NapoliTeatroFestival/6
Il Teatro
Festival è terminato, ma non lo è qualche suo percorso suggerito e rimasto a
giacere da qualche parte, nella memoria, per riaffiorare magari camminando per i
decumani.
Seguitemi, dovremo scendere qualche metro sotto i nostri passi, accendete
una candela magari, ma venite a toccare il suolo e le pareti di quello che
potreste avvertire da subito con la stessa forza di un culto
ctonio.
Bisogna ripartire da una scena del Teatro
Sommerso. C’era la mamma di Gennarì alla disperata ricerca di un
figlio scomparso da mesi ormai, e forse anche da secoli, ed il suo lancinante
urlo a scuotere le coscienze ed a far credere davvero che le stesse pietre
potessero commuoversi di fronte a lei, fino al miracolo di
restituirglielo.

Quell’urlo si è spostato di qualche centinaio di metri, mantenendo però
sempre la sua profondità ipogea, ed è finito nella gola della madre di
Maurì, una delle donne violentate (troppe, ma assai realistiche) della
terribile e viva ricostruzione operata da Andy Arnold nella produzione “Monaciello”,
ospitata degnamente da uno dei percorsi di Napoli sotterranea, quello che
sfocia in via Chiaia, che come sotterraneo nella sua vita non si è fatto mancare
niente, essendo anche rimasto legata così strettamente alla vita “di
sopra”: necropoli, acquedotto, cantina, ripostiglio ed infine rifugio e
quasi luogo prevalente di vita durante il secondo conflitto
mondiale.
Prima domanda spontanea: era così impossibile trovare attori napoletani per
delle parti così visceralmente napoletane? Non è solo una questione di lingua
che difficilmente inquadrava i toni, ma proprio di partecipazione…
A parte questo, la
linea sotterranea ha retto benissimo, e una volta allontanatasi dagli occhi
spettrali dell’ultimo sguardo che indicava l’uscita, con un fare di scherno per
quell’Inferno
invivibile, lì
sopra, verso cui eravamo diretti, ebbene anziché salire in superficie, si è
trasferita in un altro spazio, sorprendente per la sensazione di scoperta, ed
entusiasmante per l’opera di recupero e tenace mantenimento di Michele Del
Grosso,
in un luogo dove sia Maurì che Gennarì saranno passati di certo: il Teatro instabile a Palazzo Spinelli.

Va detto subito che
per ospitare “Ultima notte di Giacomo Casanova” (con regia ed interpretazione
di Mario Mattia Giorgetti), l’atmosfera dell’Instabile era praticamente perfetta: ci
siamo trovati senza alcun dubbio in una notte del 1798, e Casanova non si è
lasciato andare che per qualche misero minuto, e solo all’inizio,
all’impossibile struggimento per un amore, definito addirittura ed assurdamente
l’unico vero amore della sua vita.
No, nemmeno questo
poteva fare da punto debole; Giacomo Casanova è rimasto alto, ed ha
“trionfato col suo coraggio, come Enea, Ulisse, Orlando”… come uno sciocco “che
perde diamanti su rozze tovaglie in oscure taverne”, come il “volgare scrivano
di delizie per corpi fatti pergamene”, che ha “ingannato, deluso, gabbato, si…
ma sono i modi a fare l’Artista”.
Una maschera a tre volti appariva spesso nelle sue mani, e credo che tutti
e tre i suoi sguardi non siano mai usciti da quell’andito in pietra antica e
dimenticata, nemmeno per salire un attimo a guardare quell’Inferno
invivibile, lì sopra… ed alla fine quando si spegne anche lo sguardo suo per
l’ultima volta, ho avuto l’impressione che forse la vera morte che si celebra
con Casanova, sia stata quella del ‘700, affinchè potesse nascere l’800.
E non sono tanto convinto che sia stato un affare.