THE BUCK STOS HERE
Un progetto di arte performativa nella scuola
«Una soluzione consiste nel lavorare oltre l’oggetto – l’oggetto in sé come risultato concreto e percettivo – verso lo spettacolo, in unione col teatro».
Tommaso Trini, Domus, Gennaio 1969.
Inizio con le parole di uno dei critici che più hanno seguito il fenomeno dell’Arte Povera, con questa citazione e non con altre, perché penso che in essa sia condensato lo spirito che ha dato forma a quello che a prima vista sembra solo una bella proposta, un esperimento didattico ben riuscito, ma che, se osservato più attentamente, si rivela una vera e propria esperienza d’arte.
The Buck Stops Here nasce nell’ambito di un percorso didattico pensato per i ragazzi delle scuole secondarie di primo grado. Appare caratterizzato fin da subito da una spiccata natura progettuale: si è aperto come un piccolo cantiere con delle idee messe subito su carta dal prof. Angelo Reccagni, sottoposte poi agli altri docenti e agli alunni, con un piano di svolgimento e messa a punto del lavoro, nel quale ognuno aveva la sua parte. Così si è venuto sviluppando e costruendo via via non solo attraverso l’attuazione delle bozze del professore, ma anche grazie a variazioni e aggiunte uscite dalle mani degli stessi studenti, messi alla prova dagli imprevisti che la definizione concreta di un progetto può presentare. Non si è chiesto loro di eseguire meccanicamente degli esercizi, ma di star dentro il processo creativo, di intervenire, strumenti alla mano, per modificare l’oggetto che andava formandosi non come lavoro di uno solo ma come prodotto di tanti.
Il lavoro è passato attraverso almeno tre momenti. In una prima fase si è proceduto a creare una carcassa in rete metallica, impostata su una struttura in ferro, che dovesse prendere la forma di un cervo rampante su un masso o una sporgenza. In parallelo, si è approntata una coreografia per il corteo d’ingresso del cervo, volutamente pensato sulla falsa riga delle processioni religiose, per la prima “performazione” tenutasi in giugno 2014 presso l’Antico Arsenale di Bertonico. Qui il cervo metallico fece il suo ingresso accompagnato dagli studenti che producevano dei suoni con latte e bottiglie; una volta trovato il posto della sua collocazione, appoggiata la grande gabbia, i ragazzi la rivestirono di foglie di siepe verdi. Con questo primo evento-spettacolo si inaugurò la seconda fase, quella performativa appunto, concretizzatasi in altri tre “accadimenti”. A ottobre 2014 nel parco di Villa Braila a Lodi, dove il cervo spoglio venne rivestito di foglie autunnali: l’azione fu accompagnata da una coreografia in cui i “copritori” si sarebbero alternati nel lavoro di copertura e dal canto di un coro di studenti della scuola coinvolti nel progetto. Il terzo fu in Febbraio 2015 a Oltre il Colle (BG); qui, sotto la neve che cadeva ricoprendo la terra di un candido manto ovattato, di fronte alla cattedrale vegetale dell’artista lodigiano Giuliano Mauri, i ragazzi coprirono il cervo di neve, mentre un coro di flauti suonava alle loro spalle. Con la primavera, infine, la scultura venne riempita di fiori in un giardino di Sordio (MI), sede distaccata dell’Istituto comprensivo, l’evento fu accompagnato da musiche e da un ballo che i ragazzi avevano pensato per l’occasione.
A giugno 2015 il cervo vestito ancora d’estate è tornato a Bertonico, dove tutto era iniziato: un ritorno simbolico, come tutto il suo ciclo d’esistenza del resto, perché il progetto è nato anche dalla volontà di far incontrare i ragazzi con le tematiche ambientali più cogenti e stimolare in loro un senso di responsabilità. Questo spiega anche il perché del cervo: l’animale infatti è in molte leggende e tradizioni religiose simbolo del rigenerarsi della natura e delle vita; inoltre, lo si ritrova protagonista di un modo di dire inglese reso celebre dal presidente americano Harry Truman e da cui il progetto stesso prende nome: the buck stops here, a significare l’assunzione di responsabilità di chi si sente investito di un dovere. The Buck Stops Here, ancora a Bertonico, a dimostrazione del fatto che il suo messaggio è ancora vivo e pronto a rigenerarsi. La terza ed ultima fase è rappresentata da questa mostra che segna l’arrivo, la conclusione di tutto quanto il percorso e che allo stesso tempo vuole essere una sua riproposizione. La performance, si sa, nasce come atto unico e non può darsi una seconda volta. Non si ripete, ma può conservarsi assieme a ciò che ne resta nella documentazione video e nelle fotografie, nei fogli dei progetti e negli oggetti che si sono impiegati nel corso della realizzazione, proprio come tutto il materiale che il visitatore potrà incontrare nella presente mostra.
