rassegna di cinema palestinese Facendo un paragone tra Israele e Sudafrica, gran parte dei palestinesi sente che è negato ad essi l’accesso a risorse, diritti, proprietà della terra e libertà di movimento. Auspico una Commissione di verità e Riconciliazione, così come fecero Desmond Tutu e i neri. Anche gli afrikaner in Sudafrica avevano una ideologia protosionista. si consideravano prescelti da Dio, ma, ogni israeliano dovrebbe assumersi le sue responsabilità e ammettere che Israele ha cancellato gli arabi che erano in Palestina prima del ’48, che ha disperso famiglie palestinesi, ha demolito case, distrutto villaggi. Sono contrario all’esodo degli ebrei (“perché non voglio più vedere gente costretta ad andarsene”) e sono disposto ad accettare la libertà per l’ebreo di affermare il sionismo, il suo legame con la terra, a patto però che questo non comporti la estromissione degli altri. Certo, così come successe in Sudafrica, dove i meccanismi furono riformati, auspico una profonda trasformazione di Israele all’indomani di un vero processo di pace. Voglio mantenere per i palestinesi e israeliani un meccanismo o una struttura che permetta loro di esprimere la loro identità nazionale […] la soluzione dei due stati non è più percorribile. E date le realtà geografiche, demografiche, storiche e politiche, ritengo che ci sia molto da guadagnare da uno stato binazionale […] La sovranità ebraica fine a se stessa non mi sembra che valga tutto il dolore, la devastazione e la sofferenza che ha prodotto. Edward Said - Intellettuale palestinese, nato nel 1936 a Gerusalemme, si formò a Princeton ed Harvard, e insegnò in più di centocinquanta Università e scuole negli Stati Uniti, in Canada ed in Europa. Omar di Hany Abu-Assad. 97'. 2013. Omar è un giovane fornaio palestinese abituato a scavalcare il muro della
separazione, schivando proiettili e sorveglianti, per far visita alla
ragazza di cui è innamorato, la liceale Nadia. Con il fratello di Nadia,
Tarek, e un terzo compagno, Amjad, Omar condivide un'amicizia decennale
e un'attività clandestina di addestramento per la causa della
liberazione della Palestina. Caduto prigioniero, dopo aver partecipato
all'uccisione di un soldato, Omar resiste alla tortura e viene invitato a
scegliere tra il carcere a vita o la collaborazione con la polizia
israeliana. Il regista di Paradise Now
torna in Palestina e gira tra Nablus, Nazareth e Bisan con una troupe
esclusivamente di locali, molti dei quali alla prima esperienza. Eppure
il risultato è solido, il ritmo incalzante, le performances dei quattro
protagonisti (tutti esordienti) non meno che sorprendenti. Il risultato
più alto, in tutti i casi, è la mescolanza riuscita di veridicità delle
immagini e delle storie raccontate con lo spettacolo del ritmo e della
tensione che la regia sa assicurare. Hany Abu-Assad non giudica, non esalta né demonizza: nel racconto di un
amore confidente e tragico trova tutti gli ingredienti che gli bastano
per assicurarsi un fondo sicuro ed emotivo sul quale innestare elementi
di genere (spie, tradimenti, doppiogiochismo), sempre e comunque
aderenti al contesto e umanamente credibili. La sensazione di trappola
autodistruttiva in cui si ritrova in breve il protagonista è chiaramente
una metafora della situazione palestinese sotto l'occupazione, ma
l'intelligenza del regista sta nel non presentarla come una premessa,
bensì di seguire passo passo l'avvilupparsi su se stesso del destino di
Omar e della sua Giulietta, fino alla scena emblematica in cui scalare
il muro non è più un gioco da "ragazzi", perché certe energie sono state
spente per sempre.Forse Omar non possiede il miglior finale possibile, ma è
nell'immagine iniziale della barriera divisoria che sta il senso di quel
che racconta per tutti i minuti a venire: i palestinesi sono separati
tra loro (amici, amanti, famigliari) da un atto di forza a cui non hanno
i mezzi per opporsi. Per questo, pur mantenendo la sospensione del
giudizio e mostrando luci e ombre della gioventù che ritrae, la
posizione di Abu-Assad è meno imperscrutabile rispetto a quanto accadeva
in Paradise Now e il film ne guadagna, apparendo meno mirato a dividere e più interessato a raccontare.
Stone cold justice di John Lyons. 45'. Australia 2014, (Estratti). Il film che è stato prodotto da un gruppo di giornalisti australiani ha scatenato una protesta internazionale contro Israele dopo l’uso esplicito di Israele della tortura contro i bambini palestinesi. I bambini palestinesi arrestati e detenuti dalle forze israeliane, sono sottoposti ad abusi fisici, torture, costretti a false confessioni e spinti a raccogliere informazioni su attivisti palestinesi, per i servizi segreti. Il Ministro degli esteri australiano Julie Bishop ha condannato l’uso di Israele della tortura. Il portavoce del ministero degli Esteri israeliano Yigal Palmor ha descritto le violazioni dei diritti umani documentate nel film come “intollerabili”. I gruppi per i diritti umani hanno contestato questa dichiarazione, affermando che il governo non fa nulla contro queste violazioni. Un rapporto delle Nazioni Unite Fondo internazionale per bambini (l’UNICEF) afferma che i bambini palestinesi sono spesso presi di mira in arresti notturni e incursioni nelle loro case, minacciati di morte e sottoposti a violenza fisica, isolamento e violenza sessuale.
