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                              IL giornale dell'IIS "Sergio Atzeni"  

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Quando il sogno di un bambino diventa realtà: il mestiere dell’astronauta

di Giovanni Vitiello (alias Atlantide frozenstar)


Nel vasto universo dell'esplorazione spaziale, il lavoro dell’astronauta emerge come una delle professioni più affascinanti e stimolanti. Gli astronauti sono gli eroi moderni, gli esploratori dello spazio, che affrontano l'ignoto con coraggio e determinazione. Ma come ci si trasforma in astronauta e quanta fatica si affronta dietro le quinte?

Essere un astronauta non è una vocazione comune. Il percorso per diventare un esploratore dello spazio infatti richiede dedizione, studio e competenze eccezionali. La strada inizia generalmente con una formazione accademica in discipline scientifiche, ingegneristiche o aerospaziali: lauree in ingegneria o fisica sono spesso il punto di partenza.

Successivamente, molti aspiranti astronauti intraprendono carriere in ambiti correlati, come pilotaggio di aerei o ingegneria aerospaziale. La capacità di operare in ambienti ad alta pressione psicologica e di mantenere la calma in situazioni critiche è fondamentale.

Essere un astronauta comporta il possesso di una vasta gamma di competenze, perché non solo occorre essere addestrati per controllare velivoli spaziali complessi, ma è necessario anche essere in grado di condurre esperimenti scientifici nello spazio. La capacità di risolvere problemi rapidamente e in modo efficace è essenziale, poiché la vita nello spazio può presentare sfide impreviste.

Un aspetto fondamentale dell'addestramento astronautico è la preparazione psicologica. La convivenza in spazi ristretti e l'isolamento possono mettere a dura prova l’equilibrio mentale. Gli astronauti devono imparare a gestire lo stress, a lavorare in équipe e ad affrontare situazioni di emergenza.

L’addestramento poi è estremamente intensivo e variegato: gli astronauti imparano a sopravvivere in ambienti senza gravità, a eseguire attività extraveicolari e a utilizzare le tecnologie avanzate delle navicelle spaziali. Le simulazioni di missioni sono parte integrante dell'addestramento e consentono di affrontare scenari realistici prima di lanciarsi nello spazio.

Essere scelti come astronauti è un processo altamente competitivo. Le agenzie spaziali di tutto il mondo conducono selezioni rigorose che includono esami medici approfonditi, test di personalità, interviste approfondite e prove di abilità. Solo i migliori candidati, con un mix perfetto di competenze tecniche e qualità personali, superano questo processo selettivo.

Una volta selezionati, gli astronauti si preparano per le missioni spaziali: dal lancio in orbite terrestri basse alla vita a bordo della Stazione Spaziale Internazionale (ISS)… ogni missione presenta sfide uniche. Gli astronauti possono svolgere ruoli di ricerca scientifica, manutenzione della stazione spaziale e condurre esperimenti innovativi. Insomma non si tratta di un impegno comune, in quanto comporta conoscenza, abilità esplorative e capacità di sfida personale. Il percorso per diventare un esploratore dello spazio può essere lungo e impegnativo, ma il premio è l'opportunità di vedere la Terra da una prospettiva riservata a pochi e contribuire al progresso dell'umanità oltre i limiti del pianeta in cui viviamo. Insomma fare l’astronauta è al contempo una missione e un viaggio che va oltre i confini della Terra.



