Testo di proprietà dell’autore Gaetano Giugliano
“ZAINO A TERRA”
TERMINA UN VIAGGIO DA ALPINO E SOLDATO DI PACE NEL MONDO
Sono il Primo Maresciallo Luogotenente Gaetano GIUGLIANO nato a Cercola in provincia di Napoli il 15 marzo 1962. Quand’ero piccolo sognavo e dicevo ”da grande voglio guidare i treni” per vedere l’Italia intera ma, quando un giorno decisi di bussare al Distretto Militare per indossare le stellette e la mimetica ad appena diciassette anni, lasciandomi alle spalle gli amici, il campetto da gioco e la piazzetta del paese, mai avrei immaginato o sognato di vedere immensi territori paesaggi montagne deserti e conoscere toccare parlare con altri popoli del mondo. Sono maturato, diventato “uomo” troppo in fretta per iniziare una professione che mi investe di responsabilità, che mi porta alla fine a riempire un bagaglio di enorme esperienza attraverso una lezione di vita, di cultura, di civiltà.
Ho deciso di scrivere questa biografia, questo mio diario, queste mie memorie, questo “mio testamento”, per non dimenticare, per impedire che svanisca o vada persa una testimonianza preziosa del servizio prestato, che vorrei lasciare in consegna alla mia famiglia.
In queste righe sono ancora capace di commuovermi, chiudendo gli occhi e rivedendo le immagini registrate di questi 36 anni e 7 mesi effettivi trascorsi in questa splendida professione, con fatti, testimonianze, aneddoti ed episodi principali condivisi giornalmente. Voglio provarmi a raccontare in particolare il contatto che ho avuto con altri eserciti, con altri militari, popoli e ambienti durante i lunghi mesi trascorsi all’estero lungo interminabili ore di viaggio e spostamenti dalla madre patria ai “Teatri Operativi”, anche su aerei tattico-logistici C130 Hercules dell’Aeronautica Militare. Erano velivoli arredati con sedili-panche in rete e, per wc, un “secchio” nascosto dietro un piccolo sportello paratia in coda. Se ti addormentavi sbattevi con testa e ginocchia contro i tuoi vicini di posto.
Per raccontare chi, che cosa sono gli alpini in missione ci vorrebbe un libro del tipo “Centomila gavette di ghiaccio”, ma quella fu una tragica campagna che noi alpini portiamo nell’anima e che onoriamo tutti gli anni.
Partivo da Cercola, paese alle pendici del Vesuvio, nel maggio del 1979 alla volta della Scuola Allievi Sottufficiali dell’Esercito in Viterbo. Mi assegnarono l’incarico “specialista per il tiro”; bene, pensai, devo imparare a sparare con fucili, pistole…ma quel tiro voleva dire Artiglieria. Dopo 7 mesi di Viterbo ottenni la nomina a Caporale, poi a Caporal Maggiore. Mi sentivo fiero di alzare il braccio nel giuramento collettivo sul piazzale, di fronte ai miei genitori e parenti, al grido “Allievi del 41° Corso lo giurate voi? Lo giuro!..”.
Arrivò il momento agognato: bisognava continuare la specializzazione, e così venni trasferito in dicembre alla Scuola A.U.S.A. (Allievi Ufficiali e Sottufficiali di Artiglieria) in Foligno. Incominciai il corso nella specializzazione di topografo per posto comando di artiglieria da montagna, “familiarizzando” con i primi muli presenti nella scuola. Dopo cinque mesi ed esame finale fui promosso al grado di Sergente con quel “GIURO di essere fedele alla REPUBBLICA ITALIANA, di osservarne la COSTITUZIONE e le Leggi e di adempiere con DISCIPLINA ed ONORE tutti i doveri del mio STATO per la difesa della PATRIA e la salvaguardia delle libere ISTITUZIONI”. Questa volta ero da solo nell’ufficio del Comandante e davanti alla Bandiera di istituto. Venni assegnato al Gruppo Artiglieria da Montagna AOSTA, Caserma Mario Musso della Brigata Alpina TAURINENSE in Saluzzo (Cuneo). Arrivai in treno “tipo tradotta” (il tempo e la storia mi insegneranno questa parola, a me sconosciuta, simbolo della sofferenza patita dai soldati trasportati in vagoni per il fronte…) pieno di artiglieri che rientravano dalla licenza, “il 48 ore”, tutti provenienti dalla Liguria, qualcuno in uniforme da libera uscita. Incominciai a scrutare-studiare-toccare da vicino quei “cappelli strani con la penna” accuratamente riposti uno vicino all’altro sui portabagagli, come se fossero pronti per una rassegna (abituato a vedere e portare il basco per un anno, arrotolato, piegato e infilato nelle tasche della mimetica) e le mostrine giallo-verde-nere. Giunto in stazione intorno alla mezzanotte di una domenica di maggio del 1980, un artigliere si offre di farmi strada a piedi per la caserma. Ero in uniforme, con il cappello rigido “tipo Carabiniere con visiera”, fregio e mostrine generiche da artiglieria campale. Mi “imbatto” con il Comandante del Gruppo, un Tenente Colonnello che alloggiava in caserma e che, in quel momento, stava “rimproverando” tutto il personale di guardia.
Ho ancora presente la scena: appena varco il portoncino d'ingresso e sto per presentarmi, l’Ufficiale mi fotografa dalla testa ai piedi e dice: “Domani la voglio vedere con il cappello alpino perché qui siamo artiglieri da montagna; non se lo dimentichi mai più e si tolga subito quella schifezza che porta in testa”.
