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"Dio non ama il mare"...
Recensione del film "Parthenope" di P. Sorrentino
A cura di Eros Catanzaro
"Dio non ama il mare" così si chiude l'opera ultima di Paolo Sorrentino, un regista che nel 2013 dopo svariati film noti in patria saliva alla ribalta assoluta con il premio Oscar La grande bellezza, e qualcuno gli critica di non essere più riuscito a superarsi da allora.
Parthenope è la storia di una ragazza, una ragazza brillante e bellissima, ma è ancor prima la storia di Napoli, una città brillante e bellissima, e proprio ciò costituisce il vero, unico e più grande problema del film. L'opera, che si ricorda essere stata scritta, diretta e prodotta dallo stesso Sorrentino, può essere divisa in due momenti principali: la prima parte si snoda tra il 1950 ed il 1970, la seconda tra il 1974 ed il presente. In questo viaggio nel tempo seguiamo le vicende della protagonista Parthenope, interpretata da Celeste Dalla Porta, ella è una creatura equorea, una Napoli incarnata, nata nelle acque di Posillipo di fronte al suggestivo golfo napoletano e attrae magneticamente tutto ciò che la circonda; nella prima parte del film la regia di Sorrentino brilla più che mai, sensuale, estetica, artificiosamente gratificante, elegantemente ironica e proprio in mezzo a queste suggestioni ci vengono presentati i personaggi più interessanti del film tra i quali spicca Raimondo, il fratello della protagonista iinterpretato da Dario Aitia. Egli è un giovane sensibile, "fragile" come ripetono le persone che lo circondano, con un forte attaccamento nei riguardi della sorella, oscillante fra affetto e⁹ morbosità, infatti proprio per questo finirà per formare un bertolucciano triangolo amoroso, o meglio terzetto, con tragici risvolti, assieme alla sorella e Sandrino, un giovane perdutamente innamorato di lei, interpretato da un convincente Daniele Rienzo. Interessante la dicotomia fra le due esperienze di gioventù che Sorrentino ci presenta, lei esageratamente ammirata e di successo, lui tormentato e insofferente ai vincoli di una società che non può e mai potrà capire il suo amore proibito, ma questa è solo la prima delle ricorrenti dicotomie che punteggiano l'opera sorrentiniana, eppure è la più riuscita e ben si adatta alla spietatezza della realtà che il regista ci mostra, seppur costantemente imbellettandola di una ricercatezza artistica finta, rifatta, stregata, antoniana, felliniana, e quindi per derivazione anche dannunziana, forse proprio per questo essenzialmente italica prima che partenopea.
Nel mondo di Sorrentino si aggirano molti spettri, in un angolo ecco l'alcolista John Cheever, l'istrionico Gary Oldman, scrittore omosessuale e tormentato proprio come Raimondo e così come lui simbolo di ciò che non si può essere, ma inevitabilmente si è; in un viottolo ecco invece la perfettissima Parthenope che cammina sul far della sera circondata da corteggiatori di ogni classe e estrazione (tra cui facilmente s'immagina il caro Sandrino), forse il regista ci vuole dire che è proprio la bellezza la più potente forza unificatrice degli int⁸enti umani? Eppure lo spirito più angoscioso rimane Raimondo, specchio sia dell'estro di Cheever sia della giovinezza di Parthenope, ma nonostante ciò condannato dalla sua "fragile", meglio dire scomoda, condizione ontologica; lui che dice sempre che bisogna "lasciarsi andare" è il primo che non ci riuscirà mai, e non potrà soffiarsi di dosso la tragedia della sua angoscia se non nell'unica maniera che gli si pone innanzi, l'annichilimento di sé e della sua inaccettabile tensione romantica.
Possiamo individuare con l'inizio del secondo atto del film l'epifania delle reali criticità di un'opera che finalmente, o sfortunatamente, dispiega le onnipresenti debolezze che la prima parte ci aveva agilmente fatto dimenticare. La famiglia della protagonista la ostracizza per la tragedia del suicidio di Raimondo e lei persegue la carriera accademica in antropologia con il severo docente Marotta portato in scena da Silvio Orlando, poi lo sfortunato tentativo di una carriera cinematografica coronato da un discorso stereotipato su Napoli da parte di Luisa Ranieri, ancora la malavita e un aborto di Parthenope, trovando il tempo per farle chiudere il giovanile rapporto con Sandrino, per vederla dunque tremare nel mezzo delle contestazioni giovanili degli anni 70' ed infine concedersi carnalmente ad un cardinale, tutto questo sulle note nostalgiche di un'Italia che (forse) non c'è più. Sorrentino è sempre lui: iconoclasta, simbolico, più bravo nell'arguzia che nel romantico e sicuramente molto furbo. Nella seconda parte il tempo passa, ma sembra di tornare indietro nella carriera del regista, forse la magia della prima parte del film (la "fase estetica") era la promessa di una metamorfosi nella seconda (la "fase etica") e ciò era la fