Testimonianza di Perla Funaro al Messaggero

Apre Il Messaggero, e vede la foto dei suoi zii e dei due cuginetti, che non sono mai tornati da Auschwitz; una foto che lei non conosceva. «Ero andata a leggere le due pagine sulla deportazione, perché quel giorno hanno portato via anche me, che avevo cinque anni, con i miei genitori; ho riconosciuto zio Leo, e sono scoppiata a piangere». Perla Funaro racconta una storia terribile, e anche terribilmente romana. «Mio padre, Cesare, aveva cinque fratelli: Ettore, Leo, Ada, Giuditta e Arnaldo. Noi vivevamo a Montesacro; ma zia Giuditta faceva l’ostetrica, e dopo le leggi razziali, poteva lavorare solo con gli ebrei; per questo, ci siamo trasferiti a via Arenula». Il 16 ottobre ’43, «presi tutti, meno Arnaldo che era nascosto. Portati a via della Lungara, alla Scuola militare; la sera, papà, mamma e io rilasciati: perché mamma era ariana, cattolica, e io anche. In quelle ore, papà ha detto a mamma: se ci liberano, facciamo un altro figlio. E così, nel ’44 nasce Dario». E quella foto? «Zio Leo, sua moglie Teresa Di Castro, i figli Dario ed Adolfo, allora 13 e 7 anni. Mai più tornati. Come gli altri miei zii: nel lager , io ho perso otto persone. I fratelli non si sono nemmeno salutati tra loro, a via della Lungara: chi poteva sapere che non si sarebbero rivisti mai più?».

La signora Perla è ancora scossa. Racconta di sua madre, Trieste Belardi («nonno era repubblicano; i figli li aveva chiamati tutti così: Oberdan, Anita, Balilla, Cesare»); di lei, che le zie volevano divenisse ebrea («mi avevano anche iscritta alla comunità, ricevevo Shalòm ; nel dopoguerra, mi sono cancellata: e se a qualche matto gli gira come gli è girato a quello lì...?»); della singolare vita in casa sua («papà non era molto religioso, come non lo erano mai stati i Funaro; però, il giorno di Kippùr digiunava da solo»). E di «zio Leo, che era rimasto a Montesacro, abitava al piano ammezzato; e quando arrivano, i nazisti credono che sia lui il portiere. Lui, che non era il portinaio, non apre; loro sfondano la porta, e gli spaccano la testa; è partito per Auschwitz tutto bendato, poverino». Indagini a fine guerra? «Abbiamo chiesto a qualcuno; ci hanno detto d’aver visto zio Leo che mangiava le bucce delle patate».

Quella mattina «non la dimenticherò mai. Sentiamo grandi rumori nella strada; ci affacciamo; uno, che vendeva abbacchi, ci urla: scappate, che arrivano i tedeschi. Non c’è tempo: suonano alla porta; cercano zio Ettore e portano via tutti. I nazisti spingevano la gente per il sedere, perché salissero più in fretta sui camion. Se ci fossimo incontrati a via della Lungara, magari mamma poteva portarsi via almeno i bambini, no?». E anche dopo, tanta paura: «Altri rastrellamenti; mio padre si nascondeva sempre dietro un armadio».


(da Il Messaggero, 16 ottobre 2003)