Con il flash-mob organizzato sabato 24 maggio a Lissone in piazza IV novembre insieme con la associazioni ANPI, RESQ, QDONNA, PACEFATTA, EMERGENCY, AMNESTY INTERNATIONAL e il CIRCOLO DON BERNASCONI, ma idealmente insieme a tutte le associazioni e i cittadini che in tutta Italia hanno risposto all’appello del gruppo “Ultimo giorno di Gaza”, abbiamo voluto portare un piccolo segno di umanità nel mare di orrore che è oggi quella stretta striscia di territorio palestinese.
La conta giornaliera dei morti ci lascia un senso di solitudine. Ci sentiamo impotenti davanti a tutto ciò. Sappiamo bene che la questione israelo-palestinese è storia lunga che si accartoccia su promesse, accordi e tregue violate da entrambe le parti.
Ma sabato, con un ritardo che non sappiamo giustificare, abbiamo voluto esprimere la nostra pietà nell’accezione più bella del termine – soffrire con, soffrire insieme – alle madri di Gaza che hanno perso figli, ai mariti che non hanno più mogli, e alle famiglie divise e annientate dalla ferocia, perché a Gaza è saltato tutto.
Siamo di fronte a un cortocircuito: i diritti umani, conquistati dopo la devastazione delle due guerre mondiali, sono calpestati quotidianamente con la complicità del mondo occidentale.
A Gaza si possono bombardare ospedali, università e luoghi di culto senza che nessuno batta ciglio. Nemmeno i cosiddetti “luoghi sicuri” sono più sicuri.
Ad oggi si contano più di 50.000 vittime: non siamo nemmeno capaci di visualizzarle.
Il genocidio non si consuma solo con le bombe (l’Italia è il terzo fornitore di armi dopo Germania e Stati Uniti), si prepara nel linguaggio, si legittima nella propaganda, si giustifica con l’ideologia. Alcuni hanno descritto Gaza come una scena del crimine. Gli intenti sono già tutti scritti.
La storia li leggerà e li ricorderà.
Poco importa quanti eravamo in piazza oggi: quello che conta è ciò che volevamo far sapere e cioè che non possiamo continuare a subire questa enorme violenza senza dire e fare nulla.
Non sentiamoci impotenti, la pace la costruiscono gli uomini.
Come si fa a piangere 50’000 morti?
di Elena Pitino
Io so cosa significhi piangere 1 morto.
So cosa significhi dover dire addio a una persona che ha fatto parte della mia vita da sempre, che se ne è andata prima del tempo all'improvviso, in modo ingiusto, assurdo, senza senso per la mia piccola mente.
So il vuoto che si sente nel pensarla, il desiderio di telefonarle che arriva forte un mattino dopo un sogno, il senso di incompiuto che mi attraversa quando realizzo che avremmo avuto una vita davanti e non c'è più.
Sento i dolori di chi resta, di chi è orfano e di chi non ha più un compagno con cui crescere dei bambini, sento il dolore di chi piange una figlia.
Sono amputazioni di sé. Sono anni che si impiegheranno a ricostruirsi, a rinascere da capo nel tentativo di non lasciare che il corpo sopravviva senza la persona.
Mi chiedo come si faccia a piangere 50.000 morti. Morti ammazzati. Nel modo più assurdo e atroce. Morti di fame, di stenti. Di armi prodotte da un mondo occidentale che mi disorienta. Ieri, oggi, domani. Per la violenza di uno o dell'altro. Sicuramente per la violenza che il mio mondo non sa condannare a causa di interessi che scavalcano l'uomo.
Il dolore è di chi resta?
E se non resta nessuno?
E se non ci sono più lacrime?
Se non c'è alcun futuro da pensare?
Forse la colpa sembra più lieve allora?
Io, che so cosa sia piangere chi si ama, voglio continuare a piangere chi non riceve più alcuna lacrima.