L’illusione di sapere (terza parte)
“Credere di sapere quello che non si sa non è veramente la più vergognosa forma di ignoranza?”
Socrate
Molto spesso, nel corso di un esame, lo studente, incapace di rispondere alle domande del docente e magari invitato a studiare meglio, reagisce affermando con convinzione “ma io ho studiato!”. Ovviamente la risposta dello studente, pur essendo giustificabile, appare del tutto fuori luogo: la questione, infatti, non è se e quanto ha studiato, ma come ha studiato.
C’è differenza tra sapere e credere di sapere.
A questo proposito si ricorda un episodio avvenuto a Pittsburgh, in Pennsylvania, nel 1995, quando due banche furono rapinate da un soggetto entrato a volto scoperto. Il rapinatore, ripreso dalle telecamere, venne immediatamente identificato e catturato. Arrestato, grandemente sorpreso, disse ai poliziotti “Come avete fatto a trovarmi? Io ho usato il succo di limone!”.
Il rapinatore era convinto che spruzzarsi il volto con succo di limone avrebbe impedito ai sistemi di sorveglianza di riprendere la sua immagine; era quindi entrato tranquillamente a volto scoperto convinto che nessuno avrebbe potuto riconoscerlo.
La stranezza di questo comportamento indusse David Dunning e Justin Kruger, due ricercatori della Cornell University (Stato di New York), ad indagare la relazione fra le proprie competenze e la propria consapevolezza di essere competenti. I partecipanti all’indagine venivano invitati ad eseguire dei compiti su tre argomenti diversi, poi veniva loro chiesto di fornire un giudizio su quanto bene pensavano di aver svolto il compito.
Il risultato paradossale fu che coloro che ottenevano i risultati peggiori ritenevano di aver svolto le prove molto bene. Ad esempio, coloro i cui risultati li collocavano al disotto del 15° percentile ritenevano di essersi posti sopra il 60° percentile, cioè di essere stati più bravi della media. L’articolo che presentava i dati dell’indagine, intitolato “Incompetenti e inconsapevoli: come la difficoltà nel riconoscere la propria incompetenza porti a una fiducia eccessiva nelle proprie capacità”, dette inizio al cosiddetto Effetto Dunning-Kruger: ignorare la propria ignoranza.
Va tenuto presente che la capacità di valutare le proprie conoscenze e competenze (cosiddetto “monitoraggio metacognitivo”) è una funzione differente dalla capacità di apprendere così come dalle effettive conoscenze acquisite. Si può affermare che chi è inesperto in un determinato campo non è nemmeno in grado di giudicare l’adeguatezza delle proprie conoscenze/competenze ed è quindi portato a stimare in modo esagerato le proprie abilità, sopravvalutandole. Così l’errata valutazione metacognitiva genera l’illusione di sapere più di quanto si è realmente appreso.
L’effetto Dunning-Kruger corrisponde quindi ad una forma inconsapevole di ignoranza: non so di non sapere. Come prima conseguenza, il soggetto che non sa di non sapere non può pensare o accettare di mettere in discussione le proprie conoscenze/competenze: in altri termini, si ritiene competente, mentre non lo è.
L’effetto si applica a tutti i campi del sapere e la sua pericolosità a livello individuale ma anche e soprattutto a livello sociale non ha bisogno di essere esplicitata, dal momento che la mancata consapevolezza dei propri limiti può indurre a comportamenti potenzialmente dannosi. Oltre tutto l’assoluta fiducia nella propria competenza induce a non accorgersi degli errori compiuti.
Distinta invece è l’ignoranza consapevole, che corrisponde al famoso “So di non sapere” socratico, la cui prima conseguenza è il desiderio di incrementare la conoscenza.