Intelligenza e pattern. Un binomio inscindibile

di Giovanni Vitiello (alias Atlantide frozenstar)

L'intelligenza umana è stata a lungo oggetto di studio e dibattito tra psicologi, neuroscienziati e filosofi. Una delle teorie dominanti riguarda l'intelligenza come la capacità di risolvere problemi attraverso il riconoscimento di pattern. Questo concetto è fondamentale nell'analisi della mente umana, perché offre una chiave di comprensione della complessità del pensiero e delle sue applicazioni pratiche in vari ambiti della vita. Prima di addentrarci nella connessione tra intelligenza e pattern, è fondamentale comprendere cosa siano i pattern. In termini semplici, un pattern è una sequenza o una struttura ricorrente che può essere identificata in una serie di dati o eventi. Questi ultimi possono essere visivi, come una sequenza di colori o forme, o concettuali, come una serie di numeri o idee. I pattern possono essere semplici o complessi e il loro riconoscimento è una capacità chiave del cervello umano. Ad esempio, quando guardiamo una serie di numeri come 2, 4, 6, 8, 10..., riconosciamo immediatamente il pattern di incremento aritmetico e possiamo prevedere il prossimo numero nella sequenza. Allo stesso modo, quando ascoltiamo una melodia musicale, riconosciamo i pattern di note che si ripetono e ci permettono di percepire la struttura della canzone. L'intelligenza umana si manifesta attraverso la capacità di individuare, comprendere e utilizzare i pattern in modi creativi ed efficaci. Questa capacità è essenziale per risolvere una vasta gamma di problemi: dalle sfide quotidiane a quelle scientifiche e tecnologiche complesse. Il primo passo nel 

processo di risoluzione dei problemi è il riconoscimento dei pattern. Questo può avvenire attraverso l'osservazione diretta di dati o eventi, l'analisi di informazioni complesse o l'applicazione di conoscenze pregresse. Ad esempio, un medico può diagnosticare una malattia riconoscendo i pattern di sintomi correlati che ha imparato durante la sua formazione. Una volta individuato un pattern, l'intelligenza umana si esprime nell'analisi approfondita di esso. Questo può comportare la scomposizione del pattern in componenti più piccoli, l'identificazione delle relazioni tra di essi e la comprensione delle cause sottostanti. Ad esempio, un ingegnere può analizzare i pattern di guasti in un sistema meccanico per identificare le vulnerabilità e migliorarne la progettazione.

Infine l'intelligenza si manifesta nell'utilizzo creativo dei pattern per risolvere problemi e raggiungere obiettivi. Questo può implicare l'applicazione di soluzioni esistenti a nuove situazioni, la combinazione di pattern diversi per generare soluzioni innovative o la creazione di nuovi pattern. Ad esempio, un musicista può mescolare stili musicali diversi per creare una nuova forma di espressione artistica. La capacità di riconoscere e utilizzare i pattern ha profonde implicazioni pratiche in molteplici settori:


intelligenti per l'intelligenza artificiale e il machine learning.

 L'intelligenza umana è in conclusione strettamente legata alla capacità di riconoscere e utilizzare i pattern per risolvere problemi e raggiungere obiettivi. Questa abilità, che si sviluppa attraverso l'esperienza, l'apprendimento e la pratica, è fondamentale per il successo individuale e collettivo nelle sfide della vita quotidiana e nelle sfide globali che affrontiamo come società. Il continuo studio e la comprensione dell'intelligenza ci permetteranno di approfondire la nostra conoscenza del cervello umano e di sviluppare nuove applicazioni pratiche per migliorare la nostra vita e il nostro mondo. Per mettere alla prova la vostra capacità di riconoscimento di pattern ho preparato appositamente un test di 20 esercizi che potete svolgere in pochi minuti al seguente link:

https://atlantide-frozenstar.involve.me/iq-test

“Tutto quello che so sull’amore”…e sulla vita

Recensione del romanzo di D. Alderton di Elisa Murtas

Quando compriamo un libro intitolato “Tutto quello che so sull’amore”, ci aspettiamo di trovarci dinnanzi a un piccolo saggio che ci possa aiutare a destreggiarci fra le nostre questioni amorose. Invece quando si prende in mano l’omonima fatica di Dolly Alderton, è meglio mettere da parte una simile convinzione.

Questo romanzo infatti, più che un manuale sull’amore, si potrebbe definire un manuale di vita, un racconto che si sviluppa, capitolo dopo capitolo, tra le crisi esistenziali della protagonista.