Il mattino seguente, dalla finestra della camera all’incirca al secondo piano, vedo “strani” tetti spioventi in tegola, il cortile principale dalla forma di un perfetto rettangolo, il fondo non asfaltato ma in pietra “ciottolato”, paletti con lunghe catene, abbeveratoi. L’aspetto è quello di una infrastruttura molto “datata”, tipo monastero con volte e lunghi ballatoi. A breve distanza spiccano colline verdi e la catena montuosa dell’arco alpino con il suo “Re di pietra”, il Monviso, ancora in parte innevato. Abituato a vedere fino a pochi giorni prima moderne strutture e panorami, rimango un attimo in “meditazione” con lo sguardo fisso.
Ecco poi il momento delle presentazioni di rito verso tutti i colleghi, gli anziani sottufficiali che parlavano in piemontese… Rammento le prime “gaffe” quando allacciavo le ghette, le uose o le racchette da neve all’incontrario: immancabilmente venivo “imbottigliato in diretta” dal collega presente ufficiale o sottufficiale che fosse, ciò che significava pagare da bere al circolo a tutti con una bella sfilata di bottiglie in mostra, tanto per imparare.
I corsi obbligatori di neve/valanghe, di sci alpinismo si svolgevano a Cervinia e nei crepacci del Monte Bianco; il corso roccia nella “Grigna” di Lecco, più altri corsi di specializzazione vari.
Conservo a tutt’oggi un particolare tremendo ricordo, ancora stampato nei miei occhi. In un gelido gennaio del 1982, durante una normale esercitazione di lancio della bomba a mano tipo SRCM, moriva sul colpo un Ufficiale che si trovava ad appena una decina di metri da me, vittima di un banale quanto improvviso e fatale incidente: la bomba, scivolata dalla mano di un artigliere in corsa che la stava lanciando, rotolava giù dalla protezione in fieno verso l’Ufficiale il quale, nel tentativo di allontanarla con la mano, istintivamente la “schiaffeggiava” facendola esplodere all’altezza del suo ventre.
Gli anni passano, sono promosso al grado di Sergente Maggiore in servizio permanente, posso anche sposarmi e così metto su famiglia. La vita giornaliera da artigliere alpino (ironia della sorte, “nati” gli alpini proprio a Napoli con Regio Decreto firmato dal Re Vittorio Emanuele II nel 1872) questo mio compito, a me sconosciuto, era difficile, dura la montagna, aspri il suo operare il suo habitat naturale. Così i campi d’arma e di marcia perduranti due o tre settimane, il “rancio” sotto tenda con cucine someggiabili e il “lusso” delle rotabili da 125-200 razioni, le scuole di tiro con le mitragliatrice browning “quadrinate” sulla spiaggia romagnola, con gli obici da 105/14 e 155/23 dall’Abruzzo alla Sardegna e nei poligoni delle valli vicine, le prove valutative sia in primavera che in pieno inverno (con un abbigliamento non proprio adatto per quest’ultimo), le marce settimanali con i muli sulle colline e nelle valli circostanti, l’ufficio e il magazzino da gestire, qualche “missione” sul territorio nazionale di circa 2 mesi (lamentandoti pure che eri lontano da casa), servizi di Ordine Pubblico del tipo “Vespri Siciliani” in Sicilia e “Domino” nel Bresciano. Pensavo che il mio “mestiere” sarebbe stato tutto qui negli anni a venire.
Tra varie cerimonie ed eventi ho avuto l'onore di scortare le Bandiere di Guerra del 1° Reggimento Artiglieria da Montagna e del 2° Reggimento Alpini (anche in occasione del 2 giugno ai Fori Imperiali in Roma), emozione grandissima da provare per un militare, sfilando tra un mare di gente e autorità che ti applaudono e ti gridano nelle orecchie “Viva gli alpini!”, con il terrore di sbagliare “il passo” del nostro storico inno 33 suonato dalle fanfare alpine della Taurinense e della Julia che sfilavano in testa.
La Bandiera, che a norma dei regolamenti devi difendere e custodire fino all’estremo sacrificio della tua vita per impedire che venga sottratta o distrutta, con le sue medaglie ti trasmette quello spirito di Corpo che regnava nei reparti, quello spirito che pian piano è sparito per colpa dello “tsunami” delle riforme strutturali volute nelle FF.AA. a cominciare dalla soppressione delle nostre storiche tre Brigate Alpine Cadore-Orobica-Tridentina per finire con il personale, colpito nei ruoli, nelle carriere, nei gradi, negli incarichi all’avvento della sospensione della leva regionale a favore del professionismo (giovani volontari “emigranti” provenienti da tutta l’Italia). Abbiamo, oggi, personale in servizio permanente che va gestito allo stesso modo degli ufficiali/sottufficiali, quadri che non diventeranno mai soci iscritti all’Associazione Nazionale Alpini (futuro a rischio per discontinuità e mancanza di ricambio generazionale), perché di “passaggio” nei nostri reparti e tendenti a raggiungere i luoghi di origine o altre specialità dell’Esercito e Corpi armati dello Stato.
Sto pensando pure alle tante caserme chiuse e dismesse, al personale di altra specialità o arma che accetta malvolentieri il trasferimento o per esaurimento del corso di formazione o per gli “usi costumi e tradizioni” dei nostri reparti alpini, Ufficiali e Sottufficiali compresi.
