Nel 1960 mi trovavo a Merano a prestare servizio militare nella artiglieria da montagna del Battaglione VESTONE.
Il 3 febbraio 1961 andammo in alta montagna in val Venosta, verso Resia per il campo invernale, molto vicini al confine con l'Austria.
Il Comando ci aveva assegnato il compito di "battere la pista", c'era tanta neve quel giorno e ne stava cadendo ancora.
Eravamo il sottoscritto e altri sedici compagni e dovevamo preparare la pista per permettere, il giorno seguente, il passaggio con la batteria "impresa ardita" con il trasporto di pezzi su "barchini" condotti dai militari, chi ha fatto la naia alpina ne sa qualcosa.
Sembrava tutto filare liscio, ma qualcosa da lì a poco avrebbe sconvolto la comitiva.
All'improvviso, un rumore strano, segnala il distacco di una massa nevosa, era una slavina, ancora oggi a distanza di anni ho il suo cupo rumore nelle orecchie, travolge il gruppo di militari e li spinge verso valle, sommergendone una buona parte.
Chi rimase fuori da quella enorme massa nevosa diede l'allarme e prestò soccorso ai compagni sepolti.
Il sottoscritto rimase sotto, nella formazione in colonna ero il quinto, purtroppo chi mi precedeva fu ritrovato dai soccorritori con i cani della Guardia di Finanza ormai cadavere.
Chi mi ritrovò disse che avvistarono una "macchia nera", era il mio zaino, ero rivolto verso valle.
Per tanti anni mi rimproverai: "Perché sono svenuto?" - li avrei potuti salvare tutti.
Prima di sentirmi mancare il respiro, quando arrancavo con l'unica mano libera, ho messo le mie dita nelle racchette di "uno di loro", è questo che non mi perdono!
Ripensando al modo con il quale siamo partiti per "battere quella pista", senza nessuna garanzia di sicurezza, una "grave mancanza" per chi ci aveva ordinato la "missione", le cose essenziali per una traversata su neve fresca come la radio, la funicella "valanga", dov'erano? Noi, eravamo dei militari.
Non ricordo perfettamente il mio recupero dal momento che mi estrassero dalla neve, ma ricordo bene il momento in cui sulla strada del ritorno incontrai il mio colonnello Drocco, un piemontese.
Piangeva come un bambino, mi abbracciò forte e in uno stato di grande commozione per l'accaduto, chiese dei miei compagni.
Il mio stato confusionale e la mia agitazione non mi permisero di parlare, continuai a piangere, tutto questo durò parecchie ore e solo verso sera mi ripresi.
Mi dissero del ritrovamento dei miei compagni e che li avevano portati in caserma all'interno della cappella dove furono disposte le quattro bare e predisposto il picchetto d'onore.
Arrivò la notte e la trascorsi pensando alla mia famiglia, ai miei genitori, alla sorella, ai miei compagni, alla mia fidanzata. La conobbi ad Arcisate e poi sarebbe diventata mia moglie, che per una strana combinazione è nata a Curon Venosta, il paese che ha il campanile che emerge dal lago e dista in linea d'aria circa 2 chilometri dal luogo della disgrazia.
Al termine del campo invernale, mi concedono una licenza premio di 3 giorni più 2.
Il giorno seguente vado dal parroco, Don Aldo Bedetti, appena mi vide fece una grande accoglienza e volle conoscere tutta la vicenda, era già al corrente in quanto era stato informato dell'accaduto dal Comando.
Durante la predica nella S. Messa della domenica, il parroco, senza fare il mio nome, ha raccontato la vicenda ai parrocchiani e poi anche ai miei genitori, si sentiva in dovere di informarli ed era anche giusto.
Fino a quando sono rimasti in vita i miei genitori, di questa vicenda non mi hanno chiesto niente, ed io non ne ho mai voluto parlare, non avevo il coraggio e non volevo creare incomprensioni, non sembra vero, ma è andata veramente così.
Quei terribili attimi per molti anni li ho conservati nel cuore, dal 1971 ad oggi ho fissato un appuntamento con una lapide bianca, posata dall'esercito a ricordo, immurata sulla roccia lungo una strada (al tempo militare) con incisi nel marmo i nomi dei miei compagni così tragicamente periti, sento in cuor mio sia un dovere ricordarli.
Trascorre inesorabilmente il tempo, giorni, mesi, anni, nell'animo qualcosa si è risvegliato, la mente rincorre gli attimi di quella tragedia, il pensiero di fare qualcosa per ricordarli mi assilla, sì perché io ero rimasto miracolosamente vivo, ma non so cosa fare per conservare il loro ricordo.
