paracetamolo e disturbi del neurosviluppo.
A rendere il quadro ancora più complesso c’è poi un aspetto raramente affrontato con la dovuta attenzione: il motivo per cui le madri assumono paracetamolo. Nella maggior parte dei casi, il farmaco viene preso per gestire febbre o dolore legati a un’infezione virale. Ma proprio le infezioni in gravidanza sono da tempo associate, nella letteratura scientifica, a un aumento del rischio di disturbi del neurosviluppo nei figli (PMID: 37123361). Se dunque una madre si ammala, sviluppa febbre, prende paracetamolo e anni dopo il bambino riceve una diagnosi di autismo, la sequenza degli eventi non implica automaticamente che il farmaco sia la causa. Inoltre, il paracetamolo è uno dei farmaci più comunemente assunti in gravidanza (PMID: 38128861). Quando un’esposizione è così diffusa, diventa statisticamente molto facile trovare correlazioni con quasi qualsiasi esito, anche in assenza di un vero rapporto causa–effetto. È il classico scenario in cui la frequenza d’uso amplifica l’illusione di un legame, pur non essendoci necessariamente alcun nesso biologico.
Un elemento decisivo emerso dalla nuova review riguarda invece gli studi più solidi, in particolare quelli con disegno “sibling controlled”, nei quali si confrontano fratelli esposti e non esposti al paracetamolo all’interno della stessa famiglia. Questo approccio permette di tenere sotto controllo in modo naturale i fattori più difficili da misurare — genetica condivisa, ambiente familiare, condizioni socioeconomiche — che possono influenzare sia l’assunzione del farmaco sia il rischio di sviluppare disturbi del neurosviluppo. E proprio quando questi fattori vengono adeguatamente considerati, l’associazione osservata nelle grandi coorti tende a scomparire o a ridursi fino a diventare nulla. Ciò suggerisce che quello che sembrava un effetto del farmaco era in realtà spiegabile da caratteristiche familiari preesistenti, non dall’esposizione al paracetamolo in sé.
Infine, un aspetto notevole della review è la trasparenza degli autori. Nella discussione ammettono esplicitamente che, per l’urgenza di pubblicare un’analisi utile al dibattito, non hanno ancora potuto contattare gli autori dei singoli studi commentati: un passaggio fondamentale per chiarire eventuali dettagli metodologici. Questa “ammissione” non è una debolezza, ma una forma di onestà intellettuale. Significa riconoscere i limiti del proprio lavoro, aprire il confronto, invitare la comunità scientifica a collaborare. Questo vuol dire fare scienza.
In conclusione, tutto questo non vuol dire che il paracetamolo abbia “effetti benefici”: significa che non esistono prove solide che ne facciano una causa di autismo o ADHD. Dire “non lo sappiamo” è diverso dal dire “sì, causa un danno”. Ed è proprio questo il punto: la scienza distingue tra ipotesi e fatti.
Quando la paura dell’incertezza cresce, cresce anche la tentazione di parlare troppo, e troppo presto. Ma la scienza vive proprio nello spazio sospeso del “non ancora”: lì dove si raccolgono dati, si correggono errori, si ammettono limiti e si aspetta che le prove siano abbastanza solide da sostenere un’affermazione. Non è una questione di politica (ma cos’è la destra? cos’è la sinistra?) . È una questione di verità: una verità che non si impone con una frase ad effetto, ma si costruisce lentamente, attraverso il dubbio, la cautela e il confronto. A volte, la forma più alta di responsabilità è sapere aspettare, finché i dati non parlano da soli.
27 ottobre 2025
Questo articolo pubblicato anche sul sito di Euresis, riporta la sensazionale scoperta della tolleranza periferica, un meccanismo che permette al sistema immunitario di distinguere tra amici e nemici. Questa scoperta è valsa il premio Nobel ai suoi protagonisti e racconta una storia di collaborazione scientifica dimostrando come il progresso nasca dall'unione di persone e menti.
Credits:: Nobel Prize
È sempre un tema di collaborazione! È ormai da anni che molti premi Nobel non vengono più assegnati a una singola persona. Quest'anno il premio Nobel per la Fisiologia e la Medicina è stato infatti assegnato a Mary E. Brunkow, Fred Ramsdell e Shimon Sakaguchi per la scoperta della tolleranza periferica del sistema immunitario.
Ma che cos'è questa tolleranza periferica? Vediamo di fare un po' di chiarezza.
Dobbiamo immaginarci il corpo umano (o, più in generale, un organismo animale) come una cittadina fortificata nella quale la vita è molto intensa: centrali energetiche, aziende di trasporti, fabbriche di vario genere e anche organi decisionali e organizzativi perché tutto funzioni al meglio. Ma tutto questo deve essere mantenuto in sicurezza, e l'ingresso alla città deve essere regolato con attenzione. Per questo esiste un gruppo di agenti di controllo: il sistema immunitario. Le cellule che ne fanno parte sono addestrate continuamente, perché è fondamentale che riconoscano con estrema precisione i nemici, che devono essere eliminati, mentre gli “onesti cittadini” devono poter circolare liberamente per compiere i propri compiti.