L’ignoranza, infatti, è costituiva della condizione umana: ciò che si ignora è sempre più di ciò che si conosce. Gianrico Carofiglio utilizza una interessante metafora:
“Immaginiamo che la conoscenza sia come un’isola circondata da scogli affioranti, attorno a essa il mare dell’ignoranza. Più impariamo, più acquisiamo nuove informazioni e abilità, più la superficie dell’isola aumenta (gli scogli affioranti diventano terraferma), più si allarga il perimetro di contatto con il mare dell’ignoranza. Cioè, fuor di metafora: la percezione e la consapevolezza della vastità dell’ignoranza. La percezione, la consapevolezza dell’ignoranza, della sua dimensione, non diminuisce con il crescere della conoscenza. Più impariamo, più ci rendiamo conto di quanto non sappiamo”.
Tuttavia, anche la consapevolezza della propria ignoranza può essere causa di qualche disagio a livello comportamentale. Ad esempio, nell’indagine di Dunning e Kruger come si sono giudicati coloro che avevano svolto bene i compiti proposti? Paradossalmente, neanche loro valutavano correttamente la propria prestazione. Ad esempio, in una prova che li collocava al 90° percentile si giudicavano al 70° percentile, una valutazione che li poneva sopra la media, ma ad un livello inferiore alle loro effettive abilità. Probabilmente chi non aveva avvertito particolari difficoltà, pensava che eseguire quel compito senza difficoltà fosse la norma, cioè, pensavano di averlo svolto come tutti gli altri. I soggetti competenti sembrano quindi valutare in modo errato le competenze altrui (ritengono di non essere più competenti degli altri).
Correlata a queste osservazioni sperimentali può essere considerata la cosiddetta “sindrome dell’impostore”.
Ne soffrono quanti credono che i propri successi non siano dovuti a merito proprio o a speciali caratteristiche personali ma piuttosto a fattori esterni, come il caso o la fortuna. Coscienti della difficoltà di affrontare problemi complessi, possono ritenere la loro preparazione sempre insufficiente e in ogni occasione si sentono inadeguati e pieni di dubbi. Nelle forme più gravi l’impostore può da una parte avvertire un intenso senso di colpa, ritenendo di non essere degno dei riconoscimenti ricevuti, dall’altra manifestare una tendenza al perfezionismo e al controllo ossessivo delle proprie prestazioni per mantenersi all’altezza delle aspettative e per il timore delle eventuali conseguenze di un loro errore.
Al contrario, va sotto il nome di “pregiudizio egoistico” la tendenza (molto comune) ad attribuire i successi alle proprie capacità (merito, talento, abilità …) ed i fallimenti a fattori esterni (caso, sfortuna, circostanze sfavorevoli …); ad esempio, uno studente, se riceve un buon voto lo può attribuire alla propria preparazione, mentre per un brutto voto la colpa può essere data al docente. Questa naturale predisposizione a prendersi il merito per i risultati positivi e dare la colpa ad altro per i risultati negativi sembra avere un valore adattativo in quanto consente di mantenere la necessaria autostima anche quando si va incontro ad un insuccesso: in questo senso il pregiudizio egoistico viene considerato un sistema di autoprotezione.
Tuttavia, nel giudicare gli altri il pregiudizio si capovolge: il successo altrui viene attribuito alla fortuna mentre gli insuccessi alla incapacità o allo scarso impegno. Non c’è bisogno di soffermarsi a descrivere quanto questa distorsione cognitiva possa alterare la percezione della realtà e sia pericolosa nelle relazioni sociali.
Non soffrono certamente della sindrome dell’impostore quanti, essendo in qualche misura competenti in un determinato campo del sapere, si ritengono autorizzati ad esprimere le loro opinioni su qualunque altro argomento barattandole come certezze e con la presunzione di essere sempre nel giusto.
Insomma, l’ignoranza consapevole e quella inconsapevole insieme possono spiegare una moltitudine di situazioni quotidiane come il fiorire delle cosiddette fake news o dei talk shows fra “esperti”. Più in generale, a proposito di alcune modalità di interazioni sociali, già a suo tempo l’osservazione delle conversazioni tra conoscenti aveva indotto Jean-Jacques Rousseau ad affermare che
“Le persone che sanno poco sono solitamente dei grandi parlatori, mentre gli uomini che sanno molto dicono poco.”