Religion e Folklore in Colledimacine
by Ugo Falcone
"Poiche i viventi non ci offrono gran campo di parlare di loro, parliamo, o lettori, de morti che, più operosi di noi, lasciarono larghe tracce de loro studi, e sgombri d'ogni umana passione, stan queti, e non si sdegnano de nostri giudizi. E faremo opera de carita per loro, e de utilità per noi; perocché molti di quei defunti sono ingiustamente dimenticati, mentre tanto diritto hanno all'ammirazione e alla gratitudine nostra."
D. Domenico Mascetta Canonico-Sacrerdote-poeta a letterato nonche' Patriota del Risorgimento.
Ora uno che noi abbiamo il dovere di salvare dallo'oblio e ricordare alla gioventù studiosa e certamente Domenico Mascetta educatore, sacerdote, oratore, poeta e martire, di cui molti, tra i suoi numerisi discepoli (che sono oggi tanta parte della generazione figura gentile, l'uomo dalle dolci maniere, dan folto aperto e sorridente, dall'aria candidamente mondesta, che ispirava simpatia, si faceva amare da quanti l'avvicinavano.
Natura elettissima la sua, tutta intessuta di umiltà, franchezza e bontà, un di quegli uomini accento ai quali ogni pensiero volgare sparisce.
Da "PROFILI ABRUZZESI" - Memor
Don Domenico Mascetta, canonico della Cattedrale di Chieti, insieme con i canonici don Goffredo Sigismondi di Bomba, don Serafino Grossi di Fara S. Martino, e con il poeta Giavanicenzo Pellicciotti di Gessopalena, negli anni che precedettero il 1848, fece parte del cenacolo teatino, in cui, discutendosi le idee politiche del tempo, si allimentarono ideali di liberta, e, conseguentemente, si preparo il terreno per gli avvenimenti del 1860 e per la festosa entrata di Vittorio Emanuele II a Chiete nell'Ottobre di quell'anno.
Don Domenico Mascetta era nato a Colledimacine, nel Chietino, il 17 giugno 1816 da una famiglia antica che vantava parentele con i Caracci di Bologna, ed era stato educato, in un primo tempo, dallo zio, l'Arciprete Mascetta, che fu poeta gagliardo e geniale, autore di versi dialettali ancora oggi ricordati popolarmente in Abruzzo, e poi nel Seminario teatino; e, ordinato sacui, nel Seminario stesso, era stato incaricato, in seguito, dell'insegnamento della Grammatica superiore.
Quelli che lo conobbero riferiscono ch'egli aveva ingeno poderoso, immaginazione vivace, voce armonica ed affascinante, che era persona aitante ed imponente, ricercatrice delle più intime latebre del cuore, di gesto misurato e composto, di modo che all'apparire sul pergamo, subito si conquistava l'affetto e la attenzione del pubblico sempre numeroso e sempre scelto. Dalla natura aveva sortito tutti i doni dell'oratore sacro, che, uniti alla sua profonda cultura, richiamando a quel tempo, intorno a lui, oltre la gioventu studiosa del Seminario, anche quella del gli attribuivano fama di ottimo deucatore.
E nelle maggiori solennita religiose, quando si sapeva che avrebbe predicato il Mascetta, accorrevan al tempio le più eminenti individualita d'ogni classe sociale.
Nel 1848, don Domenico, ch'era nel fiore degli anni, ebbe palpiti ardenti per l'avvenire della patria, ch'egli sognava libera e unita, e plaudi alla Costituzione elargita da Ferdinando II, ma si revelo, in seguito, uno de più ribelli al re spergiuro, tanto da essere dichiarato "attendibile politico". Tale fatto costituii per lui causa di una serie di persecuzioni, che poi si conchiusero in un processo politico. Nel discorso commemorativo ch'egli fece nella chiesa di Sant'Agostino di Chieti il 12 maggio 1864 sul defunto Barone don Francesco Sanita, gentiluomo chietino di provata virtù nonche patriota, egli, disse che, negli anni che seguirono il 1848, un' "attendibilita politica" era un tale marchio di riprovazione che nessuna condotta, per quanto irrepresibile, sarebbe mai riuscita a cancellare; e che quindi "stendere la mano a uno sventurato di questa fatta, rialzarlo dalla prostrazione in cui di ordinario cade l'uomo che lotta col principio della persecuzione rappresentato da una forza implacabile e feroce era un kpeccato, era prepararsi un luogo nella lista dei reprobi; era compromettere la propria tranquillita". Eppure, egli trovo chi lo aiutasse, e lo trovo nel Barone don Franceso Sanita, il quale, come patrono della cura arcipretale di Collemachine, allora vacante, lo propose per essa alla Curia arcivescovile di Chieti, che ne approvo la nomina.
Ando don Domenico a Collemcine? Per quanto mi risulta, egli ando a Collemcine senza, per altro, abbandonare definitivamente la sua cattedra nel Seminario Teatino, vi ando a risiedrvi a intermittenze di tempo, e dove esercitarvi il suo ufficio spirituale per pochi anni dan 1852 al 1854, e quella residenza, per gli effetti che ne derivarono, gli fu, in seguito, nociva. A Colledimacine non resto inoperoso. I vi egli dove allacciare relazioni con i patrioti della valle dell'Aventino da Lama, a Palena, a Montenerodomo, a Torricella; ivi, se e vero quanto narra una tradizione assai diffusa, nel 1854, dove ricevere clandestinamente Giuseppe Garibaldi, che, sempre stando a quello che si narra, sosto per tre giorni in casa sua, nella quale convennero i patrioti Simone Verlengià di Lama, don Serafino Grossi di Mara S. Martino, Vincenzo Persichetti di Torricella, e Tito de Thomasis di Montenerodomo, ai quali si unirono Biagio Rossi, Vito Giandolfo, Donato Salvatore e Paolantonio di Pietrantonio di Colledimacine.
