Storie per piccoli e centenari



IL NONNO RACCONTA

STORIE PER PICCOLI E CENTENARI

Orazio Laudani

CONEGLIANO

MAGGIO 2019

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STORIE PER PICCOLI E CENTENARI

“nonno, racconta ancora…”

CONEGLIANO 2021



L’OCA PASQUALINA


Sul fiume Soligo, alle spalle della pieve, dove l’acqua forma un laghetto e poi una piccola cascata, vivevano numerose e colorate anatre germane, vari pesci e una solitaria oca bianca. Un ponticello attraversava il corso d’acqua e ogni giorno bambini e anziani si divertivano a gettare dall’alto briciole di pane, biscotti ed erba. Palmipedi e pesci iniziavano allora una corsa famelica per appropriarsi del cibo che cadeva. Ovviamente le anatre più veloci e aggressive avevano la meglio e perfino i pesci facevano concorrenza alle stesse. Insomma, ogni volta che dal ponticello cadevano gli alimenti, il laghetto si animava e si increspava formando piccole onde e si vedevano correre le anatre a gran velocità, mentre i pesci saltavano e facevano giri per accaparrarsi i bocconi. L’oca bianca, che era l’animale più grande, non faceva pesare la sua forza fisica e non aggrediva i suoi simili. Se qualcuno le portava via qualche mollica aspettava con pazienza di poterne mangiare altre. Viveva un po' appartata e spesso dormicchiava sulla riva e si capiva chiaramente che sentiva la mancanza di un compagno. All’inizio faceva parte di un gruppo numeroso, ma dopo qualche razzia e alcuni forti temporali con vento e fulmini, il gruppo si era disperso. Lei invece era rimasta al suo posto e continuava la sua vita di nuoto, ricerca del cibo, sole e pulizia delle penne. Un caldo mattino di agosto una bionda ragazzina di nome Sara, in compagnia dei nonni, si presentò sul ponticello con un bel panino da sbriciolare. Tutte le anatre, appena le molliche toccavano l’acqua, velocissime facevano piazza pulita e lei, l’oca bianca, si accontentava delle briciole dimenticate. Quel giorno l’oca, nel vedere quella timorosa bambina con gli occhi azzurri come i suoi, decise di fare amicizia. Cominciò a salire le scale che dal fiume portavano al ponticello e poi, con fare tranquillo e camminando vicino alla ringhiera, si avvicinò alla piccola. L’insolita visita mise in allerta nonna e bambina. “Non si sa mai, magari dà una beccata!” - disse la nonna. Ma il nonno fece il coraggioso e, porgendole un po' di pane sulla mano, vide che la nostra palmipede volentieri lo accettava. Toccò poi alla bambina fare lo stesso e nel medesimo tempo cominciarono le carezze e i colpetti sulla schiena e sulla coda. L’oca era proprio contenta di tutto ciò, anche se rimaneva un po' sulle sue e, dopo un po' di coccole, il tranquillo pennuto decise di prendere il volo e ritornare sull’acqua. L’amicizia però era ormai iniziata. A casa, con mamma e papà, la bimba raccontò di quell’oca selvatica che aveva fatto amicizia con lei. Anche i due fratelli di Sara, Pietro e Michele, erano curiosi e desiderosi di poterla conoscere. Speravano di fare amicizia con quell’interessante palmipede pensando anche di darle un nome. Dopo varie proposte decisero di chiamarla Pasqualina per quel suo fare allegro e amichevole. Non passarono che pochi giorni e i tre fratelli ottennero il permesso di ritornare al laghetto in compagnia dei nonni per incontrare Pasqualina. Questa volta si erano preparati bene per l’evento e avevano portato pane, grissini e biscotti. Dal ponticello i tre generosi benefattori cominciarono a lanciare nell’acqua il cibo. Subito le anatre e i pesci iniziarono le loro scorribande e, attratta da tanta bontà, arrivò pure una colonia di piccioni. Per ultima giunse anche Pasqualina. Preferiva i biscotti che, con una tecnica consolidata, immergeva nell’acqua e poi, una volta ammorbiditi, li mandava giù. Quando i ragazzi si avvicinarono alla riva l’oca bianca saltò sull’erba e si fece coccolare per benino dagli stessi che erano emozionatissimi. I nonni scattarono anche delle foto che poi fecero il giro dei parenti. Insomma l’oca Pasqualina era diventata una specie di star! La cosa andò avanti per diverso tempo fino a quando una mattina l’oca sparì. I tre ragazzi cercarono in tutti i modi di trovarla e iniziarono anche a chiamarla per nome, ma di Pasqualina neppure l’ombra. Sara però vide che in mezzo ai canneti c’era una macchia bianca. Era Pasqualina che sembrava dormisse nel suo nido. Appena l’oca riconobbe la bambina si alzò, sbatté le ali e, meraviglia delle meraviglie, sotto di lei apparvero otto uova bianche. Pasqualina ci teneva a far notare la novità, ma subito arrivò il suo compagno, un robusto maschio, pronto a difendere il nido. I ragazzini perciò si allontanarono contenti che finalmente la loro oca aveva trovato il compagno, ma anche un po' dispiaciuti di aver perso un’amica. La nonna però spiegò ai nipoti che appena l’oca terminava di covare e di accudire i piccoli sarebbe poi stata sicuramente contenta di ricevere nuovamente le loro coccole. “E quando nasceranno le ochette?”, chiesero in coro i bambini. “Fra un mese”, rispose il nonno, “ma per essere sicuri torneremo qui fra cinque settimane e vedrete che Pasqualina sarà attorniata da otto piccole paperelle”. Ai ragazzi un mese sembrava un secolo, ma non si poteva fare diversamente. La natura infatti ha le sue leggi che nessuno può cambiare. Passarono le interminabili cinque settimane e i nostri tre ragazzi tornarono finalmente al laghetto curiosi di conoscere le ochette. Con dolce sorpresa Pasqualina era proprio lì, attorniata da tante agilissime ochette, tutte bianche come lei, che nuotavano e quasi si muovevano a scatti nell’acqua. I bambini chiamarono in coro Pasqualina e nel contempo cominciarono a lanciare biscotti nella sua direzione. Il gruppo dei volatili iniziò la corsa verso i pezzetti di cibo. L’oca si avvicinò alla riva come se volesse salutare i suoi amici già riconosciuti. Nel contempo osservava con attenzione la sua nidiata per difenderla dalle altre anatre pronte a portar via il cibo ai suoi piccoli. Pasqualina aveva un dilemma: o farsi coccolare dai suoi tre amici o accudire i suoi piccoli. La famiglia però veniva prima e subito si allontanò assieme alle sue ochette che con maestria le saltarono sulla schiena una dopo l’altra. Nel vedere quella specie di oca-traghetto i ragazzi, ma anche gli altri visitatori dello specchio d’acqua, fecero sorrisi e commenti di meraviglia e Sara anche un applauso. Pasqualina era veramente uno spettacolo!







LA FELICITÀ NEI PALLONCINI




Una mattina di primavera, una maestra di quinta elementare chiese ai propri alunni se erano in grado di definire la felicità e i ragazzini cominciarono subito a spiegare cosa fosse per loro quel sentimento. Per alcuni era l’incontro con i genitori, con gli amici o con i nonni. Per altri invece consisteva in una bella gita al mare con un pranzo e un gelato. Per due alunne la felicità era la domenica perché si stava a casa con mamma e papà e ci si alzava più tardi. Altri ancora dicevano che la felicità era prendere un bel voto per ricevere poi i complimenti in famiglia. La maestra frenò subito gli entusiasmi e consegnò loro dei palloncini tutti dello stesso colore. Ognuno doveva scrivere sul suo palloncino a stampatello e con un pennarello blu, per non fare differenze, il proprio nome per poi riconsegnarlo alla maestra. Questa successivamente incaricò il bidello di portare tutti i palloncini autografati in palestra e disperderli sul pavimento. I ragazzi quindi furono portati in palestra con l’invito di trovare ognuno il proprio palloncino in tre minuti. La palestra era molto grande e il tempo era troppo poco perciò nessuno, malgrado gli spintoni e le corse, riuscì a trovare il proprio palloncino. Allora l’insegnante cambiò la regola e disse che quando un alunno prendeva un qualsiasi palloncino doveva leggere forte il nome che trovava scritto e consegnarlo al proprietario. Al via, tutti si tuffarono sui palloncini e ci fu un vociare di nomi e poi di rincorse per consegnare e prendere i palloncini. In appena due minuti tutti avevano il loro palloncino. La maestra riportò in aula gli alunni e chiese loro di spiegare perché nel primo tentativo nessuno aveva trovato il proprio palloncino mentre nel secondo tutti c’erano riusciti. Angelica, la bambina più agile del gruppo, disse che nel primo tentativo nessuno comunicava con gli altri mentre nel secondo c’era la collaborazione. Antonio, un bambino virtuoso e sensibile, spiegò che nel secondo gioco ogni bambino era costretto ad aiutare gli altri e poi anche lo stesso ne traeva vantaggio. La maestra chiarì che la felicità piena non esiste nella solitudine e anche quando siamo pieni di gioia sentiamo il bisogno di condividerla. Pure nei giochi virtuali dei social si avverte la necessità di interagire con qualcun altro, fosse anche il computer. “Insomma” - continuò la maestra - “l’uomo è un essere socievole per natura e sente il bisogno di incontrarsi e comunicare con i suoi simili. Anche gli animali domestici ci fanno compagnia, ma non riescono a sostituire gli affetti personali verso i parenti e gli amici. Infatti durante questo lungo periodo di pandemia abbiamo sentito tutti il bisogno di ritrovare i compagni e gli amici. Per concludere possiamo dire che i palloncini rappresentano la felicità: ognuno la trova donandola agli altri. Tutti noi abbiamo sentito dentro tanta gioia quando siamo riusciti a fare contento qualcuno, se abbiamo aiutato un compagno o abbiamo fatto del bene agli altri. Infatti tante persone fanno del volontariato e aiutano gratuitamente coloro che hanno bisogno di compagnia o di servizi. Insomma se volete essere felici non siate egoisti, ma altruisti e nella gioia donata agli altri troverete la vostra felicità. Anzi ne troverete di più perché c’è più gioia nel donare che nel ricevere” .





PIÙ GIOIA NEL DARE



In tempo di coronavirus nessun settore a livello sociale era stato risparmiato dalla crisi. Superata l’emergenza sanitaria con tanti lutti e malati, rimaneva da affrontare quella produttiva con la perdita di tanti posti di lavoro. Anche il sindaco di una comunità montana legata al turismo, notando le difficoltà dei propri cittadini, decise per incoraggiarli di inviare a tutti i residenti, compresi i pochi turisti presenti, una lettera che fece recapitare tramite il messo comunale. Nella missiva il primo cittadino propose il racconto di seguito riportato: “Cari cittadini, in un paesino di montagna simile al nostro si era scatenata una grave crisi economica e quasi tutti gli abitanti erano indebitati gli uni con gli altri. Una mattina una famiglia di coraggiosi turisti si presentò in un albergo del centro del paese chiedendo una camera. Giulio, l’albergatore, con estrema gentilezza li accompagnò a visitare alcune stanze della sua struttura e il cliente, fatta la scelta, insistette nel dare una caparra di duecento euro anche se non richiesta. Alla fine Giulio accettò. Consegnato l’anticipo, il turista con la propria famiglia si allontanò dall’hotel per una passeggiata. L’albergatore tirò un sospiro di sollievo è tra sé e sé pensò: “finalmente qualche cliente che addirittura paga in anticipo”. Si ricordò che Carlo, il suo fornitore alimentare di fiducia, aspettava da tempo proprio la somma di duecento euro a saldo di un conto pregresso. Subito andò a trovarlo e gli consegnò il dovuto. Ricevuto il denaro anche Carlo fece memoria di un suo debito verso il trasportatore di prodotti alimentari e gli anticipò la somma appena ricevuta. Anche quest’ultimo aveva dei debiti con un’officina di riparazioni e consegnò la stessa cifra all’amico Antonio, suo meccanico di vecchia data. Pure Antonio aveva dei conti in sospeso. Il primo era proprio con Giulio, albergatore dell’hotel del centro città, per aver fatto soggiornare dei parenti poco prima che arrivasse la pandemia. Interruppe il lavoro, si recò nella hall dell’albergo, ma non trovò nessuno. Però, avendo fretta di rientrare nella sua officina, lasciò la somma su un lato semi-nascosto del bancone con un bigliettino di spiegazione. Neppure il tempo di girare l’angolo che Giulio arrivò e notò subito il biglietto e la somma. Rimase sorpreso e contento del “regalo” inatteso. Mentre stava meditando sugli avvenimenti di quella mattina arrivò una telefonata. Era il cliente che gli aveva dato l’anticipo che, con voce costernata, gli comunicava di dover rientrare a casa per un motivo di forza maggiore. Era costretto, quindi, a dare disdetta e rimandare il soggiorno. Giulio voleva riconsegnare l’anticipo ma il turista rifiutò insistendo di tenerlo in sospeso perché alla prima occasione sarebbe ritornato”. A questo punto la lettera del sindaco finisce così: “Nei periodi bui e di emergenza ci salva la solidarietà e la generosità. In questo racconto tutto iniziò da un anonimo e generoso turista e poi, via via, ognuno ha mantenuto questa catena di solidarietà e di fiducia. Vi invito ad essere ottimisti per il futuro e solidali con il prossimo se vogliamo superare questa crisi”. Anche don Tarcisio, il parroco del paese, aveva ricevuto la lettera del Sindaco e nell’omelia della Messa domenicale commentò positivamente ai suoi fedeli la missiva del primo cittadino per poi concludere con la frase di Gesù che non viene riportata nei vangeli, ma che solo San Paolo ricorda negli Atti: “C’è più gioia nel dare che nel ricevere”.