Ho visto, capito e apprezzato chi è soprattutto l’alpino in congedo, ho scoperto l’incredibile coesione esistente tra “veci e bocia”, con quel cappello gelosamente custodito, “simbolo sacro” portato da giovani generazioni nelle due guerre che, con il loro sangue versato, hanno scritto la storia per la libertà della nostra Patria; un cappello guadagnato, conquistato con il sudore della fronte (come recita una melodia) che l’alpino non abbandona mai. Ho ammirato questi figli dell’Alpe dedicarsi a opere preziosissime di solidarietà, al volontariato, all’attivismo nella protezione civile. Per finire, ho raccolto l’entusiasmo scatenato nei raduni e nella ricorrenza della grande Adunata Nazionale Alpini, trascorrendo giorni di vera amicizia, fratellanza, nostalgia, ricordi di “naja” e resa degli Onori per chi “è andato avanti”. Non esistono ex alpini: chi lo è stato lo sarà per sempre!
Nel 1993/94 si parla della cosiddetta MISSIONE di PACE.
In verità simili eventi erano iniziati negli anni ’80, a partire dal Libano (con i bersaglieri del Battaglione Governolo) sino alla Somalia (con la Brigata parà Folgore, poi con la meccanizzata Legnano), dove erano chiamati a operare carristi su semoventi. Noi alpini eravamo ancora fuori dal “giro” per motivi di specialità, una specialità che però sapeva presentarsi egregiamente da anni confrontandosi con altri eserciti della NATO nelle tante esercitazioni in Italia come all’estero e in tutta Europa.
Si trattava della 40a Batteria obici da 105/14 prima dello Storico Gruppo Tattico Susa (allora si chiamava “2a Batteria”), poi del Gruppo Pinerolo e, per finire, un accenno al Gruppo Aosta, inquadrato nel contingente Allied Command Europe Mobile ForceLand–AMF(L), una forza rapida aviotrasportabile che riscuoteva encomiabili apprezzamenti. Con sacrificio e con il supporto della mia famiglia, lo scudetto ITALIA cucito sull’uniforme, tanta fierezza e responsabilità per l’immagine, ero pronto a rappresentare l’Italia, l’Esercito e gli alpini nel mondo, dove eravamo chiamati a confrontarci con altre forze armate della coalizione. Mi accingevo a vedere con i miei occhi tutta la cattiveria, l’odio razziale per le etnie, la ferocia, la violenza, l’arroganza, la povertà, la sofferenza, la bestialità, il disprezzo per la vita che l’uomo sa infliggere sino a distruggere il suo stesso simile.
Come dicevo, arriva la prima missione in Mozambico.
Dopo aver effettuato la prevista profilassi con punture-vaccini-pillole, parto con la Brigata Alpina Taurinense (contingente di Uff., SU. e personale di leva che si è distinto e ha portato egregiamente a termine i compiti) da Torino alla volta di Roma. In ottobre tempo piovoso umido, indossiamo l’uniforme invernale, in testa il basco blu dell’O.N.U. In seguito a scali tecnici in Egitto, in Kenya e 10 ore circa di viaggio, in fase di atterraggio all’aeroporto di Beira, una delle tre-quattro città della zona, il comandante annunciava che c’erano dai 30 ai 40 gradi al suolo.
Dal finestrino incomincio a scorgere scenari fino a quel momento visti solo in documentari tv, sui libri o a scuola, che di lì a poco mi avrebbero portato a essere “un protagonista” in queste terre lontane e sconosciute, distese fra immense praterie con contrasti di colori vari, punteggiate da villaggi di capanne costruite con canne di bambù tenute insieme da un miscuglio di paglia e fango. Poi l’apparizione di un brulicare di bambini neri nudi intorno a un pozzo d’acqua che si baloccavano con “rudimentali” giocattoli ricavati da lattine che prendevano forma di un treno o di una macchinina trainata con un lembo di spago, correre dietro copertoni spinti e fatti rotolare con una bacchetta in legno, e tutt’intorno strade in terra battuta rossa, qualcuna asfaltata, percorse da auto, camion e bus fatiscenti semidistrutti, stracarichi di persone e materiali. Con la guida a sinistra, costituivano un vero pericolo, testimoniato dai frequenti incidenti stradali specie notturni, in quanto le strade erano in totale assenza di lampioni.
Quello era il nostro “corridoio di Beira” da pattugliare. Altri compiti riguardavano l’assistenza sanitaria assicurata dal nostro “famoso” ospedale da campo aviotrasportabile. Avevamo siti di oleodotti arrugginiti e una ferrovia da “far west” da sorvegliare. Lì c’era stata una guerra fratricida dai primi anni 80 fino al 1994 tra guerriglia (FRE.LI.MO.) ed Esercito locale (RE.NA.MO.), una tragedia della povertà nella povertà ai limiti della sopravvivenza umana per il potere politico della regione ex colonia portoghese.
I locali portavano i tratti somatici caratteristici delle tante persone “mulatte”. Balzava con immediatezza all’occhio una incredibile realtà discriminante fra chi viveva in città dotate di qualche ristorante-albergo-auto-bus e chi risiedeva nei villaggi rurali adiacenti e vicinissimi fra loro; gente che si spostava a piedi nudi sul bordo strada per chilometri.
Sono quanto mai vivi nella mia mente ricordi di tramonti da “mal d’Africa”, del pericolo di contrarre la malaria, delle insidie provenienti da insetti, zanzare, serpenti, scorpioni, ragni abituali compagni di tenda e accampamento.
Conservo il ricordo indelebile di un mio “sbaglio” quando dal finestrino dell’automezzo porsi una scatoletta di tonno aperta, tratta dal mio sacchetto viveri, a un bambino per strada; all’improvviso spuntò uno più grandicello che, strappandogliela dalle mani, lo fece sanguinare alle dita.
Di quando in quando rumorosi automezzi portavano in discarica gli avanzi giornalieri di cibo, materiale e vestiario: andavano scortati perché potevano essere aggrediti e saccheggiati da bambini e adulti (con tremendi liti tra di loro) che si aggrappavano ai mezzi in movimento, scene di una pietà, di una tristezza assoluta.
Unico momento critico occorse quando l’Esercito locale ci sequestrò, bloccandola, l’autocolonna di automezzi sul corridoio aeroporto di Beira. Dalla cabina percepivo spari e raffiche provenienti dalla testa della colonna. Via radio veniva emanato l’ordine di “stare calmi” e sulle nostre teste c’era già un viavai di elicotteri intervenuti. Per fortuna, lo capimmo quanto prima, era stata solo una “dimostrazione” dei soldati locali verso il loro governo per gli stipendi non erogati da mesi: avevano pensato bene di bloccare una colonna ONU per dare risalto alla loro azione.
Dall’11 marzo al 09 luglio 2000: Seconda missione, Kosovo
Partenza in nave mercantile dal porto di Savona. Dopo sette giorni e altrettante notti, sbarco al porto di Salonicco. Si prepara la mega autocolonna di automezzi con bandierine sventolanti tricolore, legate ai retrovisori, alle antenne radio e con le scritte KFOR sulle portiere-fiancate. Si attraversano i passi e i confini dalla Grecia (lunghe attese e molto pignolo in verità il controllo dei documenti per “sdoganare” verso il Kosovo, in quanto zona ortodossa…) alla Macedonia (FYROM). Attraversiamo una collina completamente spianata dagli americani per fare spazio alla base e all’eliporto per gli elicotteri d’attacco APACHE, fino ad arrivare a destinazione nella città di Pec, migliaia di km di strade tortuose. “Abito” in container di lamiera e plastica “corimec” adibiti ad alloggi per tre-quattro persone in brande a castello di metri 2 per 6; incastrati uno sopra l’altro, prendono la forma di un condominio nel villaggio di Gorazdevac.
Gli ultimi focolai di guerra si erano spenti nel dicembre 1999; case edifici palazzi, tutto distrutto; nell’aria l’odore acre di tetti bruciati, di morte, di putrefazione. Si attraversavano villaggi con muri ridotti a colabrodo, segni tangibili di esecuzioni/fucilazioni. In quel momento la tua mente immaginava i rastrellamenti di persone sbattute contro il muro dirimpetto. I sopravvissuti che incrociavi ti guardavano per dirti e farti capire: “dove eravate prima?”. Impressionante la ressa dei numerosi bambini che si aggrappavano alle portiere degli automezzi per chiederti “cioccolata”; serbo in particolare il ricordo di un bimbo che portava le scarpe almeno cinque misure in più del suo piedino, mi aspettava giornalmente fuori della base: alla fine ho deciso, sono andato a compragliene un paio nuove.
La bestialità dell’uomo non ha avuto limiti, non si è fermata davanti a niente nella corsa sfrenata per eliminare un popolo, una generazione, un'etnia senza pietà. Vedevi fosse comuni, buche e tanti cimiteri improvvisati a bordo strada, lapidi con foto e nomi scolpiti nel marmo, date di nascita e di morte di uomini e donne, ragazzini poco più che adolescenti e bambini in tenera età.
Eravamo lì per tentare di portare a buon fine un processo di pace, per pattugliare strade che dovevamo percorrere a “zigzag” perché ridotte a “gruviera” dalle enormi buche causate dai bombardamenti della NATO. Era nostro compito tenere a distanza Serbi e musulmani nelle loro enclave, sorvegliare Patriarcati e monasteri ortodossi da eventuali azioni vendicative di distruzione, come successe invece per le chiese e le moschee con minareti.
Dicembre 2000; terza missione: Durazzo (Albania)
Presi alloggio a ridosso di una spiaggia, credo fosse un’ex colonia fascista poiché c’era al centro del piazzale una statua in gesso di un bambino vestito “stile Balilla con l’inconfondibile saluto del braccio alzato”. Impressionante il numero di bunker in serie, intatti e dislocati lungo la spiaggia, rivolti verso l’Italia. Ero tornato indietro nel tempo, alla nostra “moda anni 70” guardando i vestiti, i capelli e i visi degli albanesi: un formicaio di persone allo sbando per strada, pronti a imbarcarsi su navi-barche-gommoni senza essere controllati. Guardo basito un treno a gasolio con carrozze fatiscenti, arrugginito senza vetri ai finestrini, stracarico di persone aggrappate alle maniglie e ai supporti esterni dei vagoni e delle porte, che attraversava lentamente Durazzo senza neppure un passaggio a livello. Le auto (solo Mercedes e modelli tipo sovietico) e i passanti si arrestavano “a vista” all’avanzare di quel treno che sognavo di guidare da piccolo; mi è rimasto impresso: ridotto a uno scheletro di ferraglia.