Scopo della riunione fu quello di studiare eventuali azioni da svolgere nel futuro per la causa italiana.
L'effetto della'ttivita politica esercitata allora da don Domenico Mascetta a Colledemacine, forse a causa delle solite spie, forse anche per la vigilanza diretta della gendarmeria borbonica, sfocio in un processo che lo condusse nel carcere di Cieti, ove stette per un po di temp insieme con Gianvincenzo Pellicciotti, F. Auiriti, R. Lanciano, R. de Novellis, e altri della eleta schiera dei liberali,che allora onorava l'Abruzzo. Nel processo ricordato da BeniaminoCostantini nel volume "Azione e reazione negli Abruzzi", insieme con Giovanni Sabatini di Spoleto, Michele Care di Pescara, Luigi di Giacom di Lama, Camillo di Giacomo di Lama, Nicola Vincenzo Bomba di Lama, Girberto Martinelli di Lettopalena, Giuseppe Mascetta, Sarlo Luigi Mascetta e Sebastiano Mascetta, Emidiana Mascetta e Rita Giovanelli di Colledimacine, Simone Verlengià di Lama, e Raffael Reccione di Palena, viene imputato di "attentato e cospirazione ad oggetti, di distruggere e cambiare la forma del Governo, ed eccitare i sudditi e gli abitanti del Regno ad armarsi contro l"autorita Reale, dan 1852 in poi in Lama, Colledimacine e altrove". Con deliberazione del 28 aprile 1855 si dichiaro non esservi luogo a procedimento penale, per cui fu scarcerato insieme con gli altri; e, insieme con essi, fu prigione, s'era dato alla maccdhia, e che, una volta, essendo tornato a casa, e avendo avuto, subito dopo, i gendarmi alle calcagna, fu nascosto sotto il materasso d'un letto, sotto il quale, per mascherare cio che si celava di sotto, furono posti dei bimbi a giocare; il costituzione eccezionalmente robusta, fu rinvenuto, sotto il materasso, privo di sensi.
Quello che don Domenico Mascetta ebbe a soffrire allora e facile immaginare, che, alle umilizioni comuni agli altri patrioti, si aggiungevano quelle del disdoro, che egli vedeva provenire all'abito ecclesiastico, al quale, come sacerdote, sommanente tenva.
Usci dan carcere sereno come vi era entrato; e la sua uscita costitui per Chieti un ver avvenimento: egli fu accompagnato in casa del suo amico don Alessandro Gentile, ove abitava, da numeroso stuolo di ammiratori e cittandini varii, venne accompagnato da quelli che più gli erano vicini, cioe dai suoi allievi, che gli facevano corona. Tanta onda di simpatia, specie da perte dei giovani, lo commosse, cosi che, rivolto ad essi, declamo il seguente sonetto, che improvviso di getto, e che ne ritrae l'alta figura affettiva e morale:
"Ecco, o giovani, alfin vi ritrovai
di eletti studi e di speranze ardenti:
Oh! Quante volte con Sospir conenti,
a voi sull'ali dei pensieri tornai?
Quale ardito noccier non tremo mai
allo scoppiar dei turbini frementi,
tal io fra l'ira de contrarii venti
muto stessi. . .! ne vacillai.
E qual vile pensier, qual bassa cura
potria sviar quell'anima che sente
tutta la dignita della sventura?
La legge del piacer la scrisse un ria
sofo, che svergono l'umana mente:
la legge del dolor la scrisse un dio!"
La sua vita, in seguito, scorse senza turbamenti sino al 1860, salvo qualche episodio, che ci fa conoscere quanto fuoco egli covasse sempre sotto la cenere di una calma apparente.
Nel giorno delle ceneri del 1858 predico sul pergamo della Cattedrale di Chieti esordendo: -"Oggi la Chiesa dice: Memento homo quia pulvisa es et pulvere reverteris; io vi diro, cari fratelli: ricordatevi che siete polvere, e che uomini dovete ritornare"; esordio a cui segui tutto un inno alla dignita umana e al trionfo delle vertu civili. Poco empo dopo la sua discesa dal pergamo, si seppe che l'Arcivescovo Nons. De marinis gli aveva inflitta una puizione inviandolo, per alcune settimane, nel Ritiro di Orosgna.
Nel 1860, con lo sbarco di Garbaldi e la venuta di Vittorio Emanuele II la sua figura si impose, ed egli, insime con Canonico Sigismondi, ebbe l'onore di presentare al re, in occasione del suo ingresso a Chieti, la numerosa rappresentanza del clero dell'Archidiocesi teatina. Nel 1863, fu uno dei firmatarii della petizione del Padre Pazzglia. in seguito, la sua vita si svolse tra la Cattedrale e la scuola, quale insegnante della Scuola tecnica pareggiata e, per un po di tempo, quale rettore spirituale del Convitto nazionale; e, forse sarebbe trascorsa serena opme quella dei filosofi antichi, se un avvenimento increscioso, causato dalla sua bonte, non l'avesse profondamente turbato. Don Domenico era molto caritatevole. Di cuore tenerissimo, come tutte le persone di alto sentire, soccorreva con larghezza i poveri sotto qualsiasi veste gli si fossero prenentati. Una sera, mentre egli rincasava, uno di tali poveri gli si avvicino, e, col pretesto di avere da lui il solito soccorso, gli fece balenare la lama di un pugnale. Don Domenico condusse a casa con se il finto povero, e, veccio e trepido com'era, gli consegno quanto possedeva pur di non ricevere altro male: ma per il dolore ricevuto, in quella stessa notte, fu colpito da apoplessia. Si riebbe poi dalla malatia, ma da alloria ando perdendo la sua naturale energia. Ad affrettare la sua rovina fisca e morale concorsero anche dolori domestici. I fratelli da lui teneramente amati, s'ingolfarono in speculazioni disatrose, che li condussero alla rovina. A tanta iattura non pote resistere quell'organimo già debilitato dalla malattia, e lentamente declinando, mori L' 11 novembre 1870, rendendo la sua anima a quel Dio che egli aveva tanto amato e predicato.
La Seconda in occasione del Natale dle 1851:
Ciccio e nato, e nato Ciccio
viene a luce il gran pasticco
per oui parla gentilmente
da tanti anni tanta gente
La novella sparsa appena
tuti chiedon con grna lena
se alla corte fu creato
o fu a Napoli impastato
ma la cronaca verce
su tal punto ancor si tace.
Chi non dice a noi profani
pentrar d'amor gli arcani
pur sapendo che la cosa
fu finor difficoltosa
di voltare che ogni risposta
nel gran parto sia concorta
imposnendo al sovrumano
del civile e del parrocchino.
Dell'orgine di Colledimacine (Collis Macinarum).
Diamo qui di seguito i risultati delle nostre ricerche sull'orgine etimologica del nome del paaese di Colledimacine (Collis macinarum).
Il sintagma e di chiara orignie latina:
A. Collis = tardo latino collis/is femm. sing. / colle, altura, sito sopraelevato.
B. Macinaru = delle/di macine - genitivo pl. di macina/ ae/ termine latino con significato di maccinario, macina. Tale termine, mediato dal tardo greco -mechane- e da considerarsi "naturalizzato" latino a tutti gli effetti, tanto e vero che e parte constituente il suddetto sintagma origine dello attuale toponimo ben comprensibile in italiano corrente.
Questo per dire che l'origine del nome e sicuramente latina, da identificarsi nel menzionato collis macinarum. Se non vi fosse stato infatti il tramite latino, il nome avrebbe conservato lo stesso accento del genitivo plurale greco -mechanon-, trasformandosi in italiano in uno di quei toponimi abbastanza diffusi sia in Abruzzo che in Calabria e nel Meridione in genere, del tipo "tripito" (dal greco tripitos i forato) ed avremmo avuto quindi un toponimo simile a "colle me cano".
Sono naturalmente ipotesi, ma sisxsostengono l'una con l'altra anch col fatto che la posizione isolata del posto abbia isolatp lo stesso da una influenza marcata, perlomeno nella toponomastica, dell'elemento "greco-pelasgico-. Ad ulteriore dimonstrazione di cio l'assenza, gio notata, dell'appellativo "peligna".
L'unico dubbio che può persistere e quello di un eventuale diverso significato della parola macina-mechane. Sia in greco che in latino infatti i signifcati del termine spaziano da macina per il grano a maccinario in genere fino a maccina da guerra (cfr. gr. machena).
Abbiamo parlato della posizione de Colledimacine come isolata e predominante, mo proprio perche predominante, con funzione di controllo della vallata sottostante, era sicuramente ambita; era insomma una posizione da difendere: forse proprio con maccine da guerra di cui le macine di oggi sono i resti.
Anche per il significato di maccinario non mancherebbe una spiegazione: certo per le costruzioni murarie di tipo pelasgico si richiedevano o uomini di costituzione ciclopica o uomini normali ch si aiutavano con macinari atti all'uso!
Quanto alla realizzazione odierna "Colledimacine", diversa da quella "Colle delle macine" notata altrove+, non cisi deve stupire più di tanto
A parte infatti il possible dublice esito in italiano del genitivo plural latino, il più "corretto" -delle macine- sara confluito nell'attestato -di macine- attraverso la pronuncia dialettale, ch potremo roprodurre come "colle dij 'mmacine", semplificatosi infine nello scritto con l'attuale "Colledimacine".
. . . . . Tu giovin pastore,
zufolando vai
pelfiore gaillo
felice nell'amore
che nel cuore ti vive
e che sempre vivra.
(Massimo Rocovic)
Certamente la pricipale attivita dei nostri antenati era la pastorizia, fonte principale della loro esistenza.
Questa attivita seguendo il corso della stagione, si svolgeva in due fasi che avevano luogo in primavera ed in autunno, consistenti nella "TRANSUMANZA" delle greggi. Col ritorno della bella stagione, i pastori, dalla pianura del "TAVOLIERE" menavano le greggi verso le alture dei monti d'Abruzzo, percorrendo un primo tratto di costa adriatica, e poi, inoltrandosi lungo la val di Sangro, raggiungevano quella dell'Aventino, per poi fessare gli stazzi sui nostri pingui pascoli rigati da innumerevoli piccoli corsi d'acqua. All'approssimarsi dell'autunno avveniva la demoticazione.
Sono ancora visibili sui resti della vicina JUVANUM i ruderi poderosi del palazzo dei VECTIGALIS della pastorizia come già accennato, dove si pagava il tributo doganale degli armenti di transumanza.
Certamente quello della pastorizia, attivita che i nostri predecessori svolgevano su vasta scala, era molto redditizia per le nostre antiche popolazioni montane.
Ne derivo, fra l'altro, che i frequenti contatti con quelli della DAUNI, formarono una compenetrazione di usanze e costumi che divenarono comuni ad esse, non solo, ma molti nuclei familiari di una zona si fissarono nell'altra e viceversa.
ASSETTO TERRITORIALE VERSO LA NINE DELLA IMPERO ROMANO
Sotto l'Imperatore Augusto, l'assetto del territorio itlaico risulto articolato in REGIONI.
Le popolazioni degli abruzzesi: i PELIGNI, i FRENTANI, i MARSI, i MARRUCINI, e i SANNITI furono comprese nella IV REGIONE.
Adriano, nel 199 dell'era volgare, muto il precedente ordinamento politico, trasformand l'Italia in 17 REGIONI, al governo di ciascuna delle quali propose un console o un Correttore o un Preside.
L'innovazione creo un certo disorientamento fro le popolazioni nonche fra i geografi del temp. Le unita: amministrativ, prima demoinate MUNICIPIO e COLONIA restarono abolite e si annullarono tutte le prerogative di cui esse godevano in precedenza. Nelle nostre citta resto solo il diritto di scgliersi i "decurioni" che formavano l'ordine senatorio.
Altra trasformazione fu apportata dall'Imperatore Constatnino il quale divise id territorio italiano in tanti DIOCESI istituendo i Prefetti del Pretorio d'Italia, di Oriente, dell'Illiria e delle Gallie.
Al prefetto pretorio d'Italia, che risiedeva a Milano, dipendevano i Vicari di Roma e d'Italia insieme con i Consoli. il Viario di Roma risiedeva in Roma.
Sotto il Vicario di Roma Costantino ripose il SANNIO di cui l'Abruzzo faceva parte e chiamevasi Provincia Presidiale del SANNIO e percio si disse SUBURIBICARIA.
Come e narrato dagli storici, la caduta dell'Impero Romano fu dovuto principalmente alle mutate condizioni interne ed esterne ad affievolirse del sentimento di orgoglio degli antichi Romani.
Una causa determinante fu pure la varietà dei popoli soggetti alla dominazione de Roma; al lusso sfrenato, all'ingordigià della ricchezza e dei divertimenti, vizi che penetrarono nel governo, nell'amministrazione e nell'esercito finirono per distruggere le antiche virtu dei padri, affievolirono l'orgoglioso sentimento della romanita ed aumentarono i pericoli esterni: tarlo demolitore che abbatte il maestoso e grandioso edificio secolare di Roma:
Del frazionamento che ne venne dopo, profittarono ben presto i barbari, e prima fra esi, gli ERULI, di origine germanica guidati da Odoacre, e poi i GOTI di Alarico, i quali desolarono anche le nostre contrade d'Abruzzo, allorquando l'ultimo re dei GOTI, TEIA, si mosse dal Piceno con le sue orde, per soccorrere Cuma, in Campania, dove Totila, penultimo re dei Goti, era stato assediato dall'esercito i Narsete, gererale dell'Impero d'Oriente.
Per recare soccorso a Cuma, Teia segui l'itinerario descritto da alcuni storici:
". . .Teja, Re dei Goti, huomo bellicosissimo, essendo nel Piceno, ed intendendo Cuma assediata, ed il tesoro in pericolo, delibero soccorrerla et vedendo non poter passere l'Appennino per lo paso d'Isernia, ne per quello di Venafro et di Cassino, perche erano guardati dalle genti di Narse, fece la via dei Marsi et Peligni, et passo in Puglia ed accampossi a Luceria" (552-553).
E qual era la via per i Marsi e i Peligni? Non certo quela Adriatica perche il cronista avrebbe menzionato i Marrucini e i Frentani, prima di entrare in Puglia. Il cronista Cristoforo afferma nella sua opera che i centri della vallata Aventina quindi anche Colledimachine, fra cui e da supporre anche l'antica JUVANUM, di cui invano il Madonna di Torricel- la cerco le cause e l'epoca della distruzione, furono rovinate dai Goti.^
Le violente ondate barbariche si susseguirono accumulando rovine su roine. Fra queste, la più violenta fu la calata dei longobardi nell'anno 568.
^Sino ad oggi si ritiene secondo il Madonna che la citta "e scomparasa per mutevole detino d'ogni cosa terrena". Da JUVANUM di Elio Moschetta E.P.P.T. Chieti
L'INVASIONE DEI LONGOBARDI
Davanti a questo infernale ciclone, i Dizantini scarsi di numero, si rifugiarono nell'interno delle mura delle città costiere, sia per ifendersi meglio ma anche per ricevere soccorsi da Costantinopoli attraverso il Mediterraneo.
Da questa terribile sventura tocca all'Italia, si salvo relativamente la parte costiera della penisola, e cioè il litorale veneto, l'Dsarcato di Ravenna, il Ducato Roman, il Ducato di Napoli, la Puglia e buona parte della Calabria e la Sardegna, in quanto i Longobardi non disponevano di naviglio? Tutto il restante territorio della penisola cadde sotto la barbarie in tutta la sua efferatezza.
Guidati da Alboino invasero con le intere famiglie ed il bestiame quasi tutto il paese fino al fiume Sangro. Questo incremento lavori di fortificazione da parte di citta che già ne erano munite e l'esilio per altri. Quale via di scampo presero le nostre poplazioni all'avvicinarsi di cosi terribile flagello? Certamente i nostri lontani avi si rifugiarono verso le alture della maiella. Diffatti in contra "Melete" ad oltre 1770 metri d'altitudine, il De Nino ha rintracciato tracce remote di staniamenti umani, come resti di cocci di terracotta e di altri utensili primitivi.
Per aver un'idea della barbarie dei Longobardi, basta il gesto compiuto dal loro primo re Alboino, che obbligo la moglie Rosmunda, figlia di Cunimondo, re dei Gepidi, a bere nel teschi di suo padre, che il feroce re aveva usato come coppa. Dopo l'assassinio di questa belva umana, ad opera di Rosmunda, i duchi longobardi elessero re Autari, il quale prese per moglie la figlie dei re dei Bavari, Teodolinda, che era cattolica.
San Bendetto da Norcia, attraverso Teodolinda, indusse i Longobardi a farsi cattolici; per abbracciare una religione che, predicando la mitezza e l'umilta, li doveva aiutare a di ventare meno selvag i di quello che fino allora erano stati.
Le orde longobarde, sotto la guida di FAROALDO, avevano già occupato gran parte dell'Italia centrale e quindi anche l'Abruzzo.