IL SOGNO



Nell’elegante ristorante di una nota località balneare, all’ora di pranzo due famiglie si trovarono con i tavoli vicini e nello scambiarsi un cenno di saluto i due mariti si guardarono negli occhi e poi uno di loro esclamò: “Antonio, ciao, come stai?”. “Sto bene Angelo!”, rispose l’altro. E subito a stringersi la mano e a darsi delle pacche sulle spalle. Poi la presentazione delle rispettive mogli e dei figli. Dopo le prime schermaglie vocali si decise di unire i tavoli per creare così un’atmosfera più familiare. Angelo e Antonio si sedettero vicini. Erano due amici di università, anche se di facoltà diverse, uno adesso era un bravissimo ingegnere e l’altro un rinomato neurologo. Dopo i convenevoli Angelo disse: “Questa notte ho fatto un sogno premonitore, nella visione era chiaramente evidente che ti avrei incontrato proprio in un ristorante”. “Sono contento di averti incontrato” , disse Antonio, “ma lasciamo stare i sogni”. “Perché?” - intervenne Chiara la moglie di Angelo. “A volte i sogni si avverano!”. Il neurologo, da esperto, spiegò che il sogno fa parte delle attività fisiologiche umane e che anche gli animali sognano. L’attività onirica serve solo a rielaborare gli avvenimenti vissuti e a catalogarli perché il nostro cervello si riposa pochissimo, praticamente mai. Angelo replicò subito: “Vuoi dirmi che i sogni non servono a nulla o quasi?”. “Più o meno”, disse Antonio, “altrimenti rischiamo di far confusione tra fantasia e realtà”. “Eppure” - riprese Angelo - “il cervello, come ben sai, è talmente complesso che non credo possiamo catalogare tutte le sue attività”. “Certo”, replicò Antonio, “il nostro encefalo rimane molto misterioso, ma sui sogni non possiamo aggiungere tanto; è tutta una questione di collegamenti nervosi, cioè di sinapsi”. Chiara, ancor più incuriosita dell’argomento, si buttò nella mischia onirica e chiese ad Antonio: “Come si può spiegare a questo punto il sonnambulismo? Io da piccola mi alzavo dal letto e dormendo camminavo per la casa e una volta ho pure tentato di uscire girando le chiavi della porta principale. Per fortuna che mia madre, avvertita dai rumori, si era già alzata e così fui bloccata appena in tempo”. “Il nostro normale ciclo del sonno” - precisò Antonio - “ha fasi distinte, dal sonno leggero al sonno profondo. Durante la fase profonda (REM) che vuol semplicemente dire che gli occhi si muovono rapidamente, si sogna con intensità. Ogni notte la gente passa attraverso vari cicli di sonno REM e non-REM. Dormire in piedi (sonnambulismo) si verifica più spesso durante il sonno profondo, di solito all’inizio della notte. La causa nei bambini è misteriosa e può avere a che fare con la fatica, la mancanza di sonno o l’ansia. Da adulti il fenomeno è più raro e può avere a che fare con disturbi fisici o psichici”. “Oh” - disse Angelo – “si vede che sei un esperto del settore, ma io sono un sognatore incallito e rimango convinto che i sogni, a volte, più della realtà, hanno cambiato il corso della storia!”. “Addirittura!” - esclamò Antonio. “Vuoi dirmi che la storia è stata fatta più dai sogni che dalla realtà?”. “No certamente” - continuò Angelo - “ma a volte succede e mi spiegherò meglio. Hai visto nella città di Arezzo i dipinti nella chiesa di san Francesco?”. “Non ricordo bene, non sono un appassionato di pittura”, rispose Antonio. Sua moglie Sara, amante dell’arte, intervenne: “Io mi ricordo bene, ci sono tante opere di Piero della Francesca”. “Esatto!” - riprese Angelo. “Ebbene in questo insieme di dipinti si trova un affresco che si intitola “Il sogno di Costantino”. E’ un’opera straordinaria per l’accuratezza e la forza dei chiaro-scuri e ricorda appunto il sogno che fece il grande condottiero romano prima dello scontro finale a ponte Milvio, a Roma, contro Massenzio. Sognò il simbolo cristiano della croce e sentì la voce “In hoc signo vinces”. Costantino obbedì a quel sogno e cambiò l’insegna del proprio labaro segnandolo con la croce di Cristo e così fecero i soldati. Vinse lo scontro contro Massenzio con forze nettamente inferiori, meno della metà rispetto a quelle dell’avversario e poi l’anno dopo diede ai cristiani, con l’editto di Milano del 313, la libertà di culto e così terminarono per loro le persecuzioni. Il cristianesimo che fino ad allora era escluso e perseguitato, dopo questo episodio entrò ufficialmente nella storia e cambiò le sorti dell’Europa e del mondo intero”. “Ci racconti di questa battaglia?” - chiesero curiosi i bambini che stavano attenti al dibattito. Riprese soddisfatto Angelo: “Le truppe di Costantino procedevano verso l’esercito di Massenzio che era ad attenderlo subito fuori Roma, in una zona dove adesso c’è la RAI e si chiama ancora con il nome latino di Saxa Rubra (sasso rosso). Dopo alcune scaramucce la battaglia vera avvenne a ridosso di Ponte Milvio. Bisogna premettere che Costantino, come accennavo prima, quando si trovò nella zona denominata Labaro, la notte prima dello scontro, ebbe in sogno una misteriosa visione, una croce di luce vicina al sole che recava la scritta “In hoc signo vinces” (con questo segno vincerai). Dopo tale sogno decise di portare in battaglia il simbolo cristiano della croce. Furono questi i primi crociati della storia. Lo scontro decisivo avvenne il 28 ottobre del 312. Massenzio commise l’errore di schierare i suoi uomini con le spalle al Tevere, sicuro di vincere per lo strapotere numerico del suo esercito. Lo scontro fu molto cruento. Dopo un’iniziale incertezza, prese una brutta piega per Massenzio che tentò di ripiegare e frapporre il fiume tra ciò che restava dei suoi uomini e l’esercito di Costantino. La manovra però si trasformò in un disastro nel quale morì annegato lo stesso Massenzio che portava una pesante armatura. Il suo corpo venne successivamente recuperato e la sua testa portata in parata alla vista di tutti in segno di spregio. Dopo questo scontro Costantino rimase l’unico imperatore d’occidente. Il Senato volle accordargli il trionfo ed il vincitore, pur accettandolo, pretese che non si svolgesse secondo la ritualità pagana, quindi senza offerta finale al tempio di Giove Ottimo Massimo. Con il cristianesimo si costruirono, oltre alle grandi opere di culto, le nostre chiese che spesso sono tesori d’arte, ospedali, scuole per i poveri e farmacie. La Chiesa dette un grande impulso anche alla musica e all’arte. Non per niente l’Italia possiede oltre il 50 per cento di tutte le opere d’arte del mondo. Non a caso siamo “Il bel paese”. Ecco un sogno che ha cambiato la storia. Secondo me i sogni, a volte, sono canali di grazia verso Dio. Non siamo solo biochimica, ma anche spirito oltre la materia”. “Ho capito dove vuoi parare!” - disse Antonio. “Io però sono come Aristotele che nel sogno non vedeva rivelazioni divine ma piuttosto il rilascio di stimoli sensoriali che avevano interessato il corpo durante la veglia. Ma, a parte questo fatto, quali sono gli altri sogni che hanno cambiato la storia?”. Riprese Angelo: “Se leggi la Sacra Scrittura vedrai quanti sogni hanno deviato il corso degli avvenimenti. Dai Magi avvertiti in sogno di non ritornare da Erode che li aspettava, a San Giuseppe che avvertito in sogno fuggì poi in Egitto per salvare la Sacra Famiglia e che, sempre in sogno, aveva conosciuto l’incarnazione di Cristo nella Vergine Maria. Un altro Giuseppe, figlio di Giacobbe, durante la prigionia in Egitto, divenne un apprezzato interprete di sogni, così come il profeta Daniele alla corte di Nabucodonosor. Con questo, ovviamente, non possiamo cadere nel banale, affermando che ogni sogno è una divinazione”. “Meno male che c’è un limite ai sogni premonitori!” – disse Antonio. “Io concordo con Dostoevskij quando dice: “Sorridete per l’assurdità del vostro sogno e sentite nel contempo che nelle trame di questa assurdità si racchiude un qualche pensiero”. Uno dei figli, con disarmante semplicità, disse: “ È vero che i sogni si avverano! Tante volte sogno di mangiare cioccolata e dolci e la mattina la mamma me li fa trovare sulla tavola prima di andare a scuola”. “ La bocca della verità!” – disse Angelo. “ O della golosità!” - rispose Antonio. E tutti scoppiarono in una fragorosa risata




DIEGO PANONE


All’inizio per tutti era semplicemente Diego ed era molto contento di possedere quel nome. I genitori lo avevano chiamato così perché erano affascinati dalla storia del primo santo messicano Juan Diego ed inoltre molti personaggi famosi si chiamavano con quello stesso nome. Per lui, studente delle scuole medie e per i suoi compagni, quel nome oltretutto veniva associato al vecchio calciatore Diego Armando Maradona e anche all’attaccante Diego Costa. Come alunno era abbastanza impegnato, partecipe e collaborativo, insomma uno studente attivo e responsabile. Una sua speciale peculiarità era la passione per i panini e al momento della ricreazione, momento magico, era il primo a scattare fuori dalla classe e a scartare in mezzo al giardino scolastico il suo bel panino che era ogni giorno diverso dai precedenti: dal panino al prosciutto a quello con il formaggio, da quello con il salame a quello con il tonno e le cipolline, dalla bresaola con grana al pomodoro e mozzarella. Non solo, alla fine tutto veniva annaffiato da un gustoso succo di frutta. Insomma Diego era diventato con il tempo l’invidia dei suoi compagni perché al momento della ricreazione tutti desideravano addentare il suo robusto e ricco panino. Ecco perché, in men che non si dica, quasi tutti lo chiamarono “Diego panino”. Un giorno però tre suoi compagni organizzarono un piano d’assalto per sottrarre il delizioso boccone al loro fortunato compagno. Quando Diego prima della ricreazione chiese di uscire per andare in bagno, i compagni con mano lesta sostituirono il suo panino con un altro di pane vecchio e nient’altro. Al ritorno Diego non si accorse di nulla ma in ricreazione, al momento di addentarlo, si rese conto del tranello e in fondo al giardino scolastico vide tre suoi compagni che si spartivano un bellissimo panino con prosciutto crudo, mozzarella e pomodoro. Diego andò su tutte le furie ma i compagni, leccandosi i baffi e ridendo, dissero che il panino era ottimo e che all’indomani avrebbero voluto il bis. Diego ingoiò amaro e fece finta di niente. Per un periodo, quando andava in bagno, si portava dietro anche il panino e tutti ridevano perché dicevano che poi questo diventava puzzolente. Un giorno però il nostro paninaro, stanco delle battute ironiche, decise di vendicarsi e rendere pan per focaccia. Una mattina arrivò in classe con tre panini. Tutti i compagni si passarono l’informazione e si accordarono per tentare di arraffarne almeno due. Poco prima della ricreazione Diego, facendo lo gnorri, chiese di poter uscire dall’aula per recarsi ai servizi e appena si allontanò i compagni gli trafugarono i tre panini. Al ritorno Diego continuò a far finta di niente ma in cuor suo era contento che i compagni fossero caduti nel tranello. I tre panini infatti erano a base di sale, cren piccantissimo e olive verdi appena raccolte. Appena usciti all’aperto i tre furbi predatori addentarono i panini, ma subito cominciarono a fare smorfie di nausea, lacrime di dolore e lamenti per il bruciore. Il ragazzo che aveva addentato il panino con le olive avvertì per ore quel sapore amarissimo che gli allappava il palato e la lingua. Questa volta Diego si era tolto la soddisfazione della vendetta, ma la cosa non passò inosservata agli insegnanti che punirono tutti e quattro gli alunni: Diego per aver portato i panini micidiali e i tre compagni per il furto. A casa i genitori di Diego non furono contenti dell’accaduto e accusarono il figlio di aver usato la vendetta come metodo spiegando che occorreva controllare l’istinto vendicativo. “La miglior vendetta” - disse la mamma - “è il perdono!”. Diego però non riusciva a capire e chiese cosa dovesse fare oltre che subire i furti. “E’ semplice”, riprese la mamma, “in un certo senso i compagni ti hanno fatto un complimento e hanno apprezzato i tuoi panini. Certo quello che hanno fatto è riprovevole e va condannato, ma diamo loro una chance perché ti rispettino in futuro”. “E cosa dovrei fare?”, disse lo studente. “Ringraziarli per avermi soffiato il panino? E le risate? Tutti mi prendevano in giro!”. “No”- replicò la mamma. “Visto che loro ci tengono ai tuoi panini, per riappacificare gli animi, offriremo a tutta la classe un bel panino a testa e vedrai che non ti chiameranno più Diego panino”. Il ragazzo era un tantino perplesso per tanta generosità ma, alla fine, si convinse e il giorno prima delle vacanze estive avvisò i compagni che all’indomani, in segno di amicizia, avrebbe portato dei panini per tutti. Qualcuno, meravigliato da tanta generosità, temeva si trattasse di una burla tipo quella con il cren e il sale. Intervenne però l’insegnante assicurando la classe della genuinità dell’avvenimento perché aveva parlato con la mamma di Diego. Infatti, il giorno successivo, Diego arrivò con due zaini: uno per i libri e l’altro pieno zeppo di panini robusti con gusti assortiti. Tutti i compagni esplosero in un poderoso battimano e in ricreazione erano tutti soddisfatti dei succulenti panini farciti. Da quel giorno il nostro eroe si chiamò per tutti “Diego Panone”.






IL “DITO DI DIO”


Per gli amanti della montagna l’espressione “Dito di Dio” rimanda ad un’ardita cima, alta 2600 metri, del massiccio del Sorapiss. Una vetta delle nostre Dolomiti, vicino Cortina, che in lontananza assomiglia appunto ad una mano con un dito che indica il cielo. Alla base di questo grande spuntone di roccia si trova un piccolo lago tra i più belli al mondo: il lago di Sorapiss. Le sue acque sono cangianti e assumono l’aspetto opalescente di un turchese lattiginoso grazie ai minerali provenienti dalla montagna che le sovrasta. Uno specchio d’acqua di un indescrivibile colore, una sorta di occhio ceruleo ai piedi del “Dito di Dio” che fa da cornice alla montagna ed esalta quell’apparente tentativo della vetta di raggiungere il cielo. Ma perché l’uomo ha voluto chiamare questo dito di roccia “Dito di Dio” ? Evidentemente di fronte alla forza, alla bellezza e alla grandezza della natura, l’uomo si riconosce piccolo e intuisce che Dio si manifesta anche nella creazione. Nel 1999 il telescopio spaziale Hubble, osservando la nebulosa Carena distante 8.000 anni luce dalla Terra, scoprì un particolare: una nube cosmica, retroilluminata da una stella, che assomiglia ad una mano con un dito proteso, subito battezzata “Dito di Dio”. La Nasa nel 2014 scoprì una pulsar, una stella di neutroni a forma di mano, che gli astronomi si sono affrettati a chiamare “Mano di Dio”. Se si aggiunge, inoltre, che la nebulosa Elica è stata definita con l’appropriata espressione “ Occhio di Dio” e che l’imprendibile bosone di Higgs è stato chiamato “particella di Dio”, sembra quasi che la scienza, anche se non tutta, si faccia ispirare dalla fede e che cerchi Dio nella natura o nel cosmo. Leggendo la Sacra Bibbia troviamo varie volte, sia nel Vecchio Testamento come nel Nuovo, l’espressione “ Dito di Dio”. È scritto infatti: «Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissato» (Salmo 8,4). Il dito di Dio indica perciò la potenza che Dio usa per creare l’universo o salvare il suo popolo schiavo in Egitto: «Allora i maghi dissero al faraone: È il dito di Dio!» (Esodo 8.15). Il dito di Dio può diventare anche strumento di giustizia: «Apparvero le dita di una mano d'uomo, che si misero a scrivere sull'intonaco della parete del palazzo reale, di fronte al candelabro, e il re vide il palmo di quella mano che scriveva» (Dn 5,5). Il simbolo del dito di Dio nel Nuovo Testamento è applicato a Gesù che dona salvezza, trasmette la potenza di Dio e vince i demoni : “Se invece io scaccio i demòni con il dito di Dio, allora è giunto a voi il regno di Dio.” (Lc 11,20). In un altro passo Luca narra che per due volte "Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra" (Gv 8, 6.8). Si tratta dell'episodio dell'adultera che stava per essere lapidata e che Gesù, con il suo silenzio e poi con la sua parola, salva. Che cosa abbia scritto per terra non lo sappiamo. Ma il dito di Dio più visto e più rivisitato al mondo è certamente quello di Michelangelo nella creazione di Adamo della Cappella Sistina. Nello straordinario affresco si nota la forza e la potenza del dito di Dio contro quello più flesso e quasi cadente di Adamo. Come a significare che l’uomo non sa raccogliere tutto il progetto d’amore del Creatore. Nel film storico “Il Tormento e l’Estasi” il Papa Giulio II, impersonato dall’attore Rex Harrison, rimprovera Michelangelo ( Charlton Heston) di aver dipinto Adamo sereno e pacifico mentre nella realtà – si dice nella pellicola - l’uomo è violento, aggressivo e a volte crudele. Quindi Michelangelo avrebbe dipinto un Adamo falso. L’artista si difese dicendo che aveva dipinto Adamo così come era nel progetto divino in origine e solo dopo, allontanandosi da Dio, l’uomo divenne cattivo e perciò malvagio per sua volontà. Quindi, alla luce di tutto ciò, si può dire che la vera Scienza e l’arte concorrono alla scoperta di Dio.