L’esperienza vissuta in Albania mi ha messo di fronte alla constatazione di tanta illegalità e contrabbando di ogni genere. Eravamo lì per garantire l’Ordine Pubblico, l’assistenza sanitaria e per presidiare il famoso “passo dell’esodo” attraversato dai profughi musulmani in fuga e cacciati durante la guerra in Bosnia sul confine Kosovo-Albanese. Ero pilota di un BV206 cingolato, unico mezzo tattico-logistico idoneo a circolare con temperature sotto zero e con le abbondanti nevicate in quell’area. Adibito al trasporto di uomini e materiali, portavo rifornimenti al nostro personale di guardia in un distaccamento-avamposto in quota sperduto e dimenticato da Dio, sul passo tra Puke e Kukes.
Dal 13 gennaio al 20 luglio 2005; quarta missione: Kosovo
“Abito” nell’aeroporto costruito e gestito dall’Aeronautica Militare italiana a Gjacova, in container come quelli già descritti.
A piccoli passi il paese rinasce grazie alla nostra continua presenza, ci specializziamo nelle attività di ordine pubblico antisommossa con giubbotti, manganelli, casco, scudo. Il “governo” locale chiede l’indipendenza dalla Serbia ma l’odio e le vendette non finiranno mai tra musulmani e serbi per via dei tanti atti ed episodi improvvisi di violenza tra le fazioni sparse nella regione, che ci costringono a intervenire. Nutro un particolare ricordo per un ragazzo musulmano mio interprete, che voleva scappare (una volta che la NATO avesse lasciato il paese) per lavorare in Europa: non si fidava di un Kosovo libero in futuro, temeva di dover subire le atrocità di cui era stato testimone.
Dal 26 luglio al 22 novembre 2006; quinta missione: Kabul (Afghanistan)
È la missione denominata ISAF (Forze di Assistenza e di Sicurezza Internazionale). Siamo qui per supportare il Governo locale con la consegna di pattugliare strade, addestrare la polizia e l’esercito locale e offrire aiuti umanitari. Una componente fucilieri di alpini Ranger-Parà-Aeronautica-Marina-Carabinieri, “La Task Force 45”, operava a stretto contatto con le Special Force Marines US Army per individuare-eliminare un nemico invisibile senza uniforme che vive e si confonde nella popolazione civile locale: gli “insurgent taliban”. Pericolo principale per le pattuglie-autocolonne di automezzi sono gli ordigni rudimentali piazzati a bordo strada, occultati nei muri, sotto i ponti, nella sabbia e nell’asfalto della sede stradale, nei piloni, guardrail, nelle auto (preferita, la Toyota Corolla), biciclette, moto, addosso e dentro gli animali e, naturalmente i “kamikaze” (si chiamano I.E.D., ordigni esplosivi improvvisati): esplodono con “l’input” inviato da un cellulare o radiocomando a distanza, a tempo, a strappo, con il peso dell'automezzo e con altre tecniche micidiali rudimentali, uno dei mezzi offensivi che, insieme alla guerriglia, ha permesso di sconfiggere l’Armata Rossa nei dieci anni di invasione sovietica, dal 1979 al 1989. Si alloggiava in caserme dismesse con finestre oscurate da sacchetti di plastica neri e fogli di carta o cartone. Un muro di sacchetti riempiti con terra procurava sicurezza dai tiri di cecchini o da schegge di razzi, perché con la complicità del buio i talebani si orientavano dove c’era qualche “lucetta che si muoveva” per dirigere le bombe da mortaio o i micidiali razzi Rpg sulla caserma.
L’Afghanistan è nello scacchiere politico strategico militare NATO, confina a nord con paesi della ex Unione Sovietica, a ovest con l'Iran, a est con la Cina, a sud con il Pakistan. È percorso da un territorio desertico montuoso che va dai 1000 ai 4000 metri di quota. Il caldo, la polvere e le improvvise tempeste di sabbia oscurano il sole e velano il cielo. Padrona è la siccità, pioggia e neve cadono d’inverno per appena due mesi l'anno, da dicembre a gennaio. Una cultura millenaria si sovrappone a paesaggi con contrasti di colori incredibili, il cielo nero buio (perché da terra c’è assenza di luce riflessa) stellato, attraversato dalla scia della galassia con costellazioni ben visibili: ti sdraiavi a terra per ammirare questo spettacolo della natura. Due o tre erano le città importanti, ma per il resto proliferavano solo aree rurali, villaggi di poche case costruite con fango paglia e sterco, il tetto a cunetta-mezzaluna che crollava sotto i tremendi acquazzoni, prive di illuminazione (soltanto candele o focolai). Dappertutto bambini che giocano e si lavano nell’acqua di rigagnoli o fiumiciattoli sporchi che attraversano i villaggi. Per bagno-wc una buca con lamiera fissata intorno. Qualche pecora, asino, mucca, cammello, contadini che tirano l'aratro a mano in un lembo di erba coltivabile. Poi, assenza di alberi, e ti chiedi “ma come fanno a nascere, a vivere, a curarsi, a istruirsi?”. La longevità si aggira in media sui 50/60 anni. Bambine adolescenti vengono date in spose per essere madri precoci fino ai 30 anni, ma è gente forte, bruciata dal sole, nata per combattere e difendere da secoli il proprio territorio, da generazioni avvezza alla cultura del “sistema tribale”.
Dal 19 dicembre 2007 al 12 giugno 2008; sesta missione: Kabul (Afghanistan)
È stata la missione ISAF di controllo del territorio e adibita ad attività prevalentemente CIMIC, Civil Military co-operation (cooperazione civile militare per gli aiuti umanitari), attività prevalentemente riservata a noi Italiani e per la quale l’Esercito ha dislocato un Reggimento nel trevigiano.
Si andava in giro per villaggi e aree rurali impervie dimenticate da Dio, dal mondo, dall’umanità, dalla civiltà, a distribuire (dopo preventivi accordi e solo con il consenso-benestare del Malek o Elder, il capo villaggio anziano del luogo) il materiale. Ricordo anche un trattore con piccolo rimorchio offerto in dono per lavorare e seminare la poca terra in erba. Ci occupavamo di distribuire vestiario, giocattoli, quaderni, matite, zainetti per i bambini; a volte dovevi voltare la faccia e distogliere lo sguardo per non incrociare i loro occhi che lasciavano vedere e leggere l’intensa sofferenza interiore: sguardi e visi le cui immagini non si cancellano più dalla tua memoria e rimangono permanenti nell’animo. Dovevamo anche industriarci a costruire pozzi per una conduttura di acqua potabile che avrebbe alimentato fontane con rubinetti. Di nostra competenza era, ancora, provvedere a edificare scuole con banchi, sedie e lavagne.
Al momento della distribuzione mi veniva un nodo alla gola: grande commozione nel leggere sui cartoni e sui pacchi le scritte “dono della ditta…provincia granda…Cuneo”, qualcosa che mi catapultava altrove, mi ricordava in quel momento da dove venivo, ma ero lontano, molto lontano dalla mia Patria e dalla mia amata Saluzzo.
Dall’11 giugno al 16 dicembre 2010: settima missione
Dall’aeroporto costruito dal contingente italiano a Herat, in elicottero raggiungo “Camp STONE” base logistico-operativa americana. Commovente il piccolo monumento nel piazzale alzabandiera dedicato all’omonimo Sergente, ucciso dai Talebani, che dà il nome alla base: il “classico” paio di scarponi, il fucile con baionetta puntato nella terra, sormontato dall’elmetto, come capita spesso di vedere nei film di guerra.
Condivido con spagnoli, sloveni e americani wc, docce, palestra, mensa, postazione internet (utile strumento per “distrarti” un attimo nel vedere e parlare con la tua famiglia attraverso un monitor) e il supermercato “PX” dove ti rifornivi, durante tutta la missione, di prodotti per l’igiene personale, gadget, accessori vari per migliorare il comfort. Abito nel “villaggio Italy” composto di baracche con tetti e pareti in legno, la stanza è un 2 mt x 2 mt (la lunghezza della branda) più un armadietto in tela per tutto il vestiario-equipaggiamento. Ti abituavi all’amichevole presenza di topolini che ti rosicchiavano tutto quello che era commestibile, e strani ragni di colore rosso-nero-verde-giallo-marrone. Impressionante il parco velivoli ed elicotteri e gli automezzi blindati antimine, dove si esprimeva tutta la potenza militare economica e tecnologica degli US Army. Con il comando nella base interforze “Camp Arena” di Herat, la BRIGATA ALPINA TAURINENSE al completo schiera i suoi Reggimenti ai confini con l’Iran, nell'area di responsabilità della provincia di Herat nell'ovest dell'Afghanistan. Al 1° Reggimento Artiglieria da Montagna il compito P.R.T. (materiali vari didattici, fondi per aiuti umanitari e ricostruzioni di scuole, pozzi. ecc.). Al 32° Reggimento Genio Guastatori era demandato il compito delle tantissime bonifiche riguardanti ordigni inesplosi trovati e/o occultati (granate di artiglieria, razzi, mine, bombe a mano), tutti residuati bellici di guerre passate, egregiamente manipolati e modificati per esplodere con tecniche già descritte. Altre incombenze erano i lavori campali nei villaggi e del tipo “sul campo di battaglia”. Una componente/squadra, presente dall’inizio della missione ISAF del Centro Cinofilo Esercito, utilizzava cani addestrati alla ricerca delle micidiali trappole mortali di esplosivo: tanta pietà verso questi umili fedelissimi servitori, per i lunghi viaggi nel trasporto con aerei-elicotteri-automezzi, nel vederli subire le condizioni ambientali in cui sono costretti a operare e, naturalmente, nel constatare le perdite per il loro compito specifico in cui vengono degnamente elogiati e onorati con onorificenze e resa degli onori.