Spingendosi lungo le principali vallate della Pescara, raggiunsero la conca Sulmonese, irradiandosi sulle alture, altre orde, aggirando la Majella, occuparono il Chietino e penetrando nella valle dell'Aventino, raggiunsero le nostre comunità.
E' superfluo ricercare le fonti per accertarsi della loro presenza nella Valle Aventina, in quanto sono abbastanza eloquenti i toponomi di alcune località dove essi presero dimora, come la vicina FARA SAN MARTINO, LAMA DIE PEILIGNI e FARA FILIORUM PETRI, lungo la valle del Foro, (1) qual che ceppo si inseri anche più a monte e non da escludere Colle, Palena, Lama e Taranta.
Altra considerazione e constituita dalle numerose chiese dedicate a San Michele Arcangelo ch divenne loro protettore. Ve n'era una anche nel territorio di Palena che sorgeva sopra un'altura dei monti Pizzi, di fronte al Santuario della Madonna dell'Altare, ove sono tuttora visible gli antichi ruderi della chiesa dedicata a San Michele Arcangelo.
I Longobardi suddivisero l'Abruzzo in sette GASTALDATI, Marsi, Valva, Amiterno, Forcone, Aprutium (Teramo), Pinne e Teate.
Il "Gastaldo" era il capo amministrativo e della giustizia di una gastaldia. Glia abitanti del Gastaldato Teatino" come quelli degli altri gastaldati, avendo giurato fedelta a Carlo Magno, conservando leggi e consuetudini longobarde: "in aprutio servatur jus; longobardum et illud expedit" (2) sicche solo le leggi longobarde erono le sole che venivano osservate. Ciascun tribunale secondo quelle, definiva le cause, e secondo le medesime si regolavano i contratui, le sucessioni, i testamenti, le punizinoni dei delitti, le confische e tutti "secundum Longobardum legem" erano molto sbrigativi e senza appello. (3)
(1) Le Fare erano gruppi di famiglie longobarde che vivevano alle dipendenze di un monastero, in cui l'Abate, oltre ad essere il loro capo religioso, era anche il capo civile della piccola comunita.
(2) TEIA: Jus Regni Long., Lib. IV.
(3) Fra gli articoli dell'EDITTO DI ROTARI eccone qualcuno:
- Se qualcuno avera pensato o tramato contro la persona del re, sara condannato a morte ed i suoi beni confiscati.
- Se qualcuno insieme col re avra tramato la morte di un'altra ossia avra ucciso un uomo per comando di lui, non sara per niente colpevole.
- Se qualcuno avra ucciso il proprio padrone, sara lui stesso ucciso.
- Se qualcuno avra impedita la via ad unao donna libera o ad una fanciullaossia le abbia fatto qualche ingiuria, dara una composizione di soldi 90.
- Quando di notte un "uomo liero" sarà stato trovato nella corte (abitazione) di un altro, e non avrà presentato le mani per farsi legare, se sarà ucciso non sarà ricercato dai suoi parenti; e se avrà presentato le mani per farsi legare e lo sarà stato, dara per riscattarsi 30 soldi.
- Se qualcuno avrà piagato un altro al capo in maniera da rompergli le ossa, per un osso comporra soldi 12. Se saranno stati due, comporra soldi 24.
- Se qualcuno avrà fatto cadere ad un altro uno o più denti mascellari, per un dente dara una composizione di soldi 19.
- Se un servo avrà osato unire a se in matrimonio una donna o fanciulla libera, incorrera nella pena di morte. E di quella che fu consenziente al servo i parenti abbiano la potesta di ucciderla, e di fare quello che vogliono delle cose di lei.
- Se qualcuno avrà trovato nel proprio prato uno o più porce a scavare fossi, ne uccida uno solamente e non sia ricercato.
Anche in questa autonoma usanza ne abbiamo testimonianza a poche centinai di metri dall'abitato di Colledimacine. Qui vi sorge un naturale dirupo dovuto al lento assestamento della terra. Oggi questo dirupo corrisponde al nome di Curth vecchia -alias Corte vecchia-.
Dalla storia non scritta ma tramandata dalle generazioni e da ritenersi che il tribunale di cui si parla "secundum longobardorum legem" di ceppo longobardo, fosse composto da vecchi costituenti la corte che a loro volta si riunivano in un luogo loro adibito; per Colle appunto era stato scelto Curte veccia. Oggi lo chiameremmo il Palaz accio, palazzo di giustizia. . . etc. etc. comunque la funzione a parte il nome era quello di amministrare la legge.
Da questa senile riunione ne scaturiva una sentenza e la relativa immediata esecuzione. Cosi il condannato a morte se viera, bendato, veniva trasportato di peso in cima e da li spinto ad imitare Dedalo dalla parte Est, che offre caduta libera per un centinaio di metri ed un atterraggio su irti e taglienti massi.
Nessuno e tornato!
perlomeno non ci e facile reperire notizie in questo senso. Li il cadvere veniva miseramente abbandonato a se stesso preda di rapaci animali carnivori.
Oggi cosa resta?
Non certo le ossa consunte e mangiate dal tempo. Resta la storia ed a sua testimonianza CURTH vecchia.
I rovi che lo circondano stanno ad indicare che questa pratica e in disuso ed appartiene al passato, e questo luogo di pena e giustizia immediata, ospita da qualche decennio un quieto naturale "residence" estivo ed invera le nella parte superiore per le volpi, e nella parte inferiore per in cinghiali.
Le terre teatine, dopo la caduta del Regno Longobardo, si trovarono staccate dal Ducato di Benevento. Infatti, il cronista Erchenperto narra che, quando Grimoaldo, signore di Benevento, nell'anno SOI si mostro nemico dei Franchi, Carlo Ragno, che allora era a Roma, non ricevendo atto di sottomissione, mando contro di lui Pipino, suo figliuolo, il quale, muovendo da Roma per La Marsica, e per i Peligni, con dusse l'esercito alle terre teatine che erano guardate dai Beneventani e pose l'assedio a Chieti, difesa gagliardamente dal longobardo ROSCHINO, ma dopo strenua lotta pipino l'occupo danola alle fiamme (4).
