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Una storia di donne che cadono e di padri che impazziscono.
Recensione del romanzo "Quello che so di te" di Nadia Terranova (Ed. Guanda, 2025)
a cura di Ambra Alberti e Chiara Canarile
“Quello che so di te” è una storia di donne che cadono e di padri che impazziscono.
È la cronaca delicata di una madre che, tra l’ardore dell’impresa, gli incagli e le inopinate delusioni, si destreggia con risolutezza nell’indagine vischiosa della sua ascendenza femminile.
Si tratta di un viaggio alla ricerca della verità compiuto in nome dell’“ingestibile amore” per la figlia appena nata, che l’autrice-narratrice ha promesso di proteggere dalla “caduta” mortifera che ha caratterizzato la vita (e la morte) delle donne della sua famiglia: “Scrivere è una profezia. Scrivere è interrompere questa linea di pazzia”.
La ricerca della sua origine la conduce alla bisnonna Venera, impazzita per motivi oscuri e di cui progressivamente scopre i segreti mistificati dalle fallaci e fiabesche sedimentazioni operate dalla Mitologia Familiare. In questo iter si confronta con lei, “mussu cuciutu”, indagando i due aspetti che interrompono il racconto convenzionale della vita: il ruolo di madre e la follia che esso ha scatenato, segnando per sempre la storia della famiglia.
Con parole semplici e frasi scorrevoli la scrittrice analizza le due facce della maternità, esperienza euforica, per l’amore smisurato e la gioia che essere madri implica, ed estenuante, poiché moltissime energie sono prosciugate dal tentativo di proteggere la creatura e dall’assiduo stato di allarme e terrore che possa cadere, metaforicamente e non.
Effetto collaterale? La “pazzia”, etichettata dagli uomini anche come nevrastenia o isteria, intrinseca nell’essere femminile in quanto possessore di utero e a cui è intimamente connesso il senso di colpa. Colpa che affligge anche Venera, che si ritiene responsabile della tragedia familiare, e Nadia, rea di assicurare la continuità della linea malata della famiglia.
Tra gli impegni lavorativi e l’amorevole, nonché sfibrante, accudimento della figlia, Nadia conduce un’esistenza parallela nel regno dei falsi ricordi, tramandati per conservare intatto il “segreto” di Venera, della documentazione di un manicomio, del sogno e della profezia, sempre sorvegliata (o inseguita?) dallo spettro di “mussu cuciutu”.
Tale personalissima, intima ricerca esplora la dimensione universale della famiglia, che è “la storia che ti racconti, il modo in cui te la racconti, mentre ognuno vive il suo pezzo di vita”, e l'importanza di scavare nella memoria sincera, vera, poiché ognuno deve ineludibilmente raccogliere l'eredità della propria famiglia, nel bene e nel male, e può farlo in maniera consapevole o menzognera.
Dopotutto è una scelta: la conclusione disincantata di Nadia, che ha strappato tutti i possibili orpelli ad una narrazione multiforme, è che “la verità è quella che ci raccontiamo per sopravvivere”.
Il romanzo si configura dunque come un’indagine alla scoperta della famiglia, che si rivelerà tutt’altro in relazione alle aspettative iniziali, a causa delle incongruenze che contrappongono memoria familiare e realtà, ma anche alla scoperta di sé.