Leggendolo vi sembrerà di trovarvi nel divano del vostro salotto, in compagnia della vostra migliore amica, mentre lei vi parla dei suoi problemi e voi mangiate dei baci perugina. Grazie al suo fantastico stile, Dolly Alderton riesce a rendere il suo romanzo una lettura leggera, pur toccando temi importanti che in fondo viviamo un po’ tutti, perché li tratta come fossero una conversazione fra amiche e noi potessimo entrare nella sua testa per vivere le sue stesse travolgenti emozioni.

Seguirete passo passo, durante le 300 pagine del romanzo, la crescita personale della protagonista. “Tutto quello che so sull’amore” è infatti un “bildungsroman”, un romanzo di formazione in cui voi crescerete con chi vi narra delle sue vicissitudini, delle sue emozioni, del suo tempo.

Dolly Alderton è una ragazza dedita unicamente a alcol e sesso, che tutti descrivono come l’anima della festa, finché lei stessa non si renderà conto che non è più così divertente trovarsi la mattina dopo ubriaca chissà in quale parte di Londra, insieme a chissà quale ragazzo del quale neppure si ricorderà il nome.

Superando la paura di rappresentare un puro oggetto di divertimento per chiunque, così come la paura di non essere amata e di rimanere da sola, la protagonista giungerà a capire che non sempre l’amore si riceve da un partner, ma che può arrivare anche dalle amicizie sincere, le non comportano necessariamente la nascita di una relazione amorosa. Questo libro è decisamente una spinta per chi, come Dolly, si sente fuori posto nel mondo. Attraverso le sue decine di esperienze, potremmo infatti trarre insegnamento per vivere con più tranquillità anche le situazioni peggiori, con la consapevolezza che sia necessario vivere dapprima in pace con sé stessi, porre alla base l’amor proprio. Solo con una base d’autentico amor proprio infatti si riusciranno a prendere buone decisioni per il proprio presente e per il proprio futuro. "Non è compito di nessun essere umano diventare l’unico dispensatore della nostra felicità"

Alcune citazioni dal romanzo:

“Ero completamente sola e non mi ero mai sentita così al sicuro. […] L’amore era lì, sul mio letto vuoto […] Pensa un po’. Chi lo avrebbe mai detto? Era sempre stato con me“


“Hai bisogno di sentirlo davvero dentro di te, il cambiamento, non si può limitare a una cosa di cui discuti col tuo analista. Devi sentirlo nel corpo“




Metti insieme delle ragazze e dei ragazzi, all’ora di storia. Sospendi le trombe di guerra, le carriere politiche, le trame di potere, i nostri antenati e le loro mirabili esistenze, per fare un salto nel nostro tempo, che ha dimenticato il significato della gentilezza.

Gli studenti della 2A, guidati dalle prof.sse Anna Paola Deiana e Amalia La Rosa in un percorso di Educazione civica, hanno restituito con immagini e parole il loro “elogio della gentilezza” per un nuovo tempo dove il bullismo non colpisca, annienti, devasti le giovani vite. “Non è grande chi ha bisogno di farti sentire piccolo”: la grandezza vera è quella dell’animo; “la speranza non cesserà di esistere”: il bullismo non è un inferno senza via d’uscita, se si trova la forza di farsi aiutare; “il bullismo non deve essere segreto”: parliamone, parliamone sempre con precisione e intelligenza; “il bullismo non insegna. Segna”: e, talvolta, in maniera indelebile, purtroppo; “se ne parla sempre, ma nessuno fa niente”: la parola deve essere l’ombra dell’azione, per cui chi vede e non denuncia è moralmente complice della violenza; “se alzi un muro, pensa a ciò che c’è dietro”… forse qualcuno capace di ascoltare, di accogliere le tue fragilità, di essere solidale, generoso. Opponiamo alla sistematica violenza del bullismo atti di gentilezza a caso. Perché la gentilezza possono sentirla tutti. Anche coloro che non vedono e non sentono.

INTRO: “Un particolare pensiero lo rivolgo, a nome della scuola, alle due vittime del grave episodio e alle loro famiglie, ai loro compagni di classe, e alle due professoresse…” (Il Dirigente Maurizio Pibiri, estratto dalla Lettera aperta alla comunità scolastica e del territorio)

Passiamo dalle parole del nostro Dirigente a una assai antica, saggia e precisa, che si configurava come una virtù. La GRAVITAS, che equivale ad avere un peso, ad avere dignità, ad avere autorevolezza. Hanno peso le cose materiali. Hanno peso i gesti. Hanno peso le parole. Tutto ciò che esiste ha un suo peso specifico. Perfino l’anima possiede un suo peso, pari a 21 grammi secondo il dottor Duncan MacDougall, praticamente quanto quello di una piuma, perché la nostra vita è un soffio. 

Quanto vale un’esistenza? Quanto ne valgono due? Torniamo con la memoria al tristemente famoso 4 dicembre 2023, alla fermata del bus di via Trexenta, alla panchina passata alla ribalta della cronaca nera, ai due ragazzi alunni di questo Istituto, ai 15 minuti di soccorso matto e disperatissimo per strappare alla morte un quindicenne ferito, a tutto ciò che è accaduto dopo…

Ricordiamoci di avere un peso, ragazzi! Ha un peso ciò che diciamo. Ha un peso ciò che facciamo. Ha un peso ciò che ci dicono i prof. Restituiamo quindi peso alle parole degli insegnanti e di tutti coloro che non insegnano “cose stupide”: i filosofi, i poeti, gli scrittori, i fisici, i matematici, gli esperti di diritto, i grandi sportivi… tutta gente che ha faticato per essere ciò che è o è stata. “Perfer et obdura”! “Sopporta e tieni duro!” Abbi un peso, non lasciare che l’ira signoreggi su di te! Abbi peso nel denunciare senza farti giustizia da solo, perché la giustizia per sé stessi non ha spessore sociale, non produce nulla, non ha ricadute positive sulla collettività: è una giustizia fai-da-te che, spesso, ti si ritorce contro. 

Pesa quindi le parole, i gesti, gli sguardi. Cerca sempre il peso umano dietro al volto di chi hai davanti. 

Crescete come buoni rivoluzionari. Studiate molto per poter dominare la tecnica che permette di dominare la natura. Ricordatevi che ognuno di noi, solo, non vale nulla”. Possono sembrare parole scritte sulla sabbia; invece hanno un peso. Un grande, grandissimo peso. La stessa storia si è incaricata di scolpirle nei nostri cuori. 





ORIENTAMENTO 


VOLGERSI A ORIENTE, DOVE SORGE E NASCE IL SOLE. 

DOVE PRENDE VITA UNA SCELTA, DOVE SI CRESCE E SI DIVENTA UOMINI.


You’re only here for a short visit. Don’t hurry, don’t worry. And be sure to smell the flowers along the way”….



In memoria di Italo Calvino

Le scuole di Capoterra ricordano il grande scrittore

di Gabriele Francesco Manunza, 5^A

1923-2023. Sono passati cento anni dalla nascita di uno dei più grandi scrittori e intellettuali italiani del Novecento: Italo Calvino.

Sangue sardo nelle vene (la madre, Eva Mameli, era sassarese), Calvino fu un uomo poliedrico, appassionato sin dalla giovinezza di fumetti e cinema. La sua produzione spaziò dai racconti ai romanzi, dalla poesia alla saggistica, fino alle sceneggiature teatrali e alla musica. Non a caso, l’amico Cesare Pavese lo definì “lo scoiattolo della penna”. 

La comunità capoterrese ha voluto celebrare questo importante anniversario e ricordare l’uomo, oltre l’artista attraverso la lettura, da parte di una rappresentanza di studenti delle scuole medie locali, di alcuni passi significativi tratti da opere calviniane come “Il castello dei destini incrociati”, “Le città invisibili” e “I nostri antenati” (“Il visconte dimezzato”, “Il barone rampante” e “Il cavaliere inesistente”). Queste ultime sono opere nate separatamente nell’arco di un decennio e poi riunite per farne, come dice l’autore stesso, “una trilogia d’esperienza sul come realizzarsi esseri umani”.

L’incontro culturale si è svolto il 23 Novembre scorso dalle 16:30 alle 18:30 nella cornice della biblioteca di Poggio dei pini, per la quale ha organizzato l’evento Barbara Cabras. A guidare i giovani lettori in questo viaggio nella memoria è stata la professoressa Luana Minato, supportata dalle colleghe Susanna Lilliu, Maura Murru, Roberta Pitzanti dell’Istituto comprensivo di Capoterra e da Maria Teresa Allegretti e Francesca Diana dell’IIS Sergio Atzeni che, partendo dai passi letti e dalle domande poste da noi studenti del Sergio Atzeni, hanno sviscerato il pensiero dello scrittore delineando la sua visione dell’uomo e della realtà. A conferire la giusta leggerezza della pensosità all’evento ci ha pensato Enrico Frongia, il quale ha arrangiato due brani musicali firmati dallo scrittore sanremese: “Dove vola l’avvoltoio” e “Oltre il ponte”. 

L’iter letterario di Luana Minato ha percorso l’infanzia e la giovinezza di Calvino, che hanno fortemente inciso sulla sua produzione letteraria: dall’apertura mentale derivante dall’essere stato cresciuto in una famiglia di scienziati amanti della natura allo stimolante ambiente di San Remo, dall’esperienza partigiana al lavoro presso la casa editrice Einaudi come redattore in collaborazione con Munari nella veste di grafico, fino al soggiorno parigino e l’adesione all’Oulipo (Ouvroir de littérature potentielle, cioè l’officina di letteratura potenziale). Da questo mix d’esperienze sono nate “narrazioni brevi con un linguaggio chiaro” mediante le quali Calvino “parla dell’uomo e dell’intellettuale contemporaneo con tutte le difficoltà e contraddizioni che laceravano la società”, riducendo “la complessità del reale a una narrazione in cui la soluzione non è mai definitiva, ma lascia spazio a riflessioni…” ha illustrato Luana Minato, che su questo poliedrico scrittore ha compiuto un dottorato di ricerca.

Gli spettatori sono stati avvolti da un’esperienza sensoriale intensa, fatta non solo di parole, ma anche della musica suonata dalla chitarra del professor Frongia e di immagini proiettate da Barbara Cabras nel grande schermo della biblioteca.

E visto che la cultura è anche condivisione, l’evento si è concluso in convivialità con un rinfresco. 

Si è trattato senza dubbio di un bel momento di confronto, che ci ha regalato quella leggerezza che è stata la filosofia di vita di Calvino e che un’appassionata interprete delle sue Lezioni americane ha commentato con la famosa massima “ché leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore”. Planare sulle cose dall’alto “come un uccello, e non come una piuma”. Questa sì che è dell’Italo nostro. 

Scienze in movimento

Un festival anche per il riconoscimento del contributo delle donne alle scoperte scientifiche

di Viola Farina, 4^F


Quest’anno il tema del Festival della Scienza a Cagliari è stato dedicato alla figura della donna nella cultura e nella vita civile, che purtroppo è segnata da una storia di emarginazione, in Italia e nel mondo, nonché da un vissuto fortemente condizionato dagli stereotipi. Fin da quando siamo alle elementari, ci viene detto che ci sono cose da bambini e da bambini, che i maschi possono studiare la scienza e diventare grandi scienziati, matematici o fisici, ma non altrettanto spesso lo stesso discorso viene detto alle femmine. Tantissime donne che hanno contribuito a grandi scoperte scientifiche non hanno avuto, e non hanno tuttora, il giusto riconoscimento da parte della letteratura e del mondo scientifico, per questo ogni giornata del festival della scienza di quest’anno è stata dedicata a una donna che ha offerto il suo contributo al progresso scientifico.

Il tema del festival di quest’anno era la scienza in movimento, però uno degli aspetti a cui l’associazione organizzatrice tiene molto è non perdere occasione per richiamare attenzione sulla questione femminile, con particolare riguardo all’ambito scientifico. La manifestazione si è quindi aperta con una riflessione, curata da due alunne dell’istituto E. D’Arborea di Cagliari sulla figura di Marie-Anne Pierrette Paulze Lavoisier, moglie del celebre chimico, molto più giovane di lui e anch’ella chimica di talento. Fu dunque compagna di lavoro di Lavoisier, anche se rimase praticamente sconosciuta. 

 Successivamente, accompagnati da altre due allieve nostre coetanee dell’istituto cagliaritano, ci siamo diretti verso uno stand di professionisti dal curioso nome “Da Pascal al Bar - 400 anni sotto pressione!” dove, come si può intuire dal suo simpatico nome, ci hanno mostrato degli esperimenti utilizzando sia materiali di uso comune come palloncini, stecchini e fogli, ma anche materiali  più tecnologici, quali le pompe a vuoto, per dimostrare fenomeni chimici legati alla pressione e per celebrare lo scienziato francese Pascal a 400 anni dalla sua nascita. Durante questo laboratorio ci siamo messi alla prova aiutando i professionisti negli esperimenti e dando una nostra opinione riguardo ai risultati che avremmo ottenuto insieme all’aiuto e ai consigli del nostro professore di Matematica e Fisica, Giuseppe Colizzi. 

A metà mattina siamo entrati all’interno della struttura principale e, in gruppo, ci siamo avvicinati ai diversi e tantissimi stand dove ragazzi e docenti di diverse classi e scuole di indirizzo scientifico ci hanno mostrato gli esperimenti realizzati e provati da loro, spiegandoci il meccanismo che li rende possibili e rispondendo alle nostre domande riguardo a ciò che vedevamo.

Il secondo evento al quale abbiamo presenziato si è tenuto presso la Sala delle Volte, ubicata nell’edificio principale dell’Exmà, dove i ragazzi sono stati impegnati in vari laboratori condotti da altri studenti di scuole superiori di primo e, soprattutto, secondo grado: esperimenti di fisica di elettricità, magnetismo, ottica, scienze naturali e biologiche (piante, insetti, microplastiche… ) 

Sono rimasta impressionata dagli stand in cui ci presentavano delle larve mangiatrici di plastica, chiamate larve della cera (nessuno voleva avvicinarsi troppo); da quello organizzato dai ragazzi delle medie dove si presentavano le illusioni ottiche create da specchi, laser e cartoncini e da quello dei ragazzi dello scientifico con indirizzo bio-tecnologico, in cui -attraverso l’uso del microscopio ottico- si osservavano diversi tipi di cellule ed elementi particolari esistenti in natura. 

Quest’esperienza è stata molto interessante, poiché ci ha permesso di avvicinarci alla scienza in maniera diversa da quella a cui siamo abituati, cioè studiando su libri e quaderni le varie nozioni e regole. Ci ha messi infatti alla prova in prima persona, per capire da una differente prospettiva la bellezza del mondo scientifico



di Francesco Loche, 3^G


“Tutti noi abbiamo visto un film nella nostra vita, almeno una volta”. Una simile affermazione può sembrare scontata oggi, però solamente poco più di cento anni fa la trasposizione di ciò che vediamo su una pellicola sembrava una cosa inimmaginabile. Ora invece disponiamo di telefoni, televisioni, cassette e DVD che ci permettono di vedere tutti i film che desideriamo, quando vogliamo.

Perché è nata la cinematografia? Per lo stesso motivo per il quale è nata l’arte: l’uomo aveva bisogno di riprodurre la realtà circostante, ma aveva anche la necessità di esprimere sé stesso e le proprie idee. Più avanti nel tempo tale necessità si è tramutata in qualcosa di più complesso, infatti la cinematografia si è progressivamente ramificata in generi, che si differenziano in base all’argomento trattato. Così hanno avuto origine il thriller, l’horror, il giallo, il fantascientifico, la commedia, la commedia romantica, il drammatico.

Dal punto di vista psicologico, invece, perché ci piace il cinema? Abbiamo bisogno di sentirci dire alcune cose, non solo di pensarle nel nostro piccolo: tutti, nel bene o nel male, sperimentiamo le stesse emozioni.

Ma arriviamo al punto principale di questo articolo: la recensione del film “C’è ancora domani” di Paola Coltellesi. Sarà necessario fornire brevemente le coordinate storiche, prima di addentrarci nel vivo della recensione. Ci troviamo a Roma, nel maggio del 1946, un anno dopo la fine della seconda guerra mondiale. Era un’epoca post-dittatoriale, dove c’erano ancora tensioni civili e le donne venivano dovevano limitarsi a fare le casalinghe e occuparsi esclusivamente dell’educazione dei figli. Il film ci catapulta in un contesto domestico dove il vero rappresentante della famiglia è il padre, secondo l’etimologia del latino “pater”, cioè capofamiglia. In questo stesso anno si arrivò al suffragio universale, per cui tutte le persone al di sopra dei diciotto anni andarono alle urne per votare.

La pellicola di Paola Coltellesi è completamente in bianco e nero, perché la regista racconta che le storie raccontate dai suoi nonni e bisnonni se le immagina esclusivamente in bianco e nero. Tale scelta ci ha aiutato non solo a capire in che anni ci trovavamo, ma anche ad avvertire la tristezza che si provava in quel periodo, insieme alla paura e all’incertezza del domani, per cui nessuno sapeva se sarebbe nuovamente scoppiata la guerra. Perciò si era costretti ad abbandonarsi alla sola speranza.

Oltre alla scelta di una pellicola in bianco e nero, Coltellesi ha deciso di far parlare tutti i protagonisti della sua storia in romano. Tuttavia la lingua non ha rappresentato un limite comunicativo, al contrario ci ha fatto sentire più vicini ai protagonisti, ma soprattutto più uniti in quanto Nazione e non Stato. Il film è forte nella tematica, ma delicato nella sceneggiatura: ci sono infatti momenti di pausa in cui i dialoghi si interrompono per lasciare spazio a colonne sonore strepitose, che agevolano l’immersione, alleggeriscono il contesto e stemperano la tensione palpabile di alcune scene.

Tutti abbiamo visto un film nella vita…tutti dovremmo vedere l’ultima fatica di Paola Coltellesi, la pellicola di una donna dedicata a un’altra piccola donna, la figlia della regista “che a otto anni e mezzo fatica a credere alle privazioni che le donne erano costrette a subire” dichiara la realizzatrice; dedicata anche alle ragazze “perché è un attimo che si torni indietro. I diritti vanno difesi”.

Ritratto di Archimede realizzato da Michelangelo Farci, 2^A




La Corona di Gerone.

Un Capitolo Perduto di Siracusa svelato da Archimede

di Jasmeen Khan, 2^A


Nel frastuono del III secolo a.C., mentre l'ombra di Roma incombeva sull'antica Siracusa, il tiranno Gerone si trovò ad affrontare una decisione cruciale. In segno di gratitudine per la vittoria contro i Romani, decise di offrire agli dei una corona d'oro. Tuttavia il suo sospetto nei confronti degli altri lo spinse a dubitare della stessa corona che avrebbe dovuto simboleggiare la sua gratitudine.