DANIELE


Daniele era un ragazzo timido e introverso. A scuola, per quel suo carattere schivo e poco esuberante, non riusciva ad avere tanti amici e nei giochi spesso rimaneva escluso, ma lui non protestava mai. Il suo carattere mite gli faceva accettare alcune tristi situazioni. Spesso lo vedevi pensieroso e distaccato e, pur essendo giovanissimo, aveva già subìto dalla vita dure esperienze che lo avevano fatto maturare in fretta. I problemi personali, i diverbi e le incompatibilità dei suoi genitori avevano fatto sì che da piccolo venisse dato in affido. Fu così che Daniele si trovò in un’altra famiglia che certo gli voleva bene, ma che non riusciva a cancellare in lui il ricordo della prima. Il nostro adolescente non era risuscito a farsene una ragione. Quasi tutti i suoi compagni avevano il papà e la mamma che vivevano con loro. Lui invece si trovava in un’altra famiglia ed era combattuto da questa duplice realtà che, a volte, viveva in silenzio con un senso di colpa. Si chiedeva se fosse stato qualche suo inavvertito comportamento a generare la frattura nei suoi genitori. A volte pensava di non essere stato d’aiuto a risolvere la triste tensione tra mamma e papà sfociata poi nell’affidamento. Pur essendo contento delle attenzioni e dell’affetto che riceveva nella nuova famiglia, il ricordo di mamma e papà emergeva continuamente. Portava sempre dentro questa pena del cuore. Ma un giorno un tragico destino troncò i suoi progetti, i suoi sogni e la sua giovanissima vita: un incidente stradale. La notizia balenò su tutta la comunità del paese. “Povero Daniele!”, dissero in tanti . “Così buono e così sfortunato!”. Molti piansero per la sua repentina scomparsa ma, pur con le lacrime agli occhi, c’erano delle incombenze da ottemperare. Solo gli uomini hanno preoccupazioni di ordine soprannaturale, pregano per i defunti e seppelliscono i morti. Per Daniele occorreva che qualcuno si facesse carico di trovare un posto in cimitero ora che non faceva più parte dei vivi. C’erano pratiche da espletare e anche spese da affrontare. Ed ecco che una mano generosa si tese offrendo la tomba di famiglia per accogliere il giovane defunto. In questa però vanno tumulati i famigliari e non gli estranei. I titolari allora decisero, con estrema sensibilità, che in segno di profondo rispetto per questo giovane sfortunato, venisse tolto il cognome della famiglia e quindi a tutte le persone che erano già state sepolte nella stessa. Ogni defunto sarebbe stato indicato solamente con il nome. In fretta si andò a cercare anche una foto per ricordare il bel viso di Daniele, ma tutte lo ritraevano sempre serio, mai sorridente. Si cercò nei cassetti e, finalmente, emerse un’immagine abbastanza grande che lo ritraeva con un accenno di sorriso. Era una foto scattata qualche anno prima da un suo insegnante durante i giochi sportivi di fine anno. Il professore, avvicinandosi a lui, gli aveva fatto alcuni scatti estemporanei durante la manifestazione e Daniele gli aveva sorriso. Quella dolce espressione rimase ferma nel tempo, forse uno dei suoi ultimi sorrisi. La foto venne così scelta per essere esposta sulla tomba. Daniele riposa in un cimitero ai bordi del Piave, fiume sacro della nostra Italia, vicino a quel luogo della memoria che si chiama “Isola dei Morti” a Moriago della Battaglia. Un posto che ognuno di noi, nella propria vita, dovrebbe visitare. Si chiama “Isola dei Morti” in ricordo della battaglia finale della Grande Guerra combattuta sul Piave dove, una notte, la corrente del fiume trascinò migliaia di cadaveri in quell’ansa di fronte al Montello. Erano così tanti da diventare un’isola di morti! Soldati deceduti e feriti, colpiti da proiettili nemici e trascinati dalla corrente mentre cercavano di conquistare l’altra sponda del fiume. Daniele riposa vicino a questi eroi che lasciarono le loro famiglie per difendere una famiglia più grande: la Patria. Daniele nella vita era stato dato in affidamento ad una famiglia che non era la sua ed ora riposa in una tomba che non era sua, similmente a questi eroi. Solo una foto, un nome e una data. Nient’altro! Daniele è stato adottato due volte, in vita e in morte. Ora però vive nella beatitudine del cielo dove non ci sono più lacrime e lutti e dove ha incontrato l’eterno Dio della vita e dell’amore.





DENTRO LA MONTAGNA



In una stanza della casa dei nonni, una specie di piccola tavernetta, i nipoti spesso si improvvisavano ricercatori. Giocavano alla caccia al tesoro e riuscivano a scovare, rovistando nei cassetti e negli angoli del locale, vecchi oggetti, strumenti in disuso, foto dimenticate, bomboniere di tutti i tipi e dimensioni, giocattoli mezzi rotti. Vicino al tavolo c’era anche un cestino con tantissime conchiglie con le quali i ragazzini si perdevano nell’ammirarle e nel metterle insieme per tipo o per colore e ogni tanto, naturalmente, alcune si rompevano. Niente male! I nonni trovavano sempre il modo di rimpiazzarle con altre ancora più belle. Accanto a queste conchiglie c’era un grosso sasso bianco. I nipoti un giorno chiesero al nonno che tipo di pietra fosse e a cosa servisse. “C’è una storia interessante dietro questa pietra bianca!” - disse l’anziano. “Intanto possiamo dire che è composta da carbonato di calcio e che ha un’età di circa cento milioni di anni. Significa che, quando si è formata, sulla terra vivevano i dinosauri”. “Ma l’hai comperata o l’hai trovata scavando?”, chiesero incuriositi i ragazzini. “Né l’una né l’altra” - rispose il nonno - “ma ascoltate questa storia e ne capirete la provenienza. Una domenica mattina di tanti anni fa un mio caro amico di nome Aurelio mi invitò ad un’escursione speciale. Non in montagna, mi precisò, ma dentro la montagna. Non riuscii a capire cosa volesse dire, ma ero anche curioso e perciò accettai l’invito. Ci recammo con l’auto verso Caneva, un paesino delle Prealpi Friulane. In macchina mi spiegò che in questo posto, dentro la grande collina addossata alla montagna, c’era una cava di “marmorino” e che ci stava aspettando il responsabile dell’attività estrattiva per farci fare un’escursione dentro le viscere del monte. Giunti alla meta trovammo un signore gentile e sorridente con un bel casco da minatore in testa. Ci spiegò che quella visita era un “fuori programma” perché cadeva proprio nel periodo delle ferie delle maestranze e per di più in un giorno festivo, quindi eravamo gli unici visitatori. Ci rifornì di caschi protettivi, di una torcia elettrica e sulla macchina mise anche una cassettina di attrezzi e una batteria di riserva per auto. Chiesi il perché di tutte queste precauzioni. Il capo guida mi rispose che dovevamo essere certi di avere luce e di guidare un’automobile che non si fermasse altrimenti si rischiava di non uscire più da quel labirinto. Dentro la montagna, infatti, si era isolati dal mondo e nessun telefono funzionava. Mi chiesi sottovoce dove stavamo andando, ma il mio amico Aurelio, battendomi sulla spalla, mi rassicurò: “Vedrai, sarà un’esperienza che racconterai ai nipoti!”. Da precisare che all’epoca di questo fatto il vostro papà non era ancora sposato e neppure fidanzato. Finalmente si aprì il cancello della cava e iniziò l’avventura nel cuore della terra. Una stradina sterrata imboccava una galleria bianca splendente che quasi ci abbagliava ma, nel giro di pochi metri, si fece buio assoluto! Eravamo noi soli con i fari della macchina che illuminavano una galleria dopo l’altra. La prima sensazione che avvertii fu quella di sentirmi isolato, come intrappolato e poi la meraviglia di vedere che la roccia che ci attorniava era bianca solo se veniva illuminata. Tutt’intorno buio nero e silenzio assoluto, tranne il rumore della nostra auto attutito dall’enorme massa litica che ci circondava. La corsa diventava piena di incognite. Si imboccava una galleria che poi si biforcava e l’autista era sicuro nel tragitto e ormai aveva già percorso alcuni chilometri. A volte si facevano anche dei tornanti e si saliva di quota. La guida ci spiegò che la montagna era di fatto svuotata dai continui scavi ed era diventata ormai come lo scheletro di un palazzo con pilastri e solai. Al posto delle scale c’erano delle rampe che permettevano di salire e scendere di livello. E’ la “tecnica delle camere e pilastri”. Mi venne in mente Petra, la città della Giordania vicino al mar Morto, scavata nel tufo della montagna e anche ciò che l’amico Piero Doimo mi diceva sul grande Michelangelo. Quando gli ammiratori chiedevano al geniale artista come facesse dal vile marmo trarre opere d’arte così meravigliose, schernendosi un po' e con modestia, affermava che l’opera era già dentro il blocco di pietra. Bastava solo togliere il superfluo. Intanto la nostra auto continuava a viaggiare nel buio e finalmente, ad un certo punto, ci fermammo e in fondo ad un cunicolo vedemmo filtrare una debole luce. Il responsabile ci fece notare che un’infiltrazione di acqua aveva creato una frana per cui bisognava stare attenti. Dopo alcuni saliscendi facemmo ancora una sosta su un terrazzamento. Qui scendemmo dall’auto e, spento il motore, percepimmo il silenzio assoluto. Per mezzo delle torce ispezionammo le pareti e le volte. Tutte bianche e quasi fosforescenti! L’esperto ci fece il racconto della storia della cava, della tecnica estrattiva e del numero di operai in attivo. Arrivò il momento di ritornare e, prima di risalire in macchina, il nostro capogruppo prese dei sassi di carbonato e ce li diede come ricordo dell’esperienza. Al momento di ripartire il motore fece un po' di capricci. L’atmosfera delle caverne sotterranee infatti è satura di umidità. Attimo di suspense, ma poi l’auto ripartì quasi subito e imboccando una galleria dopo l’altra uscimmo dalla montagna. Ritornare all’aperto fu come svegliarsi da un brutto sogno!”. “Bella questa gita, ma anche strana”, dissero i nipoti. “Adesso”, riprese il nonno, “volevo solo aggiungere che quella cava è speciale perché il minerale che si estrae è purissimo, il più puro d’Europa e forse del mondo. Macinato fine fine e polverizzato, lo troviamo nei dentifrici, nei detersivi, in tante medicine e serve anche per raffinare lo zucchero. Più della metà dello zucchero italiano infatti viene raffinato con questo carbonato di calcio. Insomma questo sasso viaggia ancora in tante cose che ci circondano e che usiamo”. Infine la domanda che non poteva mancare: “Ma tu nonno hai avuto paura quando eri al buio nelle gallerie?” . “Certo!” - riprese l’anziano. “Aver paura di fronte alle incognite è un sentimento naturale! La paura spesso ci tutela da tanti pericoli. A volte però, come in questo caso, occorre vincerla sapendo che razionalmente sono state prese tutte le precauzioni. La paura spesso è un’alleata che ci impedisce di strafare. Quando si corre a forte velocità, per esempio, tutti abbiamo timore perché la velocità è un pericolo. Se ci affacciamo su uno strapiombo ci possono venire addirittura le vertigini. Ci sono poi persone che non potrebbero mai lavorare in una miniera o dentro una galleria perché soffrono di claustrofobia”. I nipoti replicarono affermando che alcuni amici si vantavano di non aver paura di niente. “Non esistono persone che non hanno timore di nulla”, affermò il nonno, “semmai ci sono individui che riescono a controllare bene la paura che tutti abbiamo”. Mentre la discussione continuava, la nonna si presentò con dei dolcetti ripieni di marmellata ai frutti di bosco. “Grazie nonna!”, esclamarono i nipoti e aggiunsero che molto probabilmente lo zucchero della marmellata era stato raffinato con i sassi della montagna che il nonno aveva visitato. E così festeggiarono il racconto con i buonissimi dolci. Per interesse e piacevolezza i dolci della nonna avevano battuto la gita dentro la montagna!