Per comprendere definitivamente il progetto, però, manca ancora una considerazione circa il suo background storico e artistico, nel quale si sono configurate le modalità e le forme con cui è stato realizzato. Occorre tornare, allora, negli anni Cinquanta e Sessanta, quelli del secondo dopoguerra, della ripresa e del boom, della nascita della società dei consumi. È in questo panorama e in un contesto culturale magmatico e aperto a nuove esperienze che gli artisti iniziano a mettere in discussione i tradizionali modi di fare arte e il sistema stesso dell’arte, basato su un processo produttivo e commerciale del tutto simile a quello che andava affermandosi allora. Nel solco appena tracciato dalle grandi Avanguardie storiche, dalla scoperta-invenzione del gesto operata da Pollock, muove una generazione di giovani artisti, le cui riflessioni andranno in meno di un ventennio a porre le basi teoriche e pratiche dei modi nuovi di fare e pensare l’Arte. I Giapponesi del Gutai, il Movimento Neoconcretista Brasiliano ai suoi esordi, ma soprattutto le esperienze oltreoceano di Kaprov e Oldenburg e quelle ben distinte, nel vecchio continente, di Fluxus e dell’Azionismo Viennese saranno i protagonisti principali di questo periodo; fondatori e teorici di quello che si profila come un nuovo canone, gli artisti di questi gruppi avviano con il loro lavoro una riflessione sull’Arte e sulle opere, nonché sul ruolo dell’artista stesso, si addentrano nell’analisi della società e del loro tempo, cercando di dare una risposta alle angosce o alle istanze che profonde, inconsce si muovono nei loro contemporanei. Ampliano gli strumenti e scelgono nuovi spazi per le loro produzioni, “oggetti” d’arte di terribile novità: non esistono più quadri, non tele e cornici, nessuna scultura che possa a un primo momento definirsi tale, questi artisti prediligono le forme dell’evento e della messa in corpo di azioni e gesti proibiti e negati, come anche di movimenti di umana e dissacrante quotidianità. Sempre più fondamentale diventerà poi la dimensione pubblica, sia per quanto riguarda gli spazi in cui l’azione artistica avviene, sia per quanto riguarda il coinvolgimento dello spettatore, al quale viene chiesto esplicitamente di prendere parte, in un’ottica sempre diversa che va dalla volontà di estendere il ruolo autoriale a quella di cancellarlo del tutto, dalla restituzione di una dimensione sacrale ormai perduta all’idea della celebrazione di un grande rito collettivo.
Interessante aspetto che riguarda la nuova pratica della performance è l’importanza che assume via via la documentazione dell’azione artistica: nel momento in cui vengono meno i tradizionali supporti che per secoli hanno ospitato l’opera-oggetto d’arte permettendole di sopravvivere nel tempo e nello spazio, unica garante di una sua persistenza nella memoria collettiva, ben oltre i limiti generazionali di chi ha potuto parteciparvi, sarà l’immagine impressa sulla pellicola fotografica o filmica. È un’opera fantasma quella che si va costituendo e un’arte non più di opere-oggetto, ma residui, relitti, di oggetti che restano e si fanno opera.
Performance, dimensione sociale collettiva, importanza della documentazione, messa in discussione del concetto di opera e autore, queste e altre istanze avrebbero presto costituito delle nuove linee guida per gli artisti successivi. Come un filo rosso, attraverso il dibattito sull’arte processuale e, poi, quello della body art, passando per i sentieri dell’arte femminista e di quella visuale, esse arrivano fino ai nostri giorni e fanno ormai tanto parte di un panorama culturale, non solo artistico, da poter fondare anche l’esperienza artistica performativa di The Buck Stops Here.