La missione è durissima invece per le compagnie alpine autonome dislocate in fortini (F.O.B. compound trincerati con muri di sacchi a terra e filo spinato), container e shelter servizi, posto letto in bunker e mensa sotto tende di gomma gonfiabili ricoperte da reti mimetiche scenografiche per fare un po’ d’ombra e proteggerle dal sole e dalla vista dei cecchini, avamposti di confini sperduti ai limiti della sopravvivenza per le condizioni climatiche, con sbalzi di temperature che andavano nelle varie stagioni dell’anno dagli abbondanti meno 10-15-20 sotto zero ai 30-40-50 gradi permanenti di caldo secco, che ben sopportavi sotto il giubbotto antiproiettile con elmetto-fucile-pistola-munizioni addosso. I rifornimenti erano effettuati da autocolonne che venivano anche attaccate e saccheggiate o con paracadute da aerei o elicotteri CH 47 Chinook. Era essenziale tenere sotto controllo le condizioni igienico-sanitarie per acqua, viveri, servizi igienici, insetti e animali. Massima attenzione dovevano tenere desta, giorno e notte, le vedette di guardia sistemate su altane improvvisate con travi in legno, sacchetti a terra e reti mimetiche tipo Vietnam o sui mezzi blindati: era necessario difendersi dai continui attacchi con armi da fuoco di vario tipo dei Talebani che prontamente si ritiravano sotto la “pioggia di fuoco” dei nostri “angeli dal cielo”, gli elicotteri Mangusta dell’Aviazione-Esercito, che scortavano le pattuglie, le autocolonne e intervenivano durante le operazioni di aiuti umanitari CIMIC di rastrellamento-ricognizioni nei villaggi. Io sono comandato con il contingente O.M.L.T. (Operational Mentoring and Liaison Team) missione che riceve ordini e disposizioni diretti dallo S.M.E., coordinata e gestita dal Comando Truppe Alpine. In preparazione di questa missione ho frequentato un corso di 4 mesi “Combat” ad Aosta e, con l’ausilio di docenti/professori universitari e insegnanti militari stranieri veterani, ho studiato le “regole di ingaggio e l'approccio” psicologico-culturale-religioso con il soldato afgano, dal generale alla truppa, compito molto particolare e diverso dalle altre missioni in quanto operavi e ti trovavi a stretto contatto giornaliero. Particolare attenzione era da osservarsi nel periodo del “ramadan”, nel senso che dovevi evitare di mangiare-bere-fumare in loro presenza.
La qualifica a cui riporta l’iniziale “M”, che sta per mentor, parola che circolava già nell’antica Grecia, era riservata ai famosi insegnanti istruttori suggeritori consiglieri che, insieme ai contingenti P.R.T., è un fiore all'occhiello dell'Italia nelle missioni di pace all’estero. Non c’è altro Esercito o personale capace come noi, un lavoro giornaliero fatto con professionalità, passione, pazienza, attenzione e rispetto nei confronti della popolazione locale.
La caserma afgana era divisa da un muro con Camp Stone. Si varcava giornalmente un “check point” a piedi, attraversavi due ali di operai che lavoravano in base e che dovevano ancora essere perquisiti-controllati, e ti chiedevi: oggi “è andata” per il possibile pericolo “kamikaze”. Mio compito specifico era di addestrare un sottufficiale a gestire uomini-mezzi-addestramento-uffici di un Battaglione, ma mi confronto anche con altri ufficiali, sottufficiali e truppa i più anziani dei quali, i famosi mujaheddin (qualcuno mi faceva vedere le ferite di guerra che portava ancora sulla pelle) hanno combattuto i russi; i talebani, provengono da tante etnie diverse di cui le principali sono: pashtoon, tajik, hazara, uzbak.
L’alfabetismo è a livello dell' 80% nella truppa; i gradi non vengono dati per meriti-promozioni: se li comprano e li indossa chi sa un po’ leggere e scrivere oppure per anzianità-raccomandazioni-corruzione parentale o se li mettono in base all’incarico ricoperto senza tener conto della gerarchia. Nel pomeriggio era quasi impossibile addestrarli e/o rivolgere loro la parola, per via di quel “tabacco” che masticano durante il giorno. Adesso si ritengono nell’anno 1394 (conteggio dal calendario persiano), si vestono come ai tempi dei nostri primi anni ’70: qualche pantalone tipo occidentale ma soprattutto il tipico camicione lungo, sopra di questo un gilet o giacca per dimostrare la posizione sociale che rivestono. Sono molto permalosi, si offendono facilmente; tutti i giorni si abbracciano, si salutano e si tengono anche mano nella mano: prenderti per mano è una forma di amicizia nei tuoi confronti. L’ospitalità è sacra: non puoi rifiutare un loro invito. Parlano solo quando ti siedi e bevi il tè. A volte ti tocca mangiare riso con verdure kebab pecora senza posate, seduto a terra, parli loro attraverso l’interprete guardandoli sempre in faccia senza mai indossare occhiali scuri. Mai promettere qualcosa senza sapere se si può fare o dare (una lezione di vita per noi occidentali): rischi di compromettere la missione, le relazioni, l’amicizia, la collaborazione nell’apprendere/imparare. Ti chiedono come sta la tua famiglia (mai delle donne), se sei sposato, se hai dei figli. È una forma di rispetto in più se tu porti anche i capelli bianchi. Sono grandi oratori, ti parlano in forma diretta senza gesticolare né a voce alta, rimani affascinato.
Serbo un particolare ricordo del mio interprete, un ragazzo ventenne al quale era stato affidato un incarico molto rischioso: se lo avessero scoperto, i talebani non avrebbero esitato a ucciderlo (perché collaboratore della NATO), compresa la sua famiglia. Questi collaboratori vivevano infatti reclusi all’interno della base in baracche riservate solo a loro, andavano in permesso solo un mese all’anno per recarsi a trovare le famiglie lontane, ti seguivano come un’ombra al tuo fianco per tutto il mandato, instauravi un rapporto reciproco di piena massima fiducia in quanto era quell’ombra che “annusava” e ti avvertiva se avevi di fronte o andavi incontro a qualche pericolo o atto ostile. Prima del rientro ho lasciato al mio aiutante interprete la radio, lo stereo, il walkman, le scarpe, e lui nella sua povertà si è prontamente “sdebitato” regalandomi una “pasmina”, tipico foulard locale multicolore indossato per proteggere occhi, bocca e naso dalle tempeste di sabbia.
