ALFABETI DEL MONDO
di Franco Patruno
Non è solo un gioco. L'alfabeto, ogni alfabeto, ha forma legata alla propria radice etnica e culturale. E' per natura origine delle parole e, in sequenza, del linguaggio. La pagina suggerisce una distribuzione di spazi e un'organizzazione di linee che s'impone come dato iconico e, spesso, cromatico. In altre parole: prima si vede poi si legge. Il campo visivo si presenta nella sua esteticità, nel valore degli equilibri e nelle estensioni decorative che dilatano graficamente lettere e parole. Questo dato non viene escluso con la nascita e con il progressivo affermarsi della stampa, ma favorisce diverse impostazioni che dalle officine quattrocentesche arrivano alla Bahuaus. La possibile bellezza dell'alfabeto abilita ad una lettura non superficiale e, a suo modo, celebra la parola. Anche se non si accede a prospettive teologiche e filosofiche che gratificano la parola come Verbo o come interiore coscienza del mondo, tale esteticità non è puro estetismo fine a se stesso. Certo, sia la tradizione ebraico cristiana che quella delle religioni orientali suppongono un ascolto come fondamento della lettura, quasi una contemplazione stupita di una presenza che non si può vedere ma che può essere accolta come mediazione ispirata, un dono gratuito che viene adorato o venerato nel culto e nella multiformità dei riti liturgici.
Se è vero che l'alfabeto, simbolico ancor prima del diventar parola e discorso, non è un gioco, è bene aggiungere che è anche un gioco. Rallegrarsi, infatti, non è censurare la gioia della forma, della polivalenza delle espressioni visive e dei rapporti sempre nuovi che una cultura o una singola intuizione creativa può suggerire. Questo è gioco che valorizza la fantasia e che, la storia delle scritture lo dimostra chiaramente, celebra la pagina rendendola prossima alla figurazione che, per tradizione, appartiene alle "belle arti". Non a caso la "Scrittura Creativa" e non pochi esiti della "Poesia Visiva" hanno cercato di superare i confini che dividono i linguaggi, facendo della pagina scritta un "quadro" a tutti gli effetti.
Serioso incipit per Gloria Soriani? Non credo: i suoi alfabeti, simili e dissimili come le arsi e le tesi del canto gregoriano, sono una gioiosa celebrazione della e delle parole. Anzi: assimilano l'umore delle origini e compiono una razionale opera di comprensione e di interpretazione. Stupita, Gloria ci informa che tutta una tradizione figurativa contempla la parola e ha origine dalla bellezza dei segni dell'alfabeto. Si pensi a quello di Mirò, il cui universo è parola cromatica giocata nello spazio, in una sorta di giardino ludico per adulti che si fanno bambini e di bambini che, giocando sulla giostra delle parole, sono più adulti di quanto non si possa credere.
Le inclusioni sono senza soluzione di continuità: in una lettera abitano case e fiori, spazi azzurri e toni caldi del vespro. Il cielo si è fatto piccolo perché è immenso: solo ciò che è immenso può farsi piccolo nella curvatura di una lettera. Gli accordi sono tenui oppure polari, ma senza mai diventare alternativi; senza, cioè, che un tono o un colore distrugga l'altro. Tutto è funzionale anche se la funzione non è il suo fine. Suo fine è la bellezza. Oso la parola pur sapendo della precarietà e della relatività che essa assume soprattutto nelle odierne estetiche. Eppure, nella faticata gioia del costruire i tasselli di un mosaico sempre in formazione, le pagine di Gloria Soriani confermano quel "non detto" che, implicitamente, tutti avvertono. Impressiona la costanza alimentata dalla fantasia: ogni segno suggerisce ulteriori conferme e distinzioni. E' l'antica regola del ritmo, come un tocco, o rintocco, che suscita sempre nuove dilatazioni. Gli alfabeti del mondo, sembra dirci Gloria, si librano in un unico gioco. Con tutti i colori, appunto, del mondo.
Franco Patruno, presentazione alla mostra sull'Alfabeto ebraico, Istituto di Cultura Casa Cini, Ferrara, 2000