In quell'epoca, acolle esisteva già una delle prime chiese cristiane: SANCTA MARIA DE LA TOMBA fondata dai monaci benedettini di San Vincenzo al Volturno.
Similmente tali monaci fondarono a Palena un'altra chiesa cristiana "SANCTA MARIA DE PALINA" e cio viene riconfermato anche da Carlo Magno nel 774. (5)
Da quanto e dato sapere dei Longobardi e del loro modo di organizzare politicamente le genti, si ricava la convinzione che essi furono un popolo, diciamo pure una razza, in cui prevaleva il senso della vita e del modo di organizzare le forze umane sul piano della produzione.
Sembra chiaro che es i dettero molta importanza all'agricoltura, attivita nella quale dai primordi della civiltà umana, si e travata l'autentica via sicura per l'esistenza. L'inclinazione verso l'agricoltura sta a dimonstrare una particolare propensione di quel popolo a rivolgere alle risorse naturali le più attente premure, risorse che pero richie dono una particolare dedizione, un particolare e tenace modo di credere nella possibilità dell'uomo congiunte razionalmente a quanto la natura può dare, ma non può rigalrci da sola. Infatti tutto cio che oggi e incoloto a quell'epoca non lo era. Que sto e da attribuirsi al fatto che altri paesi erano numerosi nella zona quali: LISCIA PALAZZO, PIZZI SUPERIORE, PIZZI INFERIORE, CASTRA JOHANNIS ALBERICI (Castelletta), CASARINE, località LA TOMBA.
(4) "Nam tellures teatensium et urbes a dominio Beneventorum tunc subtractae sunt usque in presens". Mon. Gen Hist. Long., 326 n. (5) Chronicum Volturn. Vol. II, pag. 139.
A sollevare le miserie de li scampati alla valanga barbarica, fu la grande opera dei monaci benedettini che illuminati dalla luce del Cristianesimo infusero amore e speranza alle triste popolazioni guidando le verso la rinascita. Nel 703, dopo Montecassino sorgono sulle rive del Volturno altri monasteri e sopra tutti il monastero di SAN VINCENZO AL VAOLTURNO, ad opera del Conte Gisulfo di Benevento, il quale provide a dotare i Benedittini di una vasta estensione di terreno.
Ottenuta questa donazione, i Benedettini iniziano la dura lotta di redenzione che esplode in tutto il suo vigore col monito caratteristico "ORA ET LABORA" indirizzato ai vassalli del monastero per dare loroun ideale di vita.
I Benedettini si spinsero subito dopo verso gli alti monti dell'Abruzzo dove prima dell'altipiano fondarono un monastero sui ruderi di un tempio dedicato a Diana, denominandolo SANCTA MARIA DE QUINQUEILIA e da qui raggiunta la valle dell'Aventino fondarono altre chiese fra le quali Sancta Maria de Palena e SACTA MARIA DE LA TOMBA.
Siam nel 774 e da questa documentazione storica, Colledimacine (il suo nome doveva essere Collis Macinarum) in quei lontanissimi tempi aveva certamente una sua importanza, sotto il profilo della sua posizione che le offriva pascoli in abbondanza, acque e pietre.
Questa opera di ricostruzione materiale e morale fu quasi cancellata nell '820 dalle incursioni dei Saraceni che seminarono ovunque terrore e distruzione. Ad essere prese di mira furono monasteri e chiese; sicche di nuovo questi monti furono estre o ma sicuro rifugion alla furia devastatrice dei nuovi barbari. A questa calamita si aggiunge nell'anno 847 un'altra: il famigerato terremoto che nel Sannio ed in Abruzzo rase al suolo tutti i centri abitati e non, senza risparmiare edificio alcuno. Ne parla fra l'altro Luca Ostiense. (1)
(1) "Cum annus ab Incarnatione Domini octigesimus quatragesimus septimus volvueratur, tam terremotus per universam Beneventi fuit regionem, ut Isernia fere tolta a fundamentis corrueret, multusque ibi populus et ipse cum eis eorum Pontifex interiret. Apud monasterium quoque S. Vincenti teerenotus idem plurimasdomos evertit."
Malgrado non vi fossero leggi speciali per la protezione civile e la ricostruzione, l'abruzzese con la tenacia che lo distingue risollevo' nel silenzio con le proprie forze le sorti di queste terre.
Sorgono possedimenti monastici chiamati "VILLE" o "CASALI" dedicati ad un Santo o abate quali: S. Silvestro sul territorio di Fallasco so; La villa Cahstra JOHANNI ALBERICI detta volgarmente "Castelletta"; PICZI SUPERIUS e PICZI INFERIUS; SANTA MARIA DE LA TOMBA. . . e ogni uno di questi piccoli villaggi aveva una o più chiesette, come risulta da una bolla del papa Clemente III (1080-1100) conservata nella curia vescovile di Sulmona. Gli abitanti erano vincoiati alla propria chiesa o monastero da una serie di norme stabilite dagli abati o signori del luogo. Ne riporto sol alcune scelte fra le più importanti o curiose.
- Ciascuno dei coloni e tenuto ad andare a potare i campi della Chiesa, e deve avere cibo a volonta. Per ogni prestazione nella mietitura, ciascuno deve avere dei pani come e stato stabilito.
- Chi ha un asino e tenuto a metterlo a disposizione per portare il grano alla Chiesa. Chi invece non ha asino, deve mettere a disposizione i sacchi.
- Il contadino quando falcia l'erba ed il grano deve ricevere il cibo la mattina ed il pomeriggio. Nella stagione delle messi, i familiari ed i parenti devono portare l'acqua ai contadini che mietono il grano nei cmapi. Anche le donne devono avere un'adeguata ricompensa.