A volte capita che una guardia non sia in grado di distinguere i cattivi dai buoni, lasciando entrare i primi e attaccando invece i secondi. Questo è ciò che accade nelle patologie autoimmuni: il sistema immunitario attacca componenti del proprio corpo, scatenando disordini localizzati o generali. Da anni si conosceva il meccanismo di tolleranza centrale nel timo, meccanismo che elimina le cellule del sistema immunitario che attaccano proteine autologhe, cioè prodotte dal corpo stesso, salvaguardando così l’organismo dai suoi stessi errori. Si ipotizzava che questo controllo non fosse sotto l'unica responsabilità di un organo centrale, ma che anche la periferia del corpo fosse regolata da un meccanismo analogo: la tolleranza periferica. E così è stato scoperto. Infatti, esistono cellule chiamate cellule T regolatorie che, come suggerisce il nome, regolano in periferia l'attività del sistema immunitario, ricordandogli quali proteine sono amiche e quali no.
Facciamo ora un passo indietro e cerchiamo di capire l'affascinante storia che ha portato alla scoperta di queste cellule. Tutto ebbe inizio 30 anni fa in un laboratorio giapponese, dove Sakaguchi identificò per la prima volta le cellule T regolatorie. La seconda parte della storia è legata allo studio dei topi scurfy, topi sottoposti a radiazioni che, in modo inaspettato, diedero vita a una mutazione che causava un’aggressione del sistema immunitario contro i propri tessuti, un modello perfetto per approfondire i meccanismi alla base delle malattie autoimmuni. Infatti Brunkow e Ramsdell studiarono questi topi e trovarono il gene responsabile, Foxp3. Inoltre, questi ricercatori sospettarono che la rara malattia autoimmune IPEX, legata al cromosoma X, fosse la controparte umana dei topi scurfy e, nel 2001, identificarono l’equivalente umano di Foxp3. Due anni dopo, Sakaguchi dimostrò che il gene Foxp3 controlla lo sviluppo delle cellule T regolatorie.
La storia di questa scoperta somiglia a un grande mosaico costruito nel tempo, dove ogni tessera è stata posata da mani diverse. Sakaguchi ha avuto il coraggio di iniziare, tracciando il primo pezzo del disegno. Brunkow e Ramsdell, con la pazienza dei pionieri e strumenti lontani dagli standard odierni, hanno aggiunto il tassello genetico che mancava. E solo grazie a questo lavoro intrecciato, Sakaguchi ha potuto completare l’immagine. Nessuno, da solo, avrebbe potuto vedere l’intero quadro: è la cooperazione che ha dato forma alla verità.
Ma come è possibile questa coralità tra gli scienziati? Forse è parte della nostra natura più profonda. Come le cellule del corpo uniscono le forze per proteggere la vita, così gli esseri umani, nel loro tentativo di capire il mondo, scoprono di avere bisogno gli uni degli altri. Il premio Nobel di quest’anno non celebra solo tre nomi, ma un principio universale: il progresso nasce dall’unione, non dall’isolamento. In un’epoca segnata da conflitti, competizione e solitudini, questo riconoscimento ci ricorda che la scienza non è il frutto di un solitario genio, ma il risultato di una comunità che esplora insieme l’ignoto. Collaborare non è soltanto utile: è ciò che ci rende umani.
7 ottobre 2024
Questo articolo è stato pubblicato sul sito dell'Associazione Euresis. Nel seguente testo viene messa in luce la funzione dei miRNA, macromolecole essenziali per il differenziamento genetico.
Credits:: Nobel Prize
Oggi, con questo premio Nobel, si rimette al centro l’RNA nella vita biologica mostrandone aspetti innovativi e sorprendenti. Tuttavia, questa macromolecola ha già conosciuto dei premi Nobel. Tra tutti ricordiamo il Nobel per la Chimica del 1989 vinto da Sidney Altman per aver dimostrato le funzioni catalitiche dell’RNA e, più recentemente, il Nobel per la Medicina e la Fisiologia del 2023 assegnato a Katalin Karikó e Drew Weissman per l’invenzione dei vaccini a RNA.
Ci siamo mai chiesti come è possibile che una cellula del fegato sia diversa da una del cervello o dell'occhio? Gli epatociti che popolano il fegato sono principalmente deputati al metabolismo dei nutrienti come zuccheri e lipidi; i neuroni, invece, trasmettono informazioni attraverso impulsi elettrici, consentendo la comunicazione tra le varie parti del sistema nervoso; infine, i coni e i bastoncelli, cellule specializzate della retina nell'occhio, ci permettono di vedere la luce e distinguere i colori. Cosa permette questa diversificazione di funzioni, se tutte le cellule del nostro corpo condividono lo stesso patrimonio genetico?
La risposta sta nel fatto che, pur avendo tutte lo stesso DNA, le cellule lo “leggono” in modo diverso esprimendo geni diversi. Il flusso dell'informazione genetica segue il percorso dal DNA all'RNA e infine alla proteina, responsabile delle funzioni cellulari. È qui che entrano in gioco i miRNA: piccole molecole di RNA che non codificano proteine, ma che regolano in modo preciso e selettivo quali geni devono essere espressi e quali no. I miRNA legano gli RNA messaggeri (mRNA) e possono bloccarne la traduzione in proteine o favorirne la degradazione, determinando così quale funzione la cellula sarà in grado di svolgere.
La scoperta dei miRNA è avvenuta grazie a degli esperimenti principalmente condotti nel nematode C. elegans. I lavori che hanno portato alla scoperta di queste piccole molecole regolatrici sono stati pubblicati in due articoli sulla rivista Cell nel 1993. Infatti, i due scienziati descrissero per la prima volta il ruolo del gene lin-4 come regolatore dell’espressione di lin-14, fondamentale per il controllo dello sviluppo. Queste scoperte hanno rivoluzionato la nostra comprensione di come l’RNA non sia solo un intermediario tra DNA e proteina, ma un regolatore centrale della vita cellulare, garantendo che il nostro corpo funzioni correttamente.