LA NATURA CI INSEGNA



Paolo, Matteo e Stefania si divertivano spesso con il loro papà al gioco dei perché. I tre ragazzi ponevano le domande più disparate e il papà doveva rispondere. Rimanevano a bocca aperta nel sentire le spiegazioni che svelavano loro il mondo affascinante della natura. Un giorno però il babbo li prese in contropiede. Fu lui stesso a provocare le domande affermando in anticipo che qualsiasi invenzione fatta dall’uomo si trovava già in natura. Come dire che l’uomo aveva semplicemente imitato ciò che già esisteva. I tre bambini non se l’aspettavano una provocazione del genere. Già, pensare che l’uomo non avesse inventato quasi niente pareva loro impossibile. I tre bambini chiesero se l’affermazione fosse vera. “Certo”, disse il papà, “è verissima!”. Allora Matteo “sparò” il suo primo quesito: “Qual è l’animale che usa il cannone?”. Il babbo rispose: “Il cannone, come lo intendiamo noi, non esiste in natura ma ci sono animali che adottano lo stesso principio. Il pesce arciere, ad esempio, spara un proiettile di acqua con la sua bocca e colpisce così le sue prede. Il lama si difende sputando e il pinguino, per motivi igienici, spara a forte velocità i suoi bisogni lontano dal nido”. Tutti a dire che era forte il pinguino con quella sua performance. “Il camaleonte”, continuò il babbo, “si muove a rallentatore ma quando vede un insetto srotola la sua lunghissima lingua appiccicosa più di qualsiasi adesivo e, in modo fulmineo, ad una velocità che supera quella di un aereo, lo colpisce e lo divora”. Stefania subito chiese: “Dove sono gli aerei in natura?”. I due maschietti risposero al posto del babbo: “Sono tutti gli uccelli!”. “Infatti”, precisò il papà, “il grande Leonardo da Vinci progettò le prime macchine volanti osservando il volo degli uccelli”. Paolo provò a porre un quesito più difficile: “Ci sono animali in natura che utilizzano la corrente elettrica come facciamo noi in casa?”. “Certo”, disse il genitore, “pensate alle lucciole che d’estate lanciano segnali luminosi quando volano la sera e poi dovete sapere che molti pesci degli abissi oceanici usano segnali luminosi per comunicare con i loro simili. Non solo, ci sono pesci che utilizzano le scariche elettriche per difendersi e riescono ad uccidere animali forti e pericolosi. L’anguilla elettrica infatti è capace di uccidere anche un alligatore. Una sua scarica può fulminare perfino un uomo! Ma ci sono tantissimi animali che utilizzano la corrente come difesa o mezzo di orientamento”. Matteo tentò di mettere in difficoltà il papà: “Quali sono gli animali che usano l’ascensore?”. “Basta osservare i ragni”, disse subito il papà, “se ci pensi bene chissà quante volte avrai visto scendere un ragno appeso al suo filo o risalire”. “Sì!” replicò Matteo. “Ieri la mamma si è perfino impaurita perché un ragno saliva verso la grondaia vicino alla sua testa”. Risata generale! Paolo: “E i sommergibili dove sono in natura?”. “Questa è una domanda semplice”, riprese il papà. “Tutti i pesci si comportano come un sommergibile. Infatti possiedono una vescica natatoria, una specie di sacchetto di plastica, che svuotano o riempiono di gas per scendere o risalire sulla superficie dell’acqua”. Paolo avvertì che aveva la domanda più difficile per suo papà: “Dimmi dove ci sono animali che usano il computer o il telefonino”. I nostri tre magnifici geni si sfregarono le mani convinti che ormai il loro papà stesse per capitolare. “La risposta non è difficile”, riprese il babbo. “Il più grande computer è il cervello umano. Nessun elaboratore riesce a fare tutto ciò che questo fa simultaneamente. Tanto per farvi un esempio, il più grande giocatore di scacchi riesce ancora a battere il più potente computer. Per la comunicazione poi gli animali si affidano ai loro sensi. Il cane, come tutti sappiamo, è dotato di un fiuto eccezionale. Ecco perché le squadre di polizia di tutto il mondo hanno sempre dei cani per scovare oggetti o armi. Le anguille di tutta la terra nel periodo della maturità si riuniscono nel mar dei Sargassi in pieno oceano. Dopo la riproduzione i piccoli avannotti, che sono pesciolini trasparenti e si chiamano “cieche”, ritornano misteriosamente al fiume di provenienza dei loro genitori dopo anni di navigazione”. Questo fatto impressionò non poco i tre piccoli studenti. “Però”, disse il genitore, “il computer usato in alcuni settori specializzati oggi è insostituibile!”. Paolo, Matteo e Stefania cominciarono a parlottare fra loro e poi insieme dissero: “Se chiudi gli occhi ti mostreremo una scoperta che non esiste in natura”. Il papà chiuse gli occhi e dopo un po' di trambusto invitarono il genitore ad aprirli per vedere la loro scoperta. Tutti e tre avevano fra le mani delle belle fette di pane con sopra un robusto strato di nutella. “E’ vero”, disse il papà con sorpresa, “questa è una scoperta che solo l’uomo ha fatto e se pensate anche alle patatine con il ketchup diciamo che sono scoperte da Nobel. Ma non dimentichiamo che tutto parte dalla natura!”. E così, tutti insieme, gustarono con tanti dolci sorrisi ciò che avevano preparato.






LA NATURA DEL TEMPO



Un giorno un nonno provocò i suoi tre nipoti chiedendo loro se erano capaci di formulare una definizione del tempo. I ragazzi iniziarono a tirare ad indovinare. “Il tempo”, disse uno di loro, “è quel fenomeno che ogni giorno ci tormenta prima di andare a scuola. Ogni mattina la mamma non fa altro che ripeterci che è tardi e che non c’è più tempo e che bisogna fare in fretta”. “E’ vero”, continuarono gli altri, “bisogna fare tutto di corsa e poi in classe il tempo a volte non passa mai, tranne quello della ricreazione che vola in un attimo”. “Proprio così!”, disse la più piccola. “Quando gioco il tempo passa velocemente e quando aspetto la mamma per il ritorno a casa il tempo sembra non passare mai”. Allora il nonno chiarì che questo è il tempo emotivo e personale che dipende dai nostri stati d’animo, dalle aspettative o dai timori. “Sembra che il tempo rallenti o acceleri”, spiegò l’anziano, “ma se osserviamo l’orologio notiamo che il suo ritmo è sempre costante. Quindi, è solo un’impressione che il tempo scorra in modo diverso”. “Però in musica”, disse il maggiore dei nipoti, “il tempo è una cosa fondamentale; guai a sbagliare ritmo, tutta l’orchestra perderebbe l’armonia”. “Anche nello sport il tempo è essenziale”, continuò l’altro, “basta vedere la partenza nelle corse o nelle batterie delle staffette. Quando ero piccolo pensavo che il tempo fosse un uccello perché sentivo dire spesso che volava o che era volato via”. La più piccola dei nipoti, incuriosita dalla questione, chiese chi fosse l’inventore dell’orologio. Rispose il nonno lisciandosi i baffi: “Come in quasi tutte le invenzioni l’uomo ha recepito il suggerimento dalla natura dove ci sono tantissimi orologi naturali: il sole, la luna, le stagioni, le piante e anche gli animali. Gli esseri viventi hanno spesso un proprio orologio biologico che regola le loro funzioni. Ci sono piante che fioriscono solo in certi periodi precisi della stagione e altre con fiori che sbocciano di giorno e si chiudono di notte. I fiori di una specie di mimosa, per esempio, si aprono con il sole e si chiudono col buio. Però, se tenete questa pianta al buio per un breve periodo, i fiori si apriranno e si chiuderanno alle stesse ore di quando era esposta alla luce, come se conoscessero l’alternarsi del giorno e della notte, cioè seguono il ritmo cicardiano”. “Cica che”? dissero gli studenti in erba. “Cicardiano”, riprese il canuto nonno, “significa letteralmente “circa il dì”. Si tratta quindi di un fenomeno legato alle ventiquattro ore del giorno”. “Per non parlare delle previsioni del tempo che vediamo in tv”, ripresero i ragazzi, “dove ogni canale trasmette previsioni del tempo che non sempre coincidono con quelle mandate in onda dagli altri”. “Già”, continuò l’anziano, “prevedere il tempo sembra facile con i mezzi attuali ma ci sono aspetti del fenomeno ancora imprevedibili. Ci sono troppe variabili. Eppure si parla spesso del tempo: quello climatico, quello del calendario, del tempo passato o dei tempi futuri. Insomma la parola tempo è fra le più adoperate”. La piccola nipotina volle sapere chi era l’inventore del calendario. “L’uomo”, chiarì l’attempato nonno, “è dotato di spirito di osservazione e quindi i primi calendari sono stati quelli lunari. La luna infatti ripete le proprie fasi ogni 28 giorni, mentre dopo 365 giorni le stagioni si ripetono. Dall’insieme di tutte queste variabili nasce il calendario annuale. All’inizio non era come lo conosciamo adesso, ma vi posso assicurare che noi ereditiamo e usiamo ancora il calendario degli antichi romani. I nostri antenati del Tevere dividevano l’anno in dieci mesi e solo col passare del tempo si resero conto che si creava una discrepanza tra anno civile e anno astronomico. Alla fine aggiunsero due mesi e così si arrivò al calendario attuale. I romani facevano partire l’anno con il mese di marzo, inizio della primavera. Con l’avvento del cristianesimo si fissò il capodanno al 25 marzo, giorno dell’Annunciazione, e quindi inizio dell’incarnazione di Cristo. Il mese di luglio veniva indicato come “Quintilis”, cioè quinto mese. Poi fu chiamato Julius in onore di Giulio Cesare ( che era nato proprio in quel mese ). Anche il mese di agosto inizialmente si chiamava “Sextilis”, cioè sesto mese. Fu Cesare Augusto che dette il suo nome a questo mese per aver riportato una serie di vittorie militari. I mesi che completano il calendario si chiamarono così perché inizialmente erano il settimo, l’ottavo, il nono e il decimo e cioè settembre, ottobre, novembre e dicembre. Noi perciò, senza saperlo, scomodiamo ancora i vecchi romani per datare i nostri avvenimenti. Certamente il fatto più straordinario rimane la venuta di Cristo sulla terra. Dalla sua nascita tutta la storia viene suddivisa in prima di Cristo e dopo Cristo. Adesso siamo nel 2021 dopo la nascita di Cristo”. “Le dimensioni del tempo, come dicono gli esperti, sono tre”, continuò l’anziano, “il passato, il presente e il futuro. In concreto però esiste solo il passato perché corrisponde ad avvenimenti effettivamente accaduti, mentre il presente è sfuggente. Nella realtà, tutto ciò che viviamo, diventa inesorabilmente passato. Appena dico, per esempio, sono le ore 16 esatte, non faccio in tempo a dirlo che i secondi scorrono e il tempo cambia. Il futuro invece non esiste proprio. Esiste solo nell’immaginazione nostra o come evoluzione possibile del presente. Un caso per tutti: se vedo che il cielo comincia a riempirsi velocemente di nuvole scure posso prevedere, con una certa sicurezza, che fra non molto pioverà. Oppure: se vedo che una macchina abborda una curva con eccessiva velocità posso immaginare che andrà fuori strada. Se un corpo celeste gira con una certa regolarità attorno ad un astro posso, con una certa sicurezza, prevederne l’orbita. Sono però tutte probabilità. Potrebbe intervenire, in quest’ultimo caso, un impatto inatteso, magari con un asteroide e l’orbita prevista risulterebbe poi errata”. “Spesso noi non ci accorgiamo che viviamo soprattutto di avvenimenti già passati”, continuò il nonno, “che si rendono presenti nel tempo attraverso lo spazio e la velocità. È un po' come quando un geologo va a caccia di prove dell’esistenza di forme di vita del passato sulla terra. Quando in uno strato di roccia trova un fossile, magari di un animale estinto, è capace di datarlo e di ricostruirne l’habitat. Nella nostra mente è come se diventasse vivo e presente. Quando noi vediamo una stella distante per esempio quattromila anni luce, significa che i suoi raggi arrivano ora nel nostro occhio, ma che essi sono partiti quattromila anni prima. Vediamo quindi nel presente il passato dell’astro. Se nella realtà quella stella fosse scomparsa per un’esplosione, supponiamo ieri, noi continueremmo a vederla ancora per quattro millenni”. Sant’Agostino, uomo di grandissima intelligenza, diceva: “Io so che cosa è il tempo, ma quando me lo chiedono non so spiegarlo”. Il punto di partenza è dato dal racconto biblico che presenta la creazione come una successione di eventi. Dal racconto risulta che la creazione avviene nel tempo, che è frutto di una decisione di Dio. In particolare ci si può anche chiedere che cosa facesse Dio prima della creazione. Questa domanda presuppone che anche Dio sia facente parte del tempo. Nel libro dei Proverbi si legge che Dio creò lo Spirito di Sapienza prima dell’universo. Sembra quindi che il tempo esistesse prima della creazione della materia e della vita. Ma non dimentichiamo che chi scrive è sempre un uomo! Secondo S. Agostino Dio è fuori dal tempo. Egli è nell’eternità e non crea le cose nel tempo. Con la creazione delle cose Dio fa nascere anche il tempo, quindi non esisteva il tempo prima della creazione. I nostri studenti in erba cominciarono a storcere il naso. I discorsi si facevano difficili e sentivano la fatica nel seguire l’argomento, ma il nonno li rassicurò. “Ricordatevi che le cose complicate o difficili sono sempre un insieme di cose semplici. Basta avere memoria, volontà e…tempo”. Tutti si fecero una risatina. “Per Aristotele, filosofo dell’antica Grecia”, riprese il nonno, “il tempo era solo un modo di misurare il dinamismo delle cose. Quando nulla si muove, il tempo non può esistere e affermava che da solo il tempo non può sussistere. Invece Newton, scienziato inglese, immaginò la possibilità di un immenso spazio vuoto dove il tempo scorreva anche se non esisteva nulla o non accadeva niente. Newton separò il tempo dagli accadimenti del mondo. Immaginò che il tempo scorresse di per sé, indipendente da tutto il resto”. “Ma arriviamo ai giorni nostri”, proseguì il nonno, “dove si comincia a parlare di tempo relativo, di spazio-tempo o addirittura di eliminare definitivamente il tempo”. Il nonno osservò i nipoti e vide che tutti e tre stavano per dormire. Allora alzò la voce per destare la loro attenzione e, avendoli svegliati quasi di colpo, questi gli chiesero di arrivare presto alla conclusione. “Avete ragione!”, esclamò il nostro e, tentando una sintesi, disse : “Un insegnante di Einstein scrisse: «d’ora innanzi lo spazio e il tempo sono condannati a dissolversi nel nulla e solo una specie di congiunzione dei due conserverà una realtà indipendente». Si può annullare o ridurre la velocità degli avvenimenti, ma non si può cambiare la realtà degli eventi. Insomma un essere vivente non può morire prima di nascere. Quindi i viaggi nel futuro si possono fare solo nei films di fantascienza perché rimane ancora valida l’affermazione di Aristotele secondo la quale il tempo è la misura del movimento tra il "prima" e il "poi". In altre parole e in modo più esplicito, diciamo che l'effetto non può precedere la causa. Nell'esperienza quotidiana anche noi spesso utilizziamo lo spazio per calcolare il tempo. In autostrada, viaggiando a velocità costante, possiamo identificare i Km nei minuti. Non mi occorre perciò nessun orologio se viaggio a 60 Km/h. poiché ad ogni mille metri corrisponde un minuto”. A questo punto una voce dalla cucina si fece sentire in modo forte e imperativo: “Il pranzo è pronto! Sbrigatevi e prendete posto a tavola!”.

I nostri studenti pazienti dissero all’unisono: “Questo è il tempo migliore della giornata, non perdiamo ancora minuti preziosi!”.