- In ogni mulino vi sia una coppa per misurare il grano macinato, la coppa deve avere la capacita di una "GIUMELLA" di grano.
- Nessuno può andare a caccia senza il permesso del Rettore della Chiesa. Se per caso i monaci trovano un cacciatore che ha preso una volpe la pelle appartiene alla chiesa. Se qualcuno prendera una lepre questa gli apparterra per intera, (alla chiesa). Chi prendera un capro dovra cederne alla Chiesa un quarto della parte anteriore.
- Nessuno può andare a pesca senza il permesso della Chiesa. . .
Oltre le invasioni precedenti L'Abruzzo subisce anche i FRANCAI, i quali in gastaldati longo bardi sostituiscono le CONTEE. Sotto i Franchi risulto che il Comitato Reatino aveva da tre lati la MAJELIA, la Pescara e il mare, e verso sud pare ci fosse il fiume tripno.
Il comitato reate, con quello dei Marsi e di Valva costitui a sud il lembo estremo dell'Impero di Carlo Magno e del Regno Italico.
Nell'anno 1035 pero, in Italia meridionale giungono i Normanni capitanati da Gugliemo detto "Braccio di Ferro". Morto Guglielmo le milizie normanne passano al comando di Ro9berto detto il Guiscardo che liberano le Puglie dai Bizantini e la Sicilia dai Saraceni ad opera di Ruggero I. Consolidata la loro potenza nel meridione i Normanni cercano di allungare le mani sull'Abruzzo ed inizioano con una condotta al quanto strategica le operazioni militari nel 1061. Dilagano nel terre della Val Pescara ch erano sotto la giurisdizione del Monastero di SAN CLEMENTE A CASAURIA, successivamente, nell'anno 1064 la conquista fu proseguita con maggior violenza dal figlio di Goffredo, detto di "loretello", e che impose ai monaci casauriensi cdi dichiararsi vassalli di lui.
Ia conquista dell'intera Narca Teatina fu poi compiuta con inaudita violenza da Ugo Malmozzetto, personaggion molto crudele, il quale fisso il suo quartiere generale a Lanciano. Fu appunto in questo periodo di occupazione che i Normanni raggiunsero la Valle Aventina e atraverso Penna Domo, Livanum, Montenero domo, Collis Macinarum, Picizi, Palena, Monte Porraro sino all'altipiano della Majella.
L'altra colonna invece, al comando di Riccardo D'Altavilla, mosse dall'interno, lungo il dorsale appennicico abruzzese alla conquista delle terre marsicane e, scendendo verso la conca di Sulmona, e poi attraverso il valico di Forca Palena, si ricollego congli armati che eran provenuti dall via adriatica.
Fu, grosso modo, una manovra a tenaglia per aggiarare il massicio della Majella e dei suoi contrafforti.
Il territorio abruzzese conquistato venne diviso dai limiti naturali del Gran Sasso e della Majella in due Ducati, come si rivela dal "Catalogo dei Baroni".
Questi continui mutamenti determinati da guerre più o meno sanguinose e cartterizzati da spietati sacceggi sconvolsero la regione teatina, che dovette subire le dure imposizioni dei vincitori, e la distruzione di castelli e paesi, specie di quelli che avevano opposto maggior risistenza favorita dalla loro posizione dominante: fra essi quelli di Colledimacine, Pizzi Palena, Forca Palena, per cui le nostre popolazioni, furono angariate e lasciate nella più avvilente miseria e abbandono. Ricordando le invasioni dallaemeta del secolo decimo va tenuto presente che Carlo Magno aveva dovuto raccogliere cavalieri per le sue guerre; nel'impossibilita di pagarli in moneta, era stato costretto a pagarli con terre e con diritti su di esse; cosi il patrimonio terriero veniva sottrato a mano a mano all'ingente dominio patrimoniale dell'Impero.
Ecco Dunque come vennero a formarsi gli elementi del FEUDO: il BENEFICIUM, la IMMUMNITAS e la FIDELITAS che crearono la figura del VASSALLO.
Il patrimonio terriero divento pertanto una preziosa ricchezza, un mezzo potente di soggezione perché permetteva al Duca di procurarsi guerrieri, ricompensandoli con l'investitura di un feudo.
La conquista dei Normanni sconvolse tutto l'ordinamento barbarico e il nome APRUTION limitato fin allora alla provincia di Teramo, si estese a tutti gli antichi comitati abruzzesi. Il feudo e quasi sempre un agglomerato di uno o più Castelli, di villaggi, di casali e di case sparse per le compagne; terre dominanti, donde la parola IN DOMO, alcune delle quali sono di proprietà del Signore a titolo patrimoniale, come PALENA IN DOMO, MONTENERO DOMO, PENNE DOMO, preziose località di carattere strategico, quale Colledimacine. Altre terre sono ottenute dal Signore IN BENEFICUM, ed alla loro volta in tutto o in parte, da lui subconcesse a vassalli minori "VALVASSINI", e perciò quasi tutte autarchiche, cioè indipendenti dal punto di vista economico.
Si ebbero cosi TERRE DOMINICHE e TERRE TRIBUTARIE o MASSERICIE, suddivise in piccoli poderi, assegnati a coltivatori liberi o "libellari". Si crearono i MANSI donde la parola MASERICIA. (1)
Acresciuta la proprietà e la potenza del feudatario, a discapito dei monasteri, si vennero creando più corti nell'ambito della stessa proprietà che dipendeva dalla principale: dal PALATIUM.