Gerone aveva affidato l'esecuzione della corona a un abile orafo, fornendogli la quantità precisa di oro necessaria. La corona finita pesava quanto l'oro fornito, ma la mente sospettosa del tiranno lo portò a credere che l'orafo avesse sostituito parte dell'oro con l'argento. Questo timore lo indusse a un atto di fiducia apparentemente paradossale: consegnare la corona ad Archimede, il celebre scienziato di Siracusa. L’uomo, noto per le sue scoperte geniali, si trovò di fronte a una sfida intrigante. Mentre era immerso nelle acque termali della sua città, la sua mente fu folgorata da un’illuminazione. 

"Eureka, eureka!" gridò Archimede, in preda all'entusiasmo della scoperta.

La rivelazione del genio siracusano fu una combinazione di intuizione scientifica e astuzia matematica. L'idea fondamentale che un corpo immerso in un liquido ne sposta una quantità equivalente al proprio volume diventò la chiave per risolvere l'enigma della corona. Per verificare la composizione di quest’ultima, Archimede eseguì un ingegnoso esperimento.

Con due blocchi di peso equivalente alla corona, uno d'oro e uno d'argento, immerse ciascun blocco in un recipiente d'acqua, misurando accuratamente la quantità di liquido spostato. I risultati furono sorprendenti: il blocco d'argento spostò più acqua rispetto a quello d'oro, mentre la corona si posizionò tra i due.

L'enigma era risolto. La corona di Gerone non era completamente d'oro: l'orafo aveva ingannevolmente sostituito parte del metallo nobile con l'argento. La mente acuta di Archimede aveva smascherato l'inganno, restituendo la verità al tiranno sospettoso.

La storia della Corona di Gerone non è solo un racconto di inganno politico e sagacia scientifica, ma anche un capitolo affascinante della ricca storia di Siracusa. Archimede, con la sua mente brillante, ha scritto un'ulteriore pagina nella gloriosa storia della città, dimostrando che la scienza e l'ingegno possono illuminare anche gli angoli più oscuri della politica e della società. La corona potrà essere stata smascherata, ma il suo riflesso brilla ancora attraverso i secoli, rivelando il potere straordinario di una mente illuminata nell'antica Siracusa.



“Costruire ponti, non muri”

Si è chiusa la dieci giorni di attività dedicata dall’Atzeni all’accoglienza dei nuovi studenti

(della redazione)

L’accoglienza è l’arte di far entrare gli altri nella nostra vita. È una scuola che diventa casa, un Preside che ti parla come un padre, la tua sedia davanti alla mia, fili di lana che collegano mani, sguardi protesi sul mondo.

Abbiamo riaperto le porte dell’Atzeni per ascoltare le vostre storie, esplorare le vostre emozioni, sostenervi nelle vostre paure, orientarvi nei vostri sogni. Proseguiremo su questa strada, oltre i “beni benius”, i “chini sesi”, gli “aundi ses arribau”: tra te e noi costruiremo un ponte da attraversare con parole, numeri, immagini, riflessioni, movimenti… La scuola è una comunità dove si “viene conosciuti dalla conoscenza”.

Mentre racconti la tua storia, scopri quella degli altri, perché una cosa è certa: tutti ne abbiamo una, sia che giungiamo, a piedi, proprio da dietro l’angolo, sia che arriviamo da molto lontano, con un biglietto “di sola andata” Cile-Italia, come Hector “Mono” Carrasco: il muralista rimasto folgorato dalla vista di un bambino senza scarpe sotto la pioggia scrosciante di un freddo cielo cileno, poi divenuto profugo in nome della libertà.

“Dolor hic tibi proderit olim”: questo dolore, un giorno, ti servirà, se -come abbiamo ascoltato dai Chilenos de Sardigna- troveremo una famiglia che se ne farà carico, un amico pronto a lenirlo e una scuola che trasformerà la sensazione di smarrimento in una viva speranza nel futuro.