LA SCUOLA DEL BOSCO



Gli animali, similmente agli uomini, avevano deciso di realizzare una scuola per i loro cuccioli e avevano scelto come insegnante il saggio e paziente asino. Il quadrupede docente, dopo aver affrontato nella sua prima lezione la nascita della vita e la discendenza degli animali, nella seconda lezione, democraticamente, lasciò spazio alla creatività dei suoi alunni e invitò le bestioline a provocare un dibattito. Un cerbiatto chiese, con un certo rammarico, perché in natura esistevano certi animali feroci e spietati e altri, come lui, che erano invece pacifici. “Io”, disse il mite mammifero, “devo stare sempre all’erta per paura di essere vittima di attacchi mortali. Devo usare tutte le astuzie e le strategie per sopravvivere e difendermi da altri animali prepotenti che ogni giorno mi danno la caccia”. Un coniglio alzò la zampetta per parlare e l’asino lo invitò a dire la sua. “Anche noi conigli”, disse, “ci troviamo nella stessa condizione del cerbiatto. Dobbiamo nasconderci sotto terra e muoverci soprattutto di notte per evitare i nostri predatori”. Una gazzella prese la parola per sottolineare quest’aspetto violento e ricordare che la sua esistenza era una continua corsa per sfuggire agli artigli dei suoi crudeli cacciatori. Un cucciolo di orso, sentendosi accusato, disse che quand’era più piccolo, era sfuggito per puro caso all’attacco di un’aquila reale che aveva tentato di rapirlo con i suoi micidiali artigli e mostrò a tutti i segni delle ferite e dei graffi sulla schiena. Un piccolo ippopotamo spiegò che metà dei cuccioli della sua specie, che non ha rivali in natura, viene uccisa da iene, leoni e coccodrilli. Il dibattito cominciava a degenerare perché alcuni animali incolpavano altri di aggressione e violenza nei loro confronti. L’asino intervenne con fermezza alzando la voce e con un raglio deciso ottenne il silenzio e tentò di dare una spiegazione accettabile alla questione seria della violenza tra gli animali. “Ogni animale”, precisò il docente, “nel corso della sua esistenza attraversa varie fasi. Da cucciolo è sempre debole e vulnerabile e ha bisogno di cure e protezione. Persino i genitori dei neonati coccodrilli devono portare i loro piccoli dentro le fauci per proteggerli dalle inside. Alla fine dell’esistenza anche i più temibili e aggressivi animali diventano deboli e prede di altri. Dovete anche capire che tante volte gli animali carnivori uccidono per sopravvivere e per nutrire la loro prole. Insomma la morte di alcuni serve alla vita di altri. Inoltre anche gli animali miti come gli erbivori dimenticano che nelle loro corse, per esempio, uccidono formiche, insetti, lucertole, lumache e altro”. Per un attimo i cuccioli che si erano lamentati di essere vittime si trovarono nel gruppo dei carnefici. “La morte e la sofferenza”, riprese il ciuco sapiente, “coinvolge tutti e ogni giorno dobbiamo lottare per la nostra sopravvivenza e anche quando alla fine noi moriremo la nostra specie continuerà. La vita e la morte si affrontano ogni giorno ma, come vediamo, l’ultima parola è sempre della vita. La vita è più forte della morte! Malgrado le terribili guerre degli uomini, le catastrofi, i terremoti, le inondazioni, la siccità, la vita sulla terra continua da miliardi di anni”. Una piccola giraffa chiese il perché di tutto questo e come mai bisognava soffrire con tanto dolore per poi morire. L’asino a questo punto fece un profondo respiro e tentò una spiegazione. “E’ la domanda più difficile da affrontare”, disse, “ed è un argomento complesso e misterioso ma, in molti casi, il dolore fisico diventa utile perché ci avverte di tante malattie e fa sì che noi possiamo curarle. Non dovete comunque pensare che la sofferenza e il dolore siano aspetti solo fisici. Molti nostri simili soffrono tantissimo per solitudine e per il distacco dai loro amici o dalla mamma. Voi sapete che gli uomini, a volte, mettono in gabbia i nostri simili. Ebbene alcune specie, in particolare gli uccelli, non resistono alla prigionia, rifiutano il cibo e muoiono per tedio e tristezza. Questo serve a spiegare che la sofferenza e il dolore non sono solo aspetti fisici ma anche morali. Si soffre per una ferita sulla pelle, ma anche e a volte di più, per una ferita emotiva del cuore”. “Ma se la vita è più forte, come afferma lei, perché la morte continua ad esistere?” chiese una scimmietta. “Non sono in grado di rispondere” - confidò con disarmante sincerità il docente. “Possiamo gettare un po' di luce su questo problema facendoci aiutare dalla sapienza del libro dei libri, cioè la Bibbia, il libro più letto e più venduto al mondo”. Sulla cattedra comparve il testo e il saggio maestro cominciò a leggere brani della Genesi e del libro della Sapienza. “A tutti gli animali selvatici, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli esseri che strisciano sulla terra e nei quali è alito di vita, io ( Dio) do in cibo ogni erba verde». E così avvenne. ( Genesi 1 ) ” . “Questo vuol dire” - spiegò il docente - “che all’inizio, non essendoci la morte, non potevano esistere gli animali carnivori”. Leggiamo ancora: “Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutte le cose perché esistano; le creature del mondo sono portatrici di salvezza, in esse non c’è veleno di morte, né il regno dei morti è sulla terra”. ( La Sapienza )”. “Quindi” - concluse l’asino - “la morte non faceva parte della creazione iniziale, ma deve essere accaduto un fatto grave, una disubbidienza o una ribellione verso Dio ed ecco perché questo acerrimo nemico comparve sulla terra”.

E con questa affermazione si concluse la lezione.






LA VERITÀ NON UMILIA



Mario, studente delle superiori, una mattina per sbalordire i suoi amici mostrò il suo ultimo acquisto tech: una penna multifunzionale non solo capace di scrivere, ma anche di segnare l’ora e di collegarsi al web tramite comandi vocali. Il cappuccio era infatti un sottile schermo led flessibile in grafene. In pochi minuti tutta la classe aveva fatto capannello intorno allo stilo di ultima generazione, in pratica uno smartphone camuffato da penna. Tutti si chiedevano dove l’avesse acquistato e anche il costo e non si parlava d’altro. La classe si spostò in palestra per una lezione di motoria e il nostro studente, per paura che il suo nuovo acquisto si potesse danneggiare, lo lasciò in classe. Al rientro in aula però la penna hi-tech, poggiata sul banco, era sparita. “Chi mi ha preso la penna?”, gridò disperato Mario. L’insegnante cercò di riportare la calma invitando l’autore dello scherzo a restituire l’oggetto trafugato. Nessuno però si fece avanti. Il professore provò a convincere chi aveva nascosto l’oggetto dei desideri a ridarlo, assicurando che non avrebbe preso provvedimenti disciplinari. Niente da fare! La penna non saltava fuori. Alcuni alunni avanzarono il dubbio che l’autore del maltolto poteva essere stato qualcuno estraneo alla classe e che avesse approfittato dell’ora di ginnastica per compiere il furto. “Potrebbe essere così”, disse l’insegnante, “ma intanto iniziamo a controllare se la penna si trova dentro la classe”. Invitò tutti a lasciare gli zaini sopra i banchi e, con l’aiuto del bidello, spostò la scolaresca in corridoio, giusto il tempo per ispezionare le sacche. Trascorsi pochi minuti fece rientrare la classe e, con sorpresa, mostrò a tutti la penna-smartphone. “Non è stato per niente facile individuarla”, disse il docente, “perché era nascosta dentro una doppia tasca, ma l’importante è che tutto si sia risolto”. Mario era molto contento ma voleva anche conoscere chi gli aveva fatto lo scherzo. Anche gli altri alunni chiesero il nome dell’autore del furto. L’insegnante spiegò, con un pizzico d’ironia, che nella fretta di rovistare non si ricordava più in quale zaino avesse ritrovato l’oggetto della contesa e perciò disse: “Per questa volta lasciamo perdere e spero che il nostro cleptomane abbia capito la lezione. Rubare è un reato che danneggia chi lo subisce e perciò è condannato non solo dalla nostra coscienza ma anche dalla giurisprudenza”. Gli alunni intervennero a più voci dicendo che quello che stava facendo l’insegnante era sbagliato perché, affermavano, chi sbaglia deve pagare mentre invece, in questo modo, si dava un cattivo esempio e un segnale fuorviante. Si poteva pensare, continuarono, che rubare sia quasi un fatto lecito che lascia impuniti. Una ragazza, senza mezzi termini, ricordò che la verità andava detta. L’insegnante si trovò così sul banco degli imputati come chi sta coprendo un fatto illecito e quindi prese la parola: “E’ giusto che la verità venga detta, ma non deve essere usata per umiliare. A chi sbaglia bisogna anche dare la possibilità di ravvedersi. Non si deve punire solo per il gusto di punire! Anche la legge non condanna chi per la prima volta commette un reato non molto grave. Infatti è prevista la condizionale. Si infligge la pena ma questa viene sospesa sperando che tutto finisca lì; in caso contrario le cose si aggravano”. Il suono della campanella della ricreazione mise fine al serrato dibattito e il docente si recò in sala insegnanti. Dopo alcuni minuti una collaboratrice scolastica consegnò al docente un foglio piegato dicendo che un alunno l’aveva incaricata di portarglielo. Lo aprì e, con leggero sorriso, lesse: “Grazie professore per non avermi umiliato. Ho capito la lezione e non succederà mai più”.






L’ UOVO E LA GALLINA



Gli uomini, pur avendo fatto tante scoperte e numerosi progressi nel campo scientifico, non riuscivano a risolvere un rompicapo che si tramandava da secoli e generazioni. Il dilemma riguardava i polli e la domanda era se fosse nato prima l’uovo o la gallina. All’apparente banale questione si erano cimentati blasonati scienziati in vari meeting e tavole più o meno rotonde. Eppure il dubbio non era mai stato sciolto perché si arrivava sempre all’antinomia. Infatti, se era nata prima la gallina, si doveva comunque premettere l’uovo dal quale appunto derivava il pennuto ruspante. Se invece si affermava che era nato prima l’uovo, occorreva sempre una chioccia che lo covasse. Da qualsiasi parte si cominciava ad affrontare la questione si finiva sempre in contraddizione. Questo dilemma era entrato nel linguaggio comune come indovinello senza possibile risposta. Un giorno un gruppo di giovani e talentuosi scienziati si cimentò nell’impresa con il chiaro intento di risolvere l’annoso problema. Gli studiosi utilizzarono tutti gli strumenti che la tecnologia moderna metteva loro a disposizione e infatti uno di questi titolati scienziati aveva inventato il traduttore universale. In pratica, attraverso un sofisticato software e un potente elaboratore, era riuscito a tradurre il linguaggio degli animali permettendogli anche di comunicare con loro. Gli studiosi decisero perciò di chiedere direttamente agli interessati, i polli, la loro esatta discendenza e in particolare se fosse nato prima l’uovo o la gallina. Gli esperti si recarono perciò in aperta campagna e chiesero ad un contadino di poter intervistare le sue galline che stavano razzolando all’aperto con i loro pulcini. Rassicurato il proprietario e ottenuto il permesso, entrarono nel pollaio. Appena si avvicinarono con i loro strani strumenti ad una vispa gallina, si materializzò un robusto e variopinto gallo, con tanto di cresta svettante e rossi bargigli oscillanti, che con fare minaccioso si mostrò pronto a difendere la sua famigliola. Attraverso il traduttore universale gli eruditi ricercatori comunicarono al nervoso leader che volevano soltanto un’informazione. Il gallo inizialmente era titubante e non sapeva se attaccare subito e distruggere la strumentazione o aspettare per meglio capire. Poi si convinse di ascoltare prima di rispondere. “Volevamo conoscere solamente se era nato prima l’uovo o la gallina” chiesero timidamente gli studiosi. Conosciuta la domanda, il gallo fece subito una risata. Nello stesso tempo, infastidito, cominciò a sollevare le piume e grattare la terra. “Il vostro è un quesito mal posto” - sentenziò il cromatico pennuto. “Da che mondo è mondo occorre sempre una coppia di animali per generare un proprio simile e voi mi avete escluso da questa possibilità! Parlate solo di uova e di galline ”. Gli scienziati accusarono il colpo. Essere rimproverati da un pollo era un fatto un po' umiliante, ma fecero finta di niente. Chiesero perciò al ruspante pennuto se poteva gentilmente fornire la soluzione. Il gallo fece qualche giro di perlustrazione e poi disse: “ Prima dell’uovo è nata la coppia: un gallo e una gallina! L’uovo necessariamente deve essere fecondato, altrimenti è utile soltanto per nutrire uomini o animali. Solo l’uovo fecondato è capace di generare un pulcino! In ogni caso non può mai essere nato prima l’uovo perché questo ha sempre bisogno di essere deposto, accudito, covato e difeso da una gallina e da un gallo”. Gli scienziati vennero così umiliati per la seconda volta ma tentarono l’ultima carta chiedendo: “Ma allora da dove nascono le coppie?”. Il gallo stava ormai per perdere la pazienza e, allungando il collo e gonfiando le coloratissime piume, proruppe in un solenne e sonoro chicchirichì e poi rispose: “Per questa domanda dovete rivolgervi al buon Dio”. Gli studiosi a questo punto si resero conto che la risposta dell’irrequieto gallo era esaustiva e ritornarono a casa contenti di aver trovato la soluzione all’annoso problema.






PUCCI STORY


Pucci era un cane originale e speciale. Il nome gli derivava da un suo simpatico predecessore del quale ne aveva saputo continuare le gesta. Un giorno il suo futuro padrone, che poi pian piano col tempo perderà questa prerogativa, lo vide esposto nella vetrina di un negozio di animali insieme ai fratelli della stessa cucciolata. Entrò nell’emporio e chiese informazioni su quei cuccioli che nel frattempo si calpestavano e si sormontavano per uscire dal piccolo recinto. Dopo aver ricevuto alcuni ragguagli dal titolare del negozio, uno di quei piccoli cagnolini a quattro zampe uscì dal cesto e cominciò a seguire il suo futuro proprietario. Si strinse subito in questo modo l’amicizia e fu così che Pucci fece la sua scelta. Una volta a casa non fu facile convincere la padrona ad accettare il nuovo ospite a lunga scadenza. Poi, con l’aiuto del figlio desideroso di avere un cane con cui giocare e con non poche false promesse di riportarlo al proprietario, dopo qualche giorno, Pucci entrò di fatto a far parte della famiglia. Al mattino però il nostro amico a quattro zampe rimaneva solo perché tutti i componenti del nucleo familiare andavano a scuola oppure a lavorare. Stare sei ore da solo è facile se si dorme, ma ogni tanto qualche rumore lo svegliava e così gironzolava per le stanze e rosicchiava quello che gli capitava sotto i denti. Un giorno i padroni si accorsero che il cane faceva la pipì color rosso per cui si allarmarono e, pensando ad un problema di salute, stavano decidendo di portarlo dal veterinario. Il giorno dopo la pipì era blu. La cosa diventava perciò misteriosa. Il dì successivo risultava di un giallo acceso. Non si poteva certo portare la bestiolina dal veterinario raccontando tutti questi cambi di colore come fossero un semaforo. Dopo una breve ricerca si scoprì l’arcano. Pucci la mattina, quando era solo, faceva colazione con dei pastelli a cera riposti in uno scaffale basso. Aveva infatti trovato una scatola di colori del padroncino e si era, a suo modo, improvvisato pittore. Non passò tanto tempo che il cagnolino aveva difficoltà a fare i suoi bisogni e, quando ci riusciva, espelleva dei pezzetti di sughero. Aveva rosicchiato a più non posso i tacchi dei sandali della padrona di casa. Un giorno se la vide proprio brutta mentre stava correndo a perdifiato sulla collina del castello di Conegliano. Il suo giovane padrone era contento di vedere quella specie di batuffolo color sabbia sfrecciare per l’impervia salita. Ma, in un batter d’occhio, il cane sparì alla vista di tutti per poi atterrare in velocità sul pendio della collina mentre un grosso volatile si stava allontanando verso le cime degli alberi. Era un’agguerrita e famelica poiana, uccello rapace endemico, che aveva cercato di predare il cucciolo subito abbandonato per l’eccessivo peso. Insomma Pucci, da buongustaio, si salvò grazie al suo peso. Passò un po' di tempo e un giorno d’inverno i padroni lo portarono a fare un giro in un laghetto vicino alla città. Il più adulto disse al più piccolo di lasciarlo libero, convinto che il cane avesse per istinto paura di buttarsi in acqua. Pucci invece, lasciato libero sul ciglio prospiciente il lago, altro non fece che buttarsi dentro per poi sparire agli occhi di tutti. Panico dei presenti e tutti a chiamare il cane nella speranza che riemergesse. Dopo un lungo minuto e un po' lontano dalla riva, si vide emergere prima la coda e poi la schiena. Era improvvisamente riapparso e, senza mai aver fatto corsi di nuoto, ritornò a riva aiutato dal padrone con un ombrellone da spiaggia che faceva da punto di appoggio. Essendo fredda la giornata fu portato dentro l’auto e poi, a casa, asciugato con il phon. Ma qui il responsabile della sicurezza del cane si prese anche la ramanzina della moglie che ormai considerava suo il cucciolo. Era passato più di un anno e Pucci era cresciuto abbastanza. I padroni cercavano di non viziarlo ma lui, in qualche modo, aveva i suoi spazi di autonomia. La cosa che più non sopportava, come tutti i cani, era la solitudine. Quando capiva che le persone di casa si accingevano ad uscire si piazzava davanti alla porta e, una volta presa la fuga, cominciava a girare freneticamente attorno all’auto facendo anche delle finte. Riusciva a calcolare i tempi attraverso il rumore della porta della macchina che si apriva e si catapultava dentro a razzo per piazzarsi attaccato al lunotto. Se si cercava di riportarlo fuori ringhiava da sembrare un grosso felino. Insomma, alla fine, partiva sempre con i padroni. Esisteva però il problema che soffriva la velocità. Fino a 80 km all’ora stava tranquillo, ma appena si correva oltre i 90 cominciava a tremare. Insomma Pucci era una specie di autovelox a bordo. Un giorno, durante una gita primaverile, i gestori di un ristorante di Este non ne vollero sapere di ospitare il cane che rimase perciò in macchina con i finestrini leggermente abbassati per poter respirare meglio. I padroni, dopo il loro pranzo, si preoccuparono di far mangiare il bastardino e gli portarono dei bellissimi wurstel. Il meticcio sembrò quasi offeso e non volle assolutamente toccare quell’intruglio di carne. Cercarono con insistenza di convincerlo almeno ad assaggiare la pietanza ma, come risposta a tutta quella manfrina, alzò la zampa posteriore e spruzzò la ciotola di pipì. Fece chiaramente capire di non essere un cane tedesco! Alla fine si convinse di mangiare una porzione di prosciutto cotto di buona qualità. Pucci infatti amava tanto la cucina italiana! Quando si avvicinava l’ora di pranzo si appostava vicino alla sua padrona che lo serviva in una ciotola contemporaneamente ai commensali. In un attimo la ripuliva e poi si piazzava vicino alle sedie di coloro che pranzavano. Con la zampa ricordava loro la sua presenza e, conoscendo alla perfezione la tempistica e la generosità dei commensali, alla fine mangiava due volte. Non era però obeso perché sempre impegnato in corse nel giardino e anche in salite e discese delle scale. Qui era un po' comico perché mentre era velocissimo nel fare gli scalini in salita, in discesa si faceva vincere dalla fifa per la paura di scivolare. Più di una volta infatti era ruzzolato rumorosamente sui gradini. Indimenticabile per il suo padrone il ricordo di quella passeggiata, ai bordi di un parco, in aperta campagna. Pucci si era allontanato abbastanza e, da lontano, lo si vedeva rotolare per bene a terra. Era sordo ai richiami e insistente in quella sua attività maialina. Alla fine decise di ritornare ma, con il suo arrivo, si avvertì chiaramente l’odore pungente del letame. Si era infatti strofinato per bene nel fertilizzante naturale delle mucche. I padroni non sapevano più cosa fare nel vedere il cane tutto allegro per quel suo atto eroico. Il loro unico pensiero era come riportarlo in appartamento. Lo presero dalla collottola e per la coda, lo chiusero nel bagagliaio dell’auto e poi lo lavarono con sapone di Marsiglia nel garage di casa. Quella notte Pucci dormì in terrazza! Tre cose però erano insopportabili per il nostro bastardino: il veterinario, i cavalli e la tosatura. Quando era in macchina e vedeva un cavallo diventava come idrofobo. Abbaiava e saltava e sbatteva perfino la testa contro i finestrini dell’auto. Molto probabilmente nel suo immaginario canino i cavalli dovevano sembrargli cani giganti cavalcati da uomini. Il rapporto poi con il veterinario era di odio. Sentiva a distanza chilometrica lo studio del medico e, pur cambiando strada per raggiungerlo, non c’era verso di disorientarlo. Riusciva persino a liberarsi dalla museruola e l’unico modo per fargli il vaccino era quello di lanciargli a distanza la siringa. L’ultima cosa che lo rendeva insofferente era la tosatura d’estate. Stare fermo e sentire l’attrezzo sulla pelle lo rendeva nervoso. Una volta, dopo che era stato rasato da un lato, Pucci decise di porre fine a quella tortura e cominciò a correre per il giardino impedendo a chiunque di prenderlo. Per alcune ore rimase rasato solo da un lato e peloso dall’altro. Ci sarebbero altri avvenimenti da raccontare come quelli legati al suo potente fiuto o appena si nominava la parola “guinzaglio”. In questo caso, velocissimo, si recava dove lo stesso era posizionato e con la bocca lo faceva cadere a terra impaziente che il padrone lo portasse alla passeggiata serale. Un’altra sua caratteristica era la voglia sfrenata di fare le feste ai componenti della famiglia. Agli estranei invece faceva la voce grossa e li metteva tutti all’angolo. A volte, in piena notte, scendeva dalla sua sedia provvista di comodo cuscino e partiva a spron battuto su per le scale. Faceva il giro dei letti e svegliava tutti a suon di leccate e colpi di coda. Era convinto di aver fatto un atto meritorio di plauso e sperava di essere coccolato. Veniva invece sgridato, seppure a bassa voce, e riportato al suo posto. I padroni tentavano di bloccare le scale alla piccola bestiola in queste sue notturne incursioni affettive mettendo sedie e sgabelli posti a mo’ di trincea davanti ai gradini. Il cane però, non si sa come, riusciva sempre a crearsi un varco. Mediamente quasi tutti i cani vivono al massimo 15-16 anni. Pucci invece, caso raro, visse più di vent’anni. Aspettò che il suo giovane padrone si sposasse e, mentre questi partiva con l’aereo per il viaggio di nozze, Pucci partì per il suo ultimo e definitivo viaggio. Il giovane padrone, al ritorno, appena scese dall’aereo, chiese subito informazioni sulla salute del suo cane e apprese la notizia con molta tristezza. Come forma di consolazione i suoi genitori gli consegnarono un collage di foto che lo ritraevano in alcuni avvenimenti felici trascorsi insieme al suo esuberante e tanto amato cagnolino.






RICORDI D’INFANZIA



Con lo scorrere del tempo e l’accumularsi degli anni, i ricordi ritornano alla mente più spesso, soprattutto quelli d’infanzia. Succede allora che, se ti abbandoni alle rimembranze, le immagini, come fotogrammi, ti scorrono nella memoria in una sorta di film. Ritornano in mente le rimpatriate con gli amici di un tempo, quelli della scuola media o delle superiori, quando ognuno raccontava con cipiglio le sue esperienze e quelle comuni che ci avevano segnati e uniti. Allora il passato diventava presente e quasi si rivivevano le bravate. Da giovani si sognava il futuro, si sperava nella realizzazione delle nostre aspirazioni e si credeva che tutto potesse concretizzarsi nel tempo. La vita poi ci ha insegnato la durezza della realtà, ma anche la sua bellezza. E se l’amarezza del distacco era tremenda, poi arrivava la dolcezza del ritorno. Ricordo quando, da piccolo, andavo per tre settimane alla colonia estiva dei padri domenicani a Linguaglossa, un piccolo paese dei boschi etnei. I primi giorni erano di pianto. Mi mancavano i genitori, i fratelli e i compagni di gioco e una volta, addirittura, assieme ad un gruppetto di coetanei, progettammo la fuga dalla struttura. Il tentativo si concluse dopo poco più di mezz’ora. I frati ci videro scomparire nella boscaglia vicino al grande convento immerso nel verde dell’Etna e in poco tempo fummo raggiunti. La reprimenda, per fortuna, la subirono soprattutto i più grandi. L’esperienza della colonia mi rimane ancora viva per aver ricevuto lì la prima Comunione. Rivedo ancora gli occhi azzurri e buoni del frate che mi preparava con fede e pazienza al grande incontro con Gesù. Tra i ricordi rimangono molto vivi i racconti di guerra che mio papà periodicamente mi proponeva e che spesso erano ripetitivi. A forza di ascoltarli, anche per me erano diventate familiari frasi come “fronte sul Don in Russia”, “congelamento degli arti”, “fame e inseguimenti”. Mio padre mi spiegava sempre, anche nei particolari, l’attacco finale dei militari dell’armata rossa che decimò i nostri soldati affamati e stremati. Bisognava avere sempre le scarpe ai piedi, anche durante il poco e agitato sonno notturno. Chi commetteva l’errore di slacciarle non riusciva più a rimetterle il mattino dopo. Il freddo, in pochi minuti, le faceva indurire come fossero diventate ferro. Ad un certo punto, prima che finisse la guerra, dalla nostra Italia non arrivarono al fronte né lettere per ricevere conforto dai famigliari, né viveri per sfamare le truppe. La sopravvivenza era legata alla questua presso le famiglie dei contadini russi. Una situazione paradossale dove gli invasori, per non morire di fame, erano costretti a chiedere l’elemosina a chi rischiava, in casa propria, di diventare loro prigioniero. Durante la Pasqua ortodossa si era sparsa la voce tra i nostri soldati della consuetudine dei cristiani russi di portare ai propri cari defunti, in cimitero, non fiori ma uova sode. Gli Ortodossi, infatti, celebrano la ricorrenza dei morti il venerdì successivo al giorno di Pasqua. Per tale occasione, anche adesso, colorano le uova e le mettono sopra le tombe dei loro cari che sono sepolti come augurio di felice vita ultraterrena. I nostri militari perciò, all’imbrunire, davano l’assalto ai cimiteri per sopravvivere. Quando si dice “mors tua vita mea”. Poi ci fu l’attacco finale alla nostra prima linea e l’esercito russo fece piazza pulita dei nostri uomini che divennero carne per i cannoni e le mitragliatrici. Mio padre, tra gli ultimi a ritirarsi, sfuggì miracolosamente alla carneficina. Si agganciò con le mani ad un carro armato tedesco in fuga che gli tagliò la strada e, incurante dell’intimazione di scendere, riuscì ad allontanarsi da quell’inferno. Infine arrivò l’ordine definitivo della ritirata, ma i pochi camion per il trasferimento erano strapieni di soldati fino all’inverosimile. Mio papà si salvò perché, in uno degli ultimi camion che già si muoveva, trovò posto nel predellino anteriore destro e, con un braccio, si tenne aggrappato alla cabina abbracciando lo specchietto retrovisore. Lui stesso si meravigliò di essere riuscito a restare vivo in quella posizione viaggiando per un’intera notte nel freddo micidiale della pianura sarmatica. Si guadagnò soltanto, si fa per dire, un quasi congelamento ai piedi e alle mani che rimasero deformati per il resto della sua vita. Questa storia, ripetuta e scontata, che ormai mi sembrava lontana, con il tempo invece compresi che mi apparteneva. Mio papà, infatti, fu uno dei pochi sopravvissuti alla terribile campagna di Russia della seconda guerra mondiale. Poi gli anni delle superiori e il consolidamento delle vere amicizie: Alfredo, Filippo, Pietro e Salvatore. E’ proprio vero, le amicizie dell’infanzia ti rimangono nel cuore! Risento le risate alla scuola media con Filippo. Quando cominciavamo a ridere non riuscivamo più a fermarci. Rivedo anche l’irruenza simpatica di Pietro. Fra tutti, però, è stato Alfredo l’amico con cui mi sono sentito sempre più in sintonia per la sua delicatezza d’animo e la sua generosità. Ricordo i pomeriggi passati a studiare nella sua cameretta e la gentilezza dei suoi straordinari genitori. Lì mi sentivo come a casa e, non per niente anche adesso, quando ci sentiamo per telefono, il saluto è: “Ciao fratello!”. Fin da piccolo aspirava a diventare medico e, dopo il diploma delle superiori, riuscì a coronare il suo sogno diventando chirurgo. Adesso abitiamo in due regioni diverse ma, quando ci incontriamo, è come se il tempo non sia trascorso. La confidenza e l’affetto sono rimasti indefettibili. Salvatore invece era un po' schivo, aveva fattezze nordiche: biondo, relativamente alto e occhi azzurri. Fantasticava davanti ai cieli notturni e ci spiegava le costellazioni, le posizioni dei pianeti, gli ammassi visibili e la via lattea. Anche adesso, da non più giovane, quando alzo gli occhi verso il cielo e cerco di riconoscere qualche costellazione mi viene in mente il suo viso. Con Alfredo e l’ascetico Salvatore spesso si saliva nei tardi pomeriggi in collina a condividere le suggestioni dei tramonti struggenti. Si facevano lunghe passeggiate in campagna e si filosofava sui più disparati argomenti. Si ascoltava musica classica, ma si faceva anche baldoria quando occorreva. Salvatore vagheggiava di possedere sensibilità animaliste in grado di familiarizzare con qualsiasi animale e si ammantava di un certo francescanesimo. A casa mia, in quel periodo, vivevano due gatti che accettavano di buon grado le cibarie, ma non volevano essere accarezzati e tanto meno presi in braccio. Il nostro velleitario animalista chiese di essere messo alla prova. Senza perdere tempo ci recammo a casa mia e attirammo in una stanza, con un po' di pesce e formaggio, i due felini recalcitranti alle carezze. Salvatore chiese di essere chiuso con loro, sicuro di poterli addomesticare. E qui cominciò la baraonda. Quando i due gatti si resero conto della trappola tentarono la fuga ma tutte le porte e le finestre erano sprangate. Allora iniziarono a saltare dal tavolo alle sedie lanciandosi contro i vetri e contro Salvatore che, atterrito, stava all’angolo e pieno di paura invocava aiuto. Mentre i felini sembravano tigri urlanti il nostro amico, diventato bianco come un fantasma, a gran voce gridava sempre più di aprire, mentre i gatti gli passavano davanti al viso. Spalancammo subito la porta e i tigrotti, come bestie feroci, fuggirono a razzo. Dopo tale esperienza, dalla quale rimediò solo qualche leggera graffiatura, Salvatore non vantò più di possedere doti di domatore. A ripensare la scena mi vengono in mente le parole dell’amico Piero Doimo quando mi disse: “Secondo me il buon Dio ha fatto il gatto per permettere agli uomini di accarezzare una tigre”. Solo che questi due mici erano veramente tigri in miniatura! C’era però un giorno speciale che spesso ci radunava tutti. Era quello in cui mia madre faceva il pane nel forno a legna. Ma non venivano cotte solo le focacce. La mamma preparava anche le scacciate con cipolle, broccoletti e formaggio e le pizze con olive, acciughe e uova sode. A richiesta poi si potevano personalizzare i gusti. L’assaggio era perciò obbligatorio e il risultato travolgente. Erano proprio delle leccornie! A quell’epoca, infatti, non esistevano le diete a punti, quelle vegane o proteiche. Tutti, o quasi, eravamo longilinei e asciutti. Sarebbero ancora molte le storie da raccontare. Per ora ci lasciamo con le pizze rustiche e il buon profumo di pane cotto nel forno a legna di mamma Rosa.