domenica 8 maggio La sposa di Gerusalemme. di Sahera Dirbass. 72', 2010. Gerusalemme è un soggetto costante della produzione culturale e artistica palestinese. Non potrebbe essere altrimenti alla luce dei legami storici, politici, religiosi e umani che tengono stretto un intero popolo intorno ad al Quds, così come in arabo viene chiamata Gerusalemme. Il fatto che dalla Guerra dei Sei Giorni (giugno 1967) tutta Gerusalemme sia controllata da Israele, ha accentuato le rivendicazioni dei palestinesi che intendono proclamare la loro futura capitale nel settore arabo (orientale) della città. Non sorprende perciò che anche il cinema palestinese, con documentari e fiction, abbia dedicato ampio spazio alla Città Santa, il più delle volte per raccontare la vita quotidiana e la resistenza degli abitanti della zona araba sotto occupazione israeliana. La città vecchia di Gerusalemme con i suoi problemi politici e sociali è il palcoscenico dove si muovono i protagonisti di «La sposa di Gerusalemme». Si tratta di un «docu-fiction», ossia di un film con parti recitate all’interno di una quadro assolutamente reale, che attraverso la vita e il lavoro di Riham, una giovane assistente sociale, racconta la difficile esistenza delle famiglie palestinesi nella casbah, dalla lotta contro il continuo tentativo di penetrazione dei coloni israeliani nei quartieri arabi fino al problema della tossicodipendenza sempre più diffuso tra i giovani. La regista evita di calcare la mano, sceglie toni lievi, lasciando a Riham, ai suoi familiari, al suo fidanzato (e poi marito) Omar e tutti agli altri protagonisti il compito di condurre quasi per mano gli spettatori lungo un percorso di vita che attraversa l’intera città vecchia. «La sposa di Gerusalemme» è una produzione palestinese totalmente indipendente. Gli attori, in buona parte giovani, vivono tutti nella casbah.
domenica
15 maggio 5 Broken Cameras di Emad Burnat e Guy Davidi, 94'. 2011. Vincitore del Sundance Festival di Robert Redford, la pellicola racconta la crescita del figlio del primo ai tempi del muro voluto da Ariel Sharon. Con cinque telecamere, tante quante l'esercito israeliano gli ha rotto. Los Angeles e l’opulenza di Hollywood non hanno nulla a che vedere con il povero e angusto villaggio cisgiordano di Bili’n, ulteriormente rimpicciolito dalla costruzione del muro israeliano, che lo spacca in due. Eppure Emad Burnat, regista di 5 broken cameras, primo documentario palestinese candidato a un Oscar, non appena atterrato a Los Angeles con la moglie e il figlio maggiore, si è sentito “a casa”. Gli agenti addetti al controllo dei passaporti non hanno creduto alla motivazione della sua visita, nonostante il foglio d’invito dell’accademia per partecipare alle premiazioni, e lo hanno rinchiuso con la famiglia nella camera di sicurezza dell’aeroporto, nell’attesa del primo volo utile per Israele. “Sono abituato purtroppo a queste situazioni – ha spiegato il regista una volta rilasciato – alla lotta quotidiana per avere un minimo di diritti. L’occupazione israeliana non si limita a toglierci le terre, a distruggerci la casa, a mettere barriere e posti di blocco ovunque ma ci strangola attraverso la macchina burocratica. Ci vogliono permessi e contro-permessi per fare qualsiasi cosa”. Mentre si trovava rinchiuso, Burnat ha postato un tweet e mandato un sms al suo collega-amico ben più noto, Michael Moore, che ha subito chiamato i legali dell’accademia per chiedere di intervenire. “Il problema è che qui nessuno ritiene verosimile che un palestinese possa essere candidato a un Oscar ”, ha risposto Moore. Burnat non aveva mai pensato di fare il regista. Avrebbe invece voluto continuare a lavorare il piccolo appezzamento di terreno della sua famiglia ma la costruzione del muro decisa nel 2005 dall’ex premier israeliano Ariel Sharon, ha scombinato tutti i suoi piani: il suo terreno è stato confiscato assieme agli uliveti e vigne della maggior parte dei suoi concittadini. Da allora ogni venerdì a Bili’n si tengono manifestazione pacifiche di protesta a ridosso del muro che spesso finiscono in tragedia per la reazione dei soldati israeliani. Fu proprio dopo l’uccisione di un amico, colpito in pieno petto da un lacrimogeno, che il giovane contadino decise di utilizzare la piccola telecamera, acquistata allo scopo di filmare la crescita dei suoi figli per denunciare la violenza nei confronti dei suoi concittadini. Ma i soldati e i coloni non appena si accorgevano di essere ripresi, gli rompevano la telecamera. Un fatto accaduto ben cinque volte: da qui il titolo del documentario. Che porta la firma anche di Guy Davidi, un filmaker attivista israeliano, diventato amico di Burnat durante i mesi in cui si era trasferito a Bili’n per documentare gli effetti perversi dell’occupazione. Davidi ha smistato il materiale, che include anche momenti di vita familiare del regista, e deciso come montarlo.
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