Queste, tuttavia, non sono le sole influenze che hanno contribuito al definirsi del progetto. Accanto a quelle, infatti, sta anche l’eredità dell’Arte povera, citata in apertura. La definizione è del critico Germano Celant, che nell’autunno del 1967 cura la mostra tenutasi alla galleria La Bertesca di Genova, e designa le opere di un gruppo di artisti che segnarono gli anni Sessanta con una serie di interventi tra i più originali e autonomi per l’Europa del tempo. Erede dell’antimodernismo di De Chirico, accentuando ancora di più l’importanza data all’elemento artigianale, l’Arte povera rifiuta la società dei consumi e le pratiche artistiche da essa prodotte, nel tentativo di restituire loro una dimensione mitica, teatrale e corporea, di riconquistarne l’identità legata a una dimensione locale e a una storia. A ciò si unisce un’idea di natura come più innocente e vera, una natura che si vuole esperienza quotidiana e modello di comportamento. La loro attenzione si sposta sull’ambiente che ospiterà le loro installazioni e sui materiali, poveri, appunto, presi dal quotidiano, dal comune. Anche per l’arte povera il coinvolgimento del pubblico risulta fondamentale dal momento che essa stessa è per chi la pratica continuo e costante rapporto con il mondo esterno. Attenzione ai materiali, importanza dell’ambiente, riscoperta della natura, ecco di nuovo alcuni dei tratti che hanno percorso le espressioni artistiche degli ultimi decenni del secolo e ancora si riscontrano. Ecco, di nuovo, alcuni aspetti che il progetto del cervo ha accolto e sviluppato.
The Buck Stops Here è l’ultimo di una serie di progetti, tutti facenti parte di un più ampio programma didattico, lascuolalsole, nato attorno al 2007 con due primari obiettivi: da una parte, rispondere all’esigenza di un percorso interdisciplinare previsto dall’Istituzione scolastica, dall’altra “realizzare delle vere e proprie performance artistiche senza un artista ufficiale e celebrato, ma semplicemente con una équipe di lavoro composta dall’esperto di arte e immagine dell’Istituto, dagli altri insegnanti compartecipi, dagli alunni e da molti loro genitori”. Partecipare e coinvolgere, quindi, al di là dei settori disciplinari e delle competenze specifiche, oltre i limiti che a volte i programmi ministeriali impongono, oltre una netta e insormontabile distinzione di ruolo tra insegnanti e tra questi e gli studenti. Se il primo obiettivo è abbondantemente raggiungibile e, anzi, esempio virtuoso nell’odierno panorama scolastico, il secondo è sicuramente più impegnativo e il più rischioso. Perché si tratta, con esso, di accogliere in fin dei conti una sfida: non limitarsi ad insegnare l’arte, a spiegarla, a parlarne, ma farla e mettere gli stessi studenti nelle condizioni di poterla fare. Questo implica anzitutto una scelta di campo, perché si può pensare di coinvolgere gli studenti facendo dipingere loro delle tavole, facendo modellare loro delle sculture, ma è ben più coraggioso oggi scegliere la forma della performance per metterli in contatto con quella strana esperienza che, dagli anni Sessanta in poi, l’arte è diventata. Ciò che, poi, si dovrà apprezzare è che la scelta non è frutto di puro anticonformismo, ma del gusto, delle preferenze, della passione del professore stesso e della sua voglia di trasmetterle con una bella speranza che si trova condensata in poche parole di un’opera di Giuseppe Chiari: “L’ARTE SARA’ DI TUTTI”. L’arte può essere di tutti e The Buck Stops Here l’ha dimostrato.
DOTTORESSA CLARA FENOCCHI
Riferimenti Bibliografici e siti
Per la parte storico-artistica sui movimenti di Fluxus, Azionismo Viennese, Gutai, sulle opere di Kaprov e Oldenburg e sull’arte povera si è consultato il volume: Arte dal 1900, edizione italiana a cura di E. Grazioli, Zanichelli, Singapore 2010.
THE BUCK STOS HERE
il cervo: arte e psicologia si intrecciano
Il progetto artistico che si è costruito intorno al soggetto concreto quanto simbolico del cervo, nelle sue fasi di realizzazione laboratoriale, quanto nei grandi momenti performativi, si pone come un’esperienza di significativa lettura attraverso le ‘lenti’ della psicologia, in particolare attraverso gli spunti che possono arrivare da psicologia dell’arte, psicologia dell’educazione e della scuola, psicologia delle emozioni, della cognizione e dell’espressione corporea.
Nell’artefatto artistico del cervo si incrocia una complessità notevole di livelli di analisi. Troviamo un artefatto artistico concreto e materiale, il cervo ( nella sua struttura metallica resistente la susseguirsi delle stagioni; le sue vesti di foglie, neve e fiori, di cui rimane traccia fotografica). Ma soprattutto abbiamo delle azioni performative, che prendono vita in un momento e luogo specifici e di cui rimane sì una traccia, ma una traccia mnestica che ha il difficile compito di documentare la forza emotiva e impattante del momento performativo stesso, un momento che esiste solo grazie ad una forte partecipazione sociale di tutti gli attori coinvolti, in un particolare contesto, che va oltre il più semplice rapporto artista-opera-fruitore.