IL RITORNO DI PINOCCHIO



Si chiamava Antonio, ma per tutti era Pinocchio e non si infastidiva per nulla di quell’appellativo col quale conviveva fin dalle classi elementari. Da piccolo, per quel suo naso pronunciato e anche per l’abitudine di raccontare bugie, i compagni gli avevano appioppato quel nomignolo. Antonio ci marciava e spesso si firmava proprio come l’eroe di Collodi. Alle superiori spesso era assente dalle lezioni e, nei giorni di verifica, sempre “ammalato”. La mamma era disperata nel vedere quel figlio svogliato, apatico e prepotente. Pinocchio non accettava consigli da nessuno ed essendo l’ozio il padre dei vizi, a forza di bighellonare, si ritrovò in un giro di amici per niente raccomandabile. Un gruppo di nullafacenti che bivaccava nel parco della città e che lo aveva accettato nel proprio “organigramma” a patto di rispettare regole e gerarchia. La prima di queste era l’ubbidienza al capo e l’esecuzione dei suoi ordini. Pinocchio accettava tutto questo con entusiasmo perché gli avevano promesso una vita facile, di successo, con tante soddisfazioni e che, a breve, lo avrebbe portato alla ricchezza. In poco tempo si trovò invece immischiato in un giro di droga della quale ormai non riusciva a farne a meno. Per procurarsela occorreva anche sborsare dei quattrini e allora qualsiasi decisione diventava necessaria per ottenere il denaro e soddisfare l’impellente bisogno degli stupefacenti. Ogni atto, alla fine, risultava lecito perché la droga ormai era diventata la padrona di Pinocchio e come diceva Dante: “ E ha natura sì malvagia e ria, che mai non empie la bramosa voglia, e dopo il pasto ha più fame che pria”. Divenne perciò un ladro per soddisfare la sua bramosia e anche per sottostare ai perentori dettami del suo capo. E poiché “tanto il topo va al lardo che ci lascia lo zampino”, fu cosi che Pinocchio si ritrovò nella cella angusta di un carcere di provincia per furto, scasso e per aver malmenato una vecchietta che voleva derubare. Il carcere fu un’esperienza terribile non solo per la privazione della libertà, ma soprattutto per le crisi di astinenza dalla mancanza di droga. Nella cella della casa circondariale trovò dei compagni di stanza che cercavano di schiavizzarlo ma, poiché era un tipo orgoglioso della sua autonomia, riuscì a non farsi sottomettere. Nell’istituto penitenziario fece amicizia con un frate che svolgeva il servizio di cappellano della struttura. Il francescano, un giorno, lo provocò dicendogli una verità che lo fece riflettere. Il religioso gli dimostrò che in carcere era più libero di quando viveva nella vita normale dove era ormai governato dai vizi. Lasciato libero sarebbe ricaduto nelle sue vecchie schiavitù. Questa analisi fu la molla che cominciò a spingere Pinocchio verso la vera libertà. La spinta decisiva arrivò dalla mamma che nelle sue continue visite non gli faceva mancare l’amore e l’affetto che in questi casi è vitale. Pinocchio percepì chiaramente che senza l’amore non si può vivere. Senza l’amore la vita è un inferno. In carcere il tempo non passava mai, si contavano le ore, i giorni e i mesi. Finalmente però arrivò la tanto sognata e desiderata uscita verso la libertà. Prima di lasciare il carcere Pinocchio salutò i compagni di cella, i secondini e soprattutto il frate che lo aspettava vicino alla porta. Il francescano lo abbracciò e gli ricordò la frase di Platone che diceva: “La libertà consiste nell'essere padrone della propria vita e nel fare poco conto delle ricchezze”. Gli fece anche presente quanto diceva Pericle: “La felicità consiste nella libertà, e la libertà nel coraggio”. “Insomma” - precisò il cappellano - “ci vuole un po' di coraggio e abbastanza buona volontà per non restare schiavi”. Consegnò poi a Pinocchio il Vangelo con l’invito a leggerlo, meditarlo e cercare di metterlo in pratica. Lo aprì e lesse la frase: “Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi". “Ti auguro” - disse il francescano guardando negli occhi Pinocchio – “di trovare la Verità”







IL RISCATTO DEL PENSIONATO



Oscar era un pensionato quasi settantenne e in discreta salute, stanco però delle critiche e dei sarcasmi che continuamente subiva quando si recava al bar o al supermercato. Alcuni lo consideravano un peso sociale, altri dicevano apertamente che l’Italia andava male perché doveva mantenere un esercito di pensionati che gravavano sul bilancio dello stato e quindi sulle spalle dei contribuenti. Oscar tentava di difendersi affermando che aveva lavorato per moltissimi anni e che aveva versato regolarmente i contributi per la pensione, perciò quest’ultima era un diritto sacrosanto. Gli interlocutori facevano finta di dargli ragione ma poi gli spiegavano che i suoi contributi chissà che fine avevano fatto e di sottecchi facevano dei sorrisini malevoli. Perfino quando andava ai controlli sanitari qualche paziente maleducato lo guardava con un certo distacco quasi a fargli capire che poteva cedere il posto ai più giovani che avevano più impegni. Insomma questa situazione lo avviliva. Un giorno ebbe un acceso scambio di opinioni con un passeggero del bus il quale disse apertamente, citando la Costituzione, che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro e non sui nullafacenti. Oscar questa volta provò insieme rabbia e tristezza e non volle rispondere alla provocazione. Decise però di portare la sua umiliazione ai vertici dello Stato. Una mattina si presentò direttamente al palazzo del Quirinale e su un cartello scrisse: “Sono un pensionato stanco e avvilito e vorrei parlare con il Presidente della Repubblica”. La gendarmeria allontanò gentilmente dalla porta l’anziano anche perchè stava per uscire proprio il Capo dello Stato per motivi istituzionali. Infatti dopo qualche minuto arrivò una macchina blindata preceduta e seguita da auto e moto che facevano da scorta. Oscar non si scoraggiò e quando stava per transitare il Presidente cominciò ad agitare il cartello. Il Capo dello Stato fece fermare l’autista e chiese alla security cosa volesse quell’uomo. Gli spiegarono il motivo della protesta e il Presidente comunicò che lo avrebbe ricevuto il pomeriggio. Oscar non stava nella pelle, finalmente poteva portare la sua istanza sul tavolo della prima carica dello Stato. Così nel pomeriggio, accompagnato da due corazzieri, si presentò al Presidente. Spiegò il motivo della sua protesta raccontando che, da pensionato, veniva spesso preso in giro solo perché era in quiescenza e per tanti era considerato inutile o addirittura un parassita sociale pur avendo versato i relativi contributi. L’anziano, citando l’Istat, ricordò che milioni di pensionati aiutano i figli e si rendono utili per assistere i nipotini. Inoltre, disse, considerando che ormai i posti di lavoro sono sempre di meno, è solo perché i lavoratori vanno in pensione che si liberano dei posti. Insomma, disse Oscar, se non si creano pensionati non si creano neppure nuovi posti di lavoro per i giovani. Il ragionamento trovò l’approvazione del Presidente della Repubblica il quale chiese in concretò cosa volesse Oscar. Questi rispose: “Desidererei che si facesse giustizia cambiando il primo articolo della Costituzione”. Il Capo dello Stato si fece serio e cercò di capire. “E’ semplice”, disse Oscar, “basta aggiungere che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro e sui pensionati perché anche quest’ultimi hanno contribuito al benessere della nazione e continuano a farlo. Inoltre si sta cercando di far scomparire la nostra categoria portando l’età pensionistica sempre più vicina alla soglia della morte naturale. Bisogna cercare di impedire tutto ciò”. “Questo è vero”, disse il Capo dello stato, “ e approvo la tua tesi”. Inviò una lettera in tal senso ai parlamentari i quali recepirono la richiesta del Presidente. In definitiva non occorreva aprire nuovi capitoli di spesa perché il cambiamento aveva solo un valore altamente simbolico. E fu così che, nel giro di pochi mesi, si cambiò il primo articolo della Costituzione che chiariva come i pensionati fossero componenti attivi e importanti della società. Fu approvata, altresì, anche una legge che fissava, al massimo, a 63 anni il diritto alla pensione. Da quel giorno Oscar andava al supermercato e al bar molto soddisfatto dicendo a tutti con orgoglio che era un pensionato e nessuno ardiva aggiungere critiche o sorrisini. Anzi, proprio gli amici del bar, pochi giorni dopo l’approvazione della legge, consegnarono ad Oscar un premio per aver contribuito a valorizzare la figura del pensionato. È quasi superfluo dire che da quel giorno il nostro eroe si chiamò “Premio Oscar”.






COMUNICARE È FONDAMENTALE



In un monastero addossato ad una montagna viveva un gruppo di monaci. Un tardo pomeriggio il superiore riunì nel refettorio tutta la comunità monastica e quando i religiosi presero posto, ansiosi di conoscere il motivo dell’insolita convocazione, entrò l’abate vestito in modo a dir poco stravagante. Indossava una tonaca che gli copriva appena le ginocchia; in pratica sembrava indossasse una gonna. Tutti i cenobiti si guardarono l’un l’altro e mentre qualcuno sorrideva altri sottovoce mormoravano preoccupati dello stato mentale del loro capo spirituale. L’abate sgombrò subito le facili insinuazioni. “Lo so”, disse, “tutti vi state chiedendo il motivo del mio insolito abbigliamento e per spiegarlo comincerò da un racconto”. Il monaco in gonna si piazzò in mezzo allo stanzone e iniziò la storia. “In un piccolo paese viveva una vecchia signora che per età e acciacchi non era più in grado di uscire per fare gli acquisti. Aveva però quattro figli e un sabato mattina decise di chiamare il più giovane per chiedergli di comperarle il pane per tutta la settimana. Il figlio però, dispiaciuto, si scusò spiegando che era in partenza assieme agli amici per un’escursione in montagna. La donna allora ripiegò sul più grande dei rampolli, ma questi, al telefono, rispose che era fuori paese per un impegno di famiglia. Anche gli altri due figli contattati accamparono scuse e, alla fine, la donna si persuase di telefonare al supermercato del paese riuscendo così a fare la riserva di pane settimanale. Passò poco tempo e sentì bussare alla porta. Era il figliolo più piccolo con in mano un bel sacco di pagnotte. Spiegò che si era liberato dall’impegno e quindi le aveva portato il pane richiesto. La mamma, per evitare di metterlo in imbarazzo, non gli disse che aveva già provveduto, ringraziò la sua creatura e, dopo averlo salutato, rientrò in casa. Non passò neppure mezz’ora che arrivò un altro figlio. Anche lui sorreggeva un bel sacchettone di panini. Spiegò che cambiando il programma della giornata era riuscito a soddisfare la sua richiesta. Similmente fecero anche gli altri due figli e, alla fine del giorno, l’anziana donna si trovò con ben cinque sacchi di pane sufficienti per un mese. La mamma si rammaricò perché capì che i suoi figli non si erano parlati e non avevano comunicato fra loro. Ora cari fratelli vi state certamente chiedendo cosa c’entra la storia del pane con il mio inconsueto abbigliamento. Ebbene, l’altro giorno avevo chiesto al nostro portinaio se mi accorciava la tonaca che ora indosso e che all’inizio trasbordava oltre il mio piede di 20 centimetri. Mi rispose che non aveva tempo perchè doveva correre in una parrocchia. Chiesi poi la stessa cosa all’economo e mi rispose che la sua presenza era richiesta dal commercialista. Passai la medesima richiesta ad altri due confratelli che, indaffarati, chiesero scusa con estrema gentilezza, ma non misero mano al mio saio. Anch’io poi ebbi un impegno e rimasi assente dall’abbazia tre giorni per un ritiro spirituale. Bene! Al ritorno ritrovai la mia veste trasformata in gonna. Questo perché i monaci prima interpellati, si erano liberati dalle loro incombenze e ciascuno aveva accorciato autonomamente la tonaca fino a farla diventare la gonna che vedete. Riflettendo mi sono reso conto, cari confratelli, che voi non comunicate tanto. Ordino perciò, da questo momento, che ognuno di voi parli con i suoi confratelli, possibilmente di cose spirituali, ma anche di cose pratiche, per almeno cinque minuti al giorno!” E così si concluse l’insolita riunione dell’abate in veste audace.