Passano gli anni e questo "dover far qualcosa" lo sentivo sulle spalle come un pesante zaino, ma c'erano anche altri impegni, la famiglia, "meravigliosa", il lavoro, che occupa gran parte del tempo, la salute che fortunatamente mi ha accompagnato fino ad oggi e la sicurezza che un giorno ce l'avrei fatta.
Ed è a questo punto che avviene quello che io definisco, "il miracolo".
Mi trovavo per lavoro a Pogliana, una frazione di Bisuschio, situata a metà montagna e luogo di turismo nel periodo estivo.
Durante la discesa con il mio automezzo, transito davanti ad una cappelletta, mi soffermo perché ho notato qualcosa che attira la mia attenzione, il cancelletto è fissato con un solo cardine, non sono rimasto indifferente a questo particolare e così scendo, lo carico sul mezzo e mi avvio verso casa.
In quel breve tratto di strada, poche centinaia di metri, ho trovato la risposta a quel "qualcosa da fare" che andavo a cercare.
Nella mente un continuo frullare di idee, a luglio 2007 inizio i lavori, prendo le misure per realizzare un nuovo davanzale in pietra, sostituendo l'esistente in cemento.
Vado da Pasquale, che svolge la sua attività di taglio e lavorazione marmi, e inizio la ricerca della pietra che mi interessa, lui conoscendomi da diverso tempo, mi osserva e lascia fare.
Trovato l'oggetto, vado nel suo ufficio, consegno il disegno per realizzare il davanzale, durante la lavorazione dico all'amico che questo è un lavoro che non pagherò, con sguardo stupito e sapendo di avere a che fare con "un tipo un po' particolare" come me non commenta.
Prontamente gli spiego quello che sto facendo: "Hai presente quella cappella su per la strada di Pogliana?", la sto ristrutturando. Tutto si è chiarito, da quel giorno di pietre ne ho prese ancora tante, per questa disponibilità lo ringrazio tanto.
Nel frattempo ho spazzolato e verniciato il cancelletto, l'ho posato insieme al davanzale, nel mese di agosto proseguo con i lavori, tolgo il tetto e lo rimetto a nuovo, rimuovo l'intonaco deteriorato e lo ristabilisco.
Un giorno mentre effettuo lavori intorno alla cappelletta penso a come impreziosirla, mi viene l'idea di una panchina e l'ho realizzata con tanto di fioriera laterale.
Mi dedico ormai da qualche mese a quest' opera, non con continuità perché ancora lavoro, aiuto i figli nell'impresa e il tempo che metto a disposizione è "rubato" all'attività di famiglia.
Custodisco questo lavoro in segreto, ma un giorno trovo il coraggio di parlarne con un amico alpino che per problemi di salute ha trascorso molto tempo in ospedale, sono andato parecchie volte a fargli visita, poi finalmente lo dimettono e tutte le settimane vado a casa sua a trovarlo e parlare del più e del meno.
Al racconto di ciò che stavo realizzando, Pierino, è questo il nome dell'amico, si illuminava e mi guardava con gratitudine e nelle successive visite mi domandava a che punto ero.
Gli dissi: "Pierino, un giorno che ti senti meglio, ti porterò a vedere la cappelletta". E venne quel giorno, era una domenica mattina, con mia grande sorpresa lo trovai sulla porta di casa, era ottobre 2008.
Mi disse: "Andiamo a vedere l'opera".
Ero più entusiasmato io, sapendo quello che lui stava sopportando della sua malattia.
Arrivati sul posto, si guarda intorno e si avvicina alla cappella, avevo da poco costruito la panchina e mancava solo la "copertina" in pietra, incuriosito dalla sistemazione del manufatto, mi chiede come ho fatto a fare questo, a fare quello e io glielo spiego.
Poi si ferma, mi posa una mano sulla spalla e dice: "Gianni, sei proprio matto".
Ma quelle parole schiette dette da lui, sono state per me un complimento, per Pierino volevano dire tanto.
Ho continuato a fargli visita ogni settimana è sempre mi chiedeva: "A che punto sei?".
Aveva messo in programma che in primavera, accompagnato dalla moglie, avrebbe fatto visita alla cappella, purtroppo a fine gennaio, Pierino è "andato avanti".
Per me è stato un grande dispiacere, è stato l'unico alpino che nel corso dei lavori, nei momenti tristi, mi sosteneva moralmente, anche quando subivo sabotaggi, furto di materiali e attrezzi.
lui mi confortava e mi spronava a non mollare, per questo ti ringrazio, ciao Pierino.