In questo caso “l’opera” o “le opere” sono le performance, che coinvolgono l’artefatto concreto del cervo ma lo trascendono ampliandone la carica simbolica e significativa; anche la progettazione della specifica performance è un copione che, per quanto fedelmente seguito nella realizzazione, si apre alle interpretazione delle diverse soggettività coinvolte.
Ecco che l’artefatto finale, il prodotto che prende vita, è frutto di una costruzione cooperativa (una co-costruzione) le cui proprietà emergenti vanno oltre alla semplice somma dei contributi singoli, i quali inter-agento creano una totalità finale in cui ognuno, allo stesso tempo creatore e attore, partecipa ad un momento di espressione artistica e, in quanto tale, partecipa ad un luogo di possibile espressione del sé. Un momento di espressione del sé alternativo alla didattica consueta, in quanto più spontaneo, emotivo, corporeo e che si è dimostrato di crescita per i ragazzi coinvolti.
Già Carl Gustav Jung, nel 1915, si esprimeva così in merito all’uso del corpo: "le mani possono arrivare dove le parole non arrivano" chiedeva ai suoi pazienti di danzare le proprie emozioni perché la sua teoria lo portava a credere che, guardando i pazienti danzare le emozioni, potesse a entrare nei meandri segreti che le persone nascondono, spesso, anche a se stesse.
Da un altro punto di vista, il tema mi fa pensare al lavoro in campo di psicologia della cognizione e dell’educazione di Gardner e alla sua teoria sulle intelligenze multiple. Non tutte le persone sono caratterizzate da un intelligenza numerica, logica o linguistica, e non per questo sono da considerare prive di intelligenza, saranno probabilmente più abili nell’esprimersi attraverso un’intelligenza spaziale, cinestetica, musicale ed è significativo che nei contesti di apprendimento più importanti (come quelli scolastici) se ne amplifichino le possibilità
Partecipare ai laboratori di educazione artistica con i ragazzi e agli eventi performativi, mi ha dato l’occasione di conoscere alcuni dei ragazzi coinvolti e di fare alcune osservazioni sul loro modo di partecipare al lavoro comune. Colpisce molto la sincera partecipazione di studenti poco avvezzi alla didattica, con scarsi rendimenti nello studio, annoiati, ripetenti, spesso impegnati nel disturbare in classe, a volte polemici con i professori, che probabilmente attraverso questa attività legata al ‘fare’, hanno trovato nuovi canali di espressione delle loro capacità, nuove modalità per sentirsi responsabilizzati e poter proporre agli altri delle loro qualità.
È il caso di M. il quale, intuendo nel corso dell’attività laboratoriale (convulsa di numerosi aspetti da gestire) un po’ di confusione organizzativa da parte dell’insegnante d’arte, si autocandida come segretario, rivelando doti di ordine, precisione e comprensione, diventando una sorta di segretario di produzione quasi indispensabile. La scelta di M. di portare l’esperienza del Cervo come argomento di tesina per l’esame di licenza media mi sembra testimoniare quanto questa partecipazione sia stata rilevante nei vissuti dell’alunno stesso.
C., pluri-ripetetente, in classe si annoia e tende a disturbare , chiede spesso di poter uscire e le si concede di uscire dalla classe in determinate ore a patto che rimanga sotto la vigilanza del prof. Reccagni, in queste ore realizza disegni tecnici per il totem che ospiterà la mostra finale di Bertonico, si rivela molto precisa nell’uso di riga e squadre, disegnando con precisione le superfici su cui andranno apposte le immagini.
N., a rischio di abbandono scolastico, spesso in classe dorme ed è un ragazzo difficile da impegnare in qualcosa, però vive con interesse la partecipazione ai laboratori, nel corso dei quali ama rendersi utile negli aspetti più pratici dell’organizzazione, in realtà non è molto avvezzo all’eseguire le consegne date, ma si rivela disponibile ad assumere le veci di una sorta di assistente del Prof. Reccagni, a volte come portaborse, a volte e cimentandosi con foto e come regista di video.