Ritorno “a baita” per affrontare e convivere con i nostri problemi ”occidentali”. Quello che mi è rimasto negli occhi e nell’animo di queste esperienze in una parte del mondo lo vorrei raccontare e vorrei far capire a tutti gli Italiani la bellezza insita nell’amare e difendere la nostra Patria. Consapevole di aver dato il meglio alle istituzioni nei migliori anni della mia gioventù, “metto lo zaino a terra”. Il rapporto professionale si chiude il 09 dicembre 2015 ma il legame sentimentale con l’Esercito e gli alpini resterà indissolubile. Termina un formidabile viaggio molto impegnativo, tortuoso, ricco di soddisfazioni, di esperienze, di positivi risultati e sfide, raggiungendo anche il massimo grado e qualifica apicale per un Sottufficiale. Un viaggio fatto purtroppo anche di terribili malinconici ricordi indelebili in onore dei tanti colleghi, anche del mio reparto, visti rientrare in patria in una bara avvolta dal tricolore. Episodi che potevano e dovevano far accrescere di più la stima e il rispetto, la professionalità e la vicinanza alle FF.AA. da parte dell’opinione pubblica italiana tutta, (capace anche di vilipendere la nostra Bandiera Nazionale) invece di “condannare” l’operato, la figura e la realtà giornaliera del mondo militare, con la frase “cosa fate, a cosa servite?”.
Un mondo, ripeto, composto dalla stragrande maggioranza di giovani diplomati-laureati strappati alle loro terre native di origine e sbattuti a migliaia di chilometri lontani per un lavoro “extrema ratio” legale.
Dopo aver cantato l’Inno Nazionale “Fratelli d’Italia” all’Alzabandiera mattutina, ultimo atto formale nell’ufficio del Comandante, Grande Uniforme Invernale con medaglie e sciabola, su un perfetto “attenti” braccio e mano tesa al cappello, saluto la Bandiera di Guerra del 1° Reggimento Artiglieria da Montagna e varco il portoncino d’uscita della Caserma Perotti in Fossano con il mio cappello alpino. Un “rammarico”, quello di non essere stato salutato (di persona o con una dedica, un “presente”) dal “datore di lavoro diretto” e cioè dalla Brigata Alpina Taurinense e dal Comando Truppe Alpine, i due comandi sovraordinati della nostra famiglia alpina, in cui mi sono interfacciato e rappresentato per tutta la carriera, per la catena gerarchica da rispettare e seguire, per le norme-disposizioni-ispezioni-ordini permanenti particolari rispetto alle altre armi-specialità della Forza Armata.
Le riforme, la società-gioventù-classe moderna, la burocrazia, l’informatica, la frenesia giornaliera, ci hanno fatto diventare un “numero di matricola” e ci hanno privato di quel contatto umano dei tempi passati, quando cioè faceva sempre piacere una chiacchierata prima di andare a casa, il “bicchiere della staffa”, la partita a carte al circolo, una pacca sulla spalla, un chiarimento, una stretta di mano, in qualsiasi occasione/luogo, anche quando sbagliavi, da parte dei superiori e comandanti ai vari livelli degli anni ’70-’80-’90. Comandanti che quando dovevano prendere decisioni, riunivano-ascoltavano-consultavano giornalmente i Sottufficiali, la cosiddetta “spina dorsale” di un Gruppo-Reggimento nonché dell’Esercito, perché assicuravano con l’esperienza maturata, e per generazioni, la continuità in tutte le branche-incarichi-uffici, “guidando” i giovani ufficiali-sottufficiali neo assegnati al reparto-ente.
Oggi non hanno tempo da “dedicarti”, anche se sei un loro prezioso collaboratore, ti parlano attraverso il tuo superiore diretto capo ufficio via mail o per telefono. Io ne ho cambiati circa quaranta, ho iniziato che erano più anziani di età di servizio e di esperienza, termino che sono molto più giovani di me (Generali di Brigata compresi) con carriere diverse alle spalle (tipo dirigenti, di passaggio, con percorsi già segnati e “sparati” ad incarichi di prestigio).
Mi sono tenuto dentro i consigli migliori che mi si potevano trasmettere per farne tesoro all’interno e fuori della caserma. Come ai tempi della leva obbligatoria, mi sarebbe piaciuto rivivere “l’ultima sporca” la notte del “silenzio fuori ordinanza”, struggente cerimonia-momento tanto atteso dal congedante fin dal primo giorno di “naja”. Ne ho assistito a tanti (anche perché erano regolarmente autorizzati dai comandanti che la presidiavano) con lacrime-abbracci-commozione-allegria, com’è giusto che sia per chi ha condiviso anni e anni con amici e colleghi momenti belli-brutti-tristi, in questa grande ma complessa famiglia.
Oggi tutto questo non si “pretende”; si fa solo il proprio dovere e, terminato l’orario di servizio, si esce in fretta dalla “porta carraia”, ognuno a casa propria.
Viva l’Italia, Viva l’Esercito, Viva gli alpini.
Saluzzo 09 dicembre 2015. Primo Maresciallo “Lgt” Gaetano GIUGLIANO
(Sezione Saluzzo – Gruppo Alpini Envie – Cuneo)