L’ ASINO CODINO



Nella periferia di un paese collinare della pedemontana veneta si ergeva un bellissimo monastero abitato da una comunità di suore. Le religiose conducevano una vita di preghiera oltre che di attività pratiche. Alcune coltivavano un bellissimo orto da cui traevano il necessario per il loro sostentamento mentre altre costruivano oggetti sacri e artigianali che poi venivano offerti ai visitatori. Una volta alla settimana, due di loro a turno, si recavano in paese, nel giorno di mercato, per vendere i loro prodotti agricoli e anche per acquistare merce per la normale vita conventuale. Un giorno alcune suore dissero alla badessa che sarebbe stato utile possedere un asinello. L’animale, spiegarono, le avrebbe sollevate dalla fatica di portare gli ortaggi al mercato e dal riportare la merce acquistata in convento. La badessa tagliò corto affermando che il convento non poteva permettersi quell’acquisto semplicemente perché non disponeva dei fondi necessari. Una di queste, suor Pacifica, propose di chiedere aiuto alla Provvidenza. La badessa non poteva più rifiutare la richiesta visto che si trattava di pregare per un’intenzione lecita e utile. Intervenne suor Angelica, la portinaia, che invito tutte le suore a fare una novena a San Giuseppe. Il perché era scontato: San Giuseppe aveva portato sull’asino la sacra Famiglia in Egitto. Tutte le religiose erano d’accordo e subito si portarono in cappella di fronte alla statua del patrono universale della chiesa e iniziarono così la novena. Una monaca, suor Celeste, che era una provetta pittrice, dipinse su un foglio di carta un bell’asino che sistemò dentro una busta ai piedi della statua. Al termine dei nove giorni, di buon mattino, si senti suonare il campanello del convento. Suor Angelica appena aprì il portone trovò Antonio, un contadino del paese che conosceva, con in mano una corda che legava un bellissimo ciuco. Il contadino spiegò l’intenzione di regalarlo al convento avendo visto la fatica che facevano le monache nel portare la merce al mercato. Arrivò anche la Badessa contenta e anche meravigliata della coincidenza con la conclusione della novena a San Giuseppe. Il contadino spiegò che l’animale era mite e laborioso. Unico difetto quello di essere nato con mezza coda. Alle suore non parve una gran pecca per cui accettarono di buon grado il quadrupede che subito chiamarono, ovviamente, Codino. Tutte le suore erano contente di Codino che si mostrava affabile e mansueto. La badessa richiamò le suore alla riconoscenza. Era doveroso ringraziare San Giuseppe per la grazia ricevuta. Tutte si ritrovarono attorno alla statua e la badessa notò la busta ai piedi del santo. La aprì e guardando il disegno con meraviglia esclamò: “Ecco perché il nostro asino ha mezza coda! Tutta colpa di suor Celeste!”. Apparve così l’asino, tanto grande da riempire il foglio e per il quale non c’era stato spazio per disegnare la coda. La pittrice aveva solo accennato ad una sorta di coda mozza. San Giuseppe insomma l’aveva presa in parola! Suor Celeste aveva dimenticato quel particolare, ma i santi sono gioiosi, lieti e anche ironici.






QUANDO L’ASINO DIVENNE MINISTRO DI CORTE


In una ricca regione del vecchio continente, all'interno di un bellissimo castello, viveva un re con la sua regina. Una mattina, dopo aver consultato i suoi esperti e chiesto consiglio a qualche dignitario di corte, il sovrano decise di portare la sua dolce metà ad una scampagnata nei boschi limitrofi, assieme agli amici e ai nobili blasonati. Il corteo si mosse quando il sole era già alto all'orizzonte perché la regnante aveva perso qualche ora per farsi bella ed elegante. Mentre la carrozza scoperta avanzava verso la destinazione assieme al ricco corteo regale, gli uomini del contado, che si erano passati la voce, accorsero numerosi per curiosità o simpatia ad omaggiare le autorità. All'improvviso, quando il sovrano stava per addentrarsi nella boscaglia, si fece avanti un contadino con il suo asino e in modo accorato invitò il re a rientrare quanto prima in castello perché, diceva, presto si sarebbe scatenato un vero e proprio uragano. Il monarca accennò un sorriso tra l'ironico e il compassionevole e con piglio distaccato tranquillizzò il suddito spiegandogli di essere sicuro che il tempo sarebbe rimasto bello perché aveva ricevuto la garanzia dai sui esperti meteorologi e anche da un mago sensitivo con capacità pseudo divinatorie. E così il sovrano tirò dritto verso la buia boscaglia. Neppure il tempo di entrare nel fitto verde che il cielo cambiò rapidamente e subito cominciarono a sentirsi tuoni e a vedersi lampi accecanti. Nel giro di pochi minuti si scatenò una specie di fortunale con pioggia che scendeva a raffiche. Insomma un'alluvione vera e propria. Il re fu costretto in fretta e furia, armi e bagagli a rientrare, facendo una pessima figura davanti ai sudditi e soprattutto alla fradicia consorte che incolpò il marito di trovarsi in quella tragica e ridicola situazione. Per strada rivide il contadino che dentro un pesante impermeabile lo salutava. Il sovrano gli mandò una sua guardia con l'invito perentorio a presentarsi il giorno dopo a corte. Il contadino cominciò ad aver paura perché temeva che il re lo credesse responsabile dell'uragano. La sua buona coscienza però lo tranquillizzò e si recò al castello. Il re chiese come fosse riuscito a prevedere il terribile acquazzone mentre i sui esperti avevano fallito. “Sire”, disse il suddito, “non ho nessun merito. È stato Uragan a suggerirmi tutto ciò”. “E chi è questo Uragan?”. Chiese con voce sempre più concitata il monarca. “È il nome del mio asino; quando sta per approssimarsi un forte temporale lui abbassa la testa e le orecchie. Finora non ha mai fallito una previsione”. Il sovrano restò stupito e chiese consiglio alla regina. La nobile metà ricordò al consorte che l'imperatore romano Caligola aveva eletto il suo cavallo Incitatus alla dignità di senatore. Nulla vietava perciò che anche Uragan potesse diventare consigliere e ministro del re. E così avvenne. Il sovrano cacciò dal suo regno i meteorologi e il mago ovviamente fasullo e ciarlatano e incaricò Uragan. “Maestà”, disse il contadino, “questa scelta mi onora” e con un grande inchino ringraziò il suo sovrano. La cosa arrivò anche alle orecchie dei sudditi del re e qualcuno commentò così: “Speriamo che questa moda non prenda piede altrimenti in futuro troveremo, nelle stanze del potere, sempre più esperti con le orecchie lunghe”.






UN FUTURO SENZA IL NATALE


Chiara era un’alunna di terza media di una scuola di città ed era l’anno 2050. Un mattino di dicembre, mentre si recava nel suo istituto, una leggera nevicata imbiancava strade e colline. Appena arrivata in classe sia lei che i compagni non parlavano d’altro. Tutti infatti speravano che nevicasse copiosamente per poi fare giochi e tanti pupazzi. Gli alunni erano elettrizzati e non facevano che guardare attraverso i vetri i fiocchi cadere silenziosi. Chiara propose all’insegnante e ai suoi compagni di realizzare in aula il presepe per il Natale. La classe era composita e c’erano alunni provenienti da tante parti del mondo e molti non sapevano neppure cosa fosse il presepe. Da tanti anni infatti la festa del Natale era stata abolita civilmente e gli alunni quel giorno si dovevano recare regolarmente a scuola. Tutto questo era stato disciplinato dalle autorità per non urtare la sensibilità degli altri studenti che avevano una fede diversa e un calendario delle festività diverso. La nostra alunna però era abbastanza tosta e spiegò che quella ricorrenza abolita, un tempo, come gli raccontava la nonna, era la festa delle feste. Un alunno musulmano e un altro buddista chiesero allora cosa fossero il Natale e il presepe. L’insegnante spiegò l’antica tradizione del Natale. Precisò che era un fatto storico che richiamava la nascita di Gesù in Palestina e che, per i cristiani, è il figlio di Dio che si fa uomo. Altri chiesero se la storicità di Gesù fosse certa. “Cristo”, rispose l’insegnante, “ è il personaggio storico per eccellenza. Nessun uomo ha tanti riferimenti storici, letterari e artistici come Gesù. Infatti la storia si divide in prima di Cristo e dopo Cristo”. Ci fu un attimo di silenzio, poi Chiara riprese: “La festa del Natale e la rappresentazione del presepe non sono solo prerogative dei cristiani, ma ricorrenze aperte a tutti gli uomini. Il Natale è una festa che accomuna tutti, poveri e ricchi, grandi e piccini di qualsiasi nazionalità. Infatti Gesù è venuto per chiunque e nel presepe trovano posto i pastori e i Magi, le pecore e i cammelli, i dotti e i semplici”. I ragazzi non si dimostrarono contrari all’iniziativa, ma sollevarono dei distinguo. Una ragazzina buddista propose di chiamare il Natale festa della natività perché appunto rappresentava la nascita di un bimbo. E sulla lavagna elettronica scrisse in caratteri cubitali “Natività”. La compagna di banco esordì affermando che la nascita di un bimbo presuppone l’amore di una mamma e di un papà, per cui la festa poteva definirsi festa dell’amore e quindi si recò allo schermo digitale e sotto la parola Natività scrisse “Amore”. Un ragazzo giudizioso osservò che tale festa coinvolgeva tutti e andò a scrivere “Tutti”. Fu la volta di un’alunna che si richiamò all’amicizia tra i popoli e quindi propose di chiamare l’avvenimento festa dell’amicizia e così scrisse sulla lavagna “Amicizia”. Ad una ragazza venne in mente che la mamma, una sera, le aveva raccontato che quando nacque Gesù una stella cometa, molto luminosa solcava il cielo e perciò suggerì di chiamare tale ricorrenza “Luce”. Un alunno minuto suggerì di chiamare il Natale, in quanto ricorrenza divina, una festa per sempre e scrisse alla lavagna la parola “Eternità”. Ed ecco la sorpresa! Tutte quelle parole messe insieme ed in sequenza, davano come risultato l’acronimo e il significato del Natale.






BARRY E LA CASA DOMOTICA



Barry era un signore di mezza età che amava il modernismo e tutte quelle diavolerie digitali e robotiche che mirano a rendere comoda e sorprendente la nostra vita. Aveva trasformato la sua abitazione in un esempio concreto di casa in totale dipendenza dalla tecnologia e dall’informatica. L'accesso era controllato da una serratura che si apriva con un comando vocale calibrato sulle frequenze della voce di Barry, inoltre la chiave di supporto agiva con un temporizzatore programmato. In alternativa tutto si sbloccava con le impronte digitali. Delle webcam monitoravano il giardino e l'accesso a porte e finestre e, nel caso notassero qualche intruso, partiva l'allarme sul suo smartphone e alla polizia. L'interno poi sembrava una capsula spaziale. Le luci si accendevano al suo passaggio, gli specchi erano interattivi e un software sofisticato riconosceva l'umore del viso di Barry. In conseguenza di ciò partiva una voce che lo incoraggiava se notava una espressione di tristezza o si complimentava se era sorridente. Un minuscolo robot, a sembianze feline, lo salutava con un miagolio appena entrava nella sua zona d’influenza. Il frigo inviava messaggi Bluetooth per comunicare i cibi mancanti. Lo stesso per il bagno: water con aspiratori, getti idrici millimetrici, apertura e riscaldamento tramite sensor. Camera da letto con materasso memory a temperatura programmata, posizionamento studiato. Sul comodino una abajour a luminescenza multicolor e una caffettiera a cialde che si metteva in funzione al suono crescente dello sciabordio del mare del suo bi-orologio. Barry la mattina si svegliava con il profumo del caffè e il rumore delle onde. Di notte, quando si alzava, si illuminavano delle tracce led sul pavimento per rendere sicuro il tragitto dal letto al bagno. Scale mobili in salita e discesa. Sensor che avvisavano se arrivava posta cartacea nella cassettina porta lettere. Viva voce per interagire, chiamare e rispondere da qualsiasi punto della casa, sia al telefono che al citofono. L’informatico proprietario aveva inoltre una batteria di droni a comando remoto e a percorso programmato, capaci di raggiungere in pochi minuti una serie di indirizzi predisposti per l'emergenza, la sicurezza o il tempo libero. Insomma Barry dimostrava tutta la sua talentuosita' nella sua abitazione ultra moderna e sofisticata. Il suo motto era: "sicurezza e comodità sono la mia identità!". E non faceva altro che vantarsi della sua casa intelligente e interattiva e con orgoglio stupiva amici e vicini. Un giorno mentre si godeva un programma televisivo sulle ultime novità di robotica umanoide, avvertì un fortissimo boato con un lampo accecante tale da terrorizzare chiunque. Un fulmine si era abbattuto proprio nel suo giardino. Per un attimo si fece buio e tutte le apparecchiature di Barry andarono in tilt a causa dei forti campi magnetici generati dalla scarica. Appena la luce ritornò niente più era come prima. La tv emanava odore di bruciato, Il water apriva e chiudeva il coperchio a intervalli irregolari mentre un getto fortissimo di acqua inseguiva chi si avvicinava. Le scale mobili andavano su e giù a caso e la porta principale si apriva e si chiudeva a grande velocità con il rischio di spaccare la testa a chiunque tentasse di avvicinarsi. Il frigorifero inviava segnali Bluetooth che mancavano 300 uova nella cassettina predisposta. Barry nel vedere quella tragica situazione ebbe subito una crisi tremenda di identità. Si sentì perso e senza nessuna sicurezza. Tutto il suo mondo era crollato in un attimo. Era bastata una scarica elettrica, un colpo di fulmine! In preda al panico telefonò ai vigili del fuoco che arrivarono dopo qualche minuto. La situazione era da cartoon televisivo. I vigili non sapevano da che parte iniziare. Cercarono di guadagnare l'entrata bloccando di forza la porta che pericolosamente oscillava tagliando i cavi di alimentazione. Appena all'interno dell'abitazione scattarono però tutte le misure antintrusione predisposte in automatico. Si aprirono dei bocchettoni a scomparsa dal soffitto e cominciò a piovere sapone liquido sul pavimento e ciò impedì ai vigili di stare in piedi. Tutti a gattoni perciò nel tentativo di imboccare l'uscita. Ma non era finita! Quasi contemporaneamente dai lati dei muri si aprirono delle fessure mimetizzate dalle quali si sprigionò un forte gas irritante. Le luci cominciarono a spegnersi e riaccendersi con effetti lampeggianti psichedelici e dallo specchio interattivo partiva una voce incoraggiante che diceva: “Barry, sei forte, continua così!”. Anche i droni si misero in movimento alzandosi in volo e roteando sul giardino con traiettorie da capogiro per poi scontrarsi fra di loro. Alcuni si schiantarono contro i vetri delle finestre. I vigili non riuscivano a difendersi e credendo si trattasse di una sorta di imboscata, minacciarono di denuncia penale il disperato proprietario che era sempre più spaventato e avvilito. Passò qualche mese prima di risistemare la domotica casa e Barry, dopo quella nefasta esperienza “fulminea”, cambiò atteggiamento. Azzerò tutti i comandi, distrusse quasi tutta la strumentazione digitale e si recò al canile municipale per adottare un bellissimo e robusto cane bastardino. Aveva scoperto che il cane era in grado di sentire persino gli infrasuoni. Possedeva un fiuto un milione di volte più sensibile dell’uomo e nessuna macchina elettronica poteva imitarlo in questo. Inoltre, cosa importantissima, era affettuoso. Scoprì così che l’antico amico dell’uomo era l’oggetto più avveniristico del mondo, capace anche di dissuadere qualsiasi malintenzionato. Lo addestrò ad aprire la porta, a scovare in qualsiasi posto il telecomando e le chiavi dell’auto che spesso non trovava e ad avvisare se il postino imbucava qualche lettera. Ecco perché chiamò il suo amico a quattro zampe Chip. E la mattina, quando Barry si alzava, Chip lo aspettava ansioso di salutarlo e di fargli spontaneamente un sacco di feste non programmate





mail: laudaniorazio@virgilio.it

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