G. allieva di una scuola di danza e appassionata del tema, ha seguito l’evento ‘cervo di primavera’, alla cui base sono previsti balli medioevali e danze moderne. Caratterizza l’evento con un apporto molto personale e significativo, aiutando l’insegnante per la parte che riguarda la danza moderna: l’alunna essendo allieva di una scuola di danza pian piano prende il sopravvento nell’organizzazione di questo pezzo, diventando a tutti gli effetti una vera e propria insegnante di ballo seguita con stima e rispetto dagli alunni partecipanti al progetto. Questa scuola tra coetanei, nella sua spontaneità, ha saputo coinvolgere e trascinare anche alcune ragazzine più timide e riservate (talvolta succubi di prese in giro maschili e molto restie ad esprimersi davanti agli altri) che vedendo le compagne creare qualcosa insieme ed esibirsi nelle danze hanno deciso di provare a vincere la timidezza e far parte del copro di ballo, arrivando a ballare in pubblico senza problemi.
Questa lunga opera di co-costruzione del soggetto artistico a avuto anche delle interessanti ricadute prettamente relazionali, dovute al fare qualcosa di nuovo insieme ai compagni che ha talvolta permesso di conoscersi reciprocamente in un modo nuovo, in contesti alternativi e imprevisti che hanno avuto anche degli inaspettati effetti di integrazione culturale. Penso a U., che mi è stato raccontato come un ragazzo taciturno, molto introverso, che finalmente trova un amico in un suo coetaneo di un’altra classe. Penso poi ad alunni provenienti da altre nazionalità che per la prima volta, durante l’Inverno del Cervo, vedono la neve e la montagna imbiancata.
Dottoressa
Claudia Reccagni
Psicologa
progettare nella scuola
DELLA DIDATTICA DELL’ARTE E DEL FARE DI ARCHITETTURA
A volte penso che la scuola sia in un certo senso una “fabbrica , una “fabbrica “ impegnata a produrre cultura.
Meglio poi , se il suo “prodotto cultura”riesce ad essere visibile , cioè se, oltre ad essere fruito dagli alunni e dagli insegnanti, viene fruito anche dall’extra-scuola ( genitori - cittadini ), ovvero dal suo territorio .
Per quel che mi riguarda , nel settore della scuola di base , nello specifico della didattica dell’arte , da sempre opero con l’obiettivo di dare vita a percorsi formativi che, alla fine dell’anno scolastico, possano sfociare in una pubblica rappresentazione , preferibilmente in spazi all’aperto e fuori dalla scuola ,allo scopo di realizzare una sorta di innesto con il tessuto urbano di riferimento.
Quindi, “ la scuola esce dalle sue mura per andare a collocarsi in uno spazio del suo territorio “ ,dunque all’aperto , alla luce del sole …Nel corso di queste edizioni di “scuolalsole “, ho notato il manifestarsi di una peculiarità e cioè che gli eventi di fine anno , tendono , via via , a configurarsi come una sorta di fase finale di un processo
edificatorio , la cui erezione , iniziata al principio dell’anno scolastico è proseguita costantemente sino all’epilogo finale.
Il metodo di lavoro , i contenuti , gli obiettivi , il costruire insieme , mi hanno indotto alla constatazione che l’evento “ lascuolalsole “ è diventato portatore di una progettualità che ha molte cose in comune con il “ fare architettura “.
Infatti , gli alunni realizzano il proprio elaborato individuale con la consapevolezza che una volta
assemblati , costituiscono “insieme” l’evento artistico nella sua completezza.
Questo metodo di lavoro mi riporta alla frase di un celebre film dove uno dei protagonisti declama
<< un mattone non vuole essere semplicemente un mattone ma vuole essere una parte di quell’insieme di mattoni che formano una cattedrale , un palazzo , …>>. I ragazzi , ma in generale gli uomini , sono fortemente attratti dagli eventi collettivi , basti pensare ai tifosi negli stadi o ai fans nei concerti .
In maggior misura restano attratti da quell’evento che oltre alla veste di partecipanti ,li vede anche in quella di realizzatori.
Il successo di alcune grandi architetture, pensiamo ad esempio alle piramidi egizie o allecattedrali gotiche , è stato tale , perché non si è trattato di semplice mano d’operama di una coralità di maestranze che credevano nell’evento.
Si pensi al presente , ad esempio alla costruzione della Sagrada Famiglia a Barcellona .
Analogamente , nelle debite proporzioni , ma con lo stesso spirito sono stati costruiti questi eventi.
Angelo Reccagni – Docente Esperto d’Arte