Considerando il significato di alcuni toponimi dell'alta Valle Dell'Aventino, quali LISCIAPALAZZO, località fra Colledimacine e Pizzoferrato; SANTA MARIA DELA Palazzo, antico monastero benedettino, sorto sui ruderi del "Capitolium" dell'antica JUVANUM, ci e agevole dedurne che il PALATIUM non era altro che la residenza preminente della Corte Baronale, arrocata sopra una posizione dominante da offrire un'ottima sicurezza di difesa.
Il sistema feudale che i Normanni portarono al momento del loro insediamento mantenne in vita gran parte degli ordinamenti amministrativi finanziari e giudiziari dei bizantini, longobardi e arabi, ma soffoco ogni sintomo di liberat nei grandi e piccoli centri.
Lo Stato e i Signori feudali avevano il diritto su tutti i beni terrieri, come quelli detti "usi civici". I feudatari ne fecero sovente "difese" per limitare lo "jus pascendi". La nota caratteristica che risulta dalla conquista normanna e perciò la FEUDALE, e di importanza feudale e il documento più interessante che ci resta della dominazione normanna il "Catalogo dei Feudi dell'Italia Meridionale" conservato nei "Registri Angionini" dell'Archivio di Stato di Napoli vol.242 e dato alle stampe dal Borrello il 1653, dal Fimiani il 1787 e dal Del Re il 1845.
(1) Mangus in vulgari italicorum dicitus quantitas terrae que sufficit duobus bobus in anno ad laborandum. "E'chiamato MANSO in volgare italico, una quantità di terra che copre la possibilita di lavoro che due buoi fanno in un anno".
Il Borrelli lo credette compilato ai tempi di Guglielmo il Buono per la Crociata in Terrasanta, ma secondo alcuni scrittori moderni, si tratta di diversi quaderni, compliati prima del 1161 e rinnovati il 1168 per le due spedizioni contro il bizantino Paleogo e l'altra contro il Barbarossa.
A detti cataloghi si aggiunge:
Il "CATALOGUS PARONUM", ossia il "Catalogo dei Baroni" che non era altro che il registro del servizio feudale nelle province napoletane duranti la meta del sec. XIIX Venne compilato dalla "Magna Curia" durante il Regno di Ruggero il Normanno, il quale sanci nel suo Statuto, oper altamente giuridica rispetto ai tempi, le prerogative del sovrano su tutti i feudi dell'Italia Meridionale.
In questo "Catalogo" sono elencati tutti i feudi con a fianco i rispettivi feudatari; essi hanno elencato anche il valore economico proprio del feudo, secondo la denuncia dello stesso possessore. Segue, subito dopo, il numero dei cavalieri e degli scudieri richiesti, con l'aumento del servizion militare.
I feudatari venivano distinti in due classificazioni: quelli che tengono IN DEMANIUM o IN CAPITE un feudo, e quelli che l'hanno ottenuto soltanto IN SERVITIUM.
Quelli che tengono "in demanium" posseggono peronalmente o direttamente dal re (A DOMINO REGE) il feudo; i secondi, posseggono per subconcessione.
Riassumendo, il feudo consisteva in una qualunoue proprietà concessa dal re a titolo di vassallaggio, dietro giuramento di fedeltà, a prezzo del servizio militare, aumentato di un certo numero di cavalieri in caso di guerra.
L'AUGMENTO, cioè l'aumento, non si riscontra più nel periodo della dominazione successiva, la sveva, in quanto gli Svevi dimezzarono la quantità del servizio militare del l' "Augment".
Carlo I d'Angio trasformo l'obbligo del dserizion militare con una tassazione in denaro (ADOHAMENTUM), quando il feudatario non poteva servire di persona.
Abolita successivamente la milizia feudale, l'ADOHA rimase come una qualunque contribuzione pecuniaria del 25.5% del valore del feudo.
Ogni barone del Regno che disponeva di 20 once d'oro di entrate feudali, corrispondeva a ducati (1) 120 di denaro, era tenuto a contribuire con un MILE, cioe un cavaliere, appartenente all'ordine della nobilta feudale, fandata sul valore del cavalier stesso, fornito di armi e di cavallo (armis et equis), seguito da due SCUDIERI, anch'essi forniti di armi e di cavalli.
La ripartizione delle spese era molto elementare, cosi ripartita; se il sufflitto si svogleva entro il Regno le spese per il mantenimento del cavaliere erano a carico del feudatario; se, inve3ce, l'operazione militare si svolgeva fuori dal Regno, le spese di mantenimento del cavaliere erano a carico della "Magna Curia".
Quei baroni che invece avevano entrate feudali inferiori a 120 ducati, si unmivano fra loro, fino a raggiungere, sommando, 120 ducati.
Quindi ognuno contribuiva in proporzione al mantenimento di un cavaliere con due scudieri.
Si evince colle era sotto la Contea di Palena insieme a Lama, Taranta, Forca Palena, Rocca di Pizzi, ed altri castelli (per un totale di undici feudi) e disponeva con l'aumento, di venticinque cavalieri e cinquanta scudieri: una nutrita schiera di 75 audaci e gagliardi cavalieri della Majella orientale che partecipo alle imprese guerresche dei secoli passati. Sembra che nella regione peligna furnon i conti Borrelli, discendenti dai Conti vavensi che sembrano di origine "francorum", a dettar legge.
La strategioa unsata da questi aucaci, spreguidicati e scaltri signorotti, fin dal secolo XI fu quella di diventare ricci e potenti a spese dei beni dei monaci benedittini, ottenendo le terre o con sottili raggiri rapinandole o facendosele cedere a livello.
(1) Il ducato equivalente a L. 4?25 del tempo.
Cio e riportato anche dal Muratori nella; sua colossale opera "ANNALI D'ITALIA".
"o si studiavano di pelare ora soavemente ora con violenza le chiese con promettere un annuo canone, e intanto donare qualche terra in proprietà ad essi luoghi sacre per indurre i Vescovi e gli Abati col picolo presente vantaggio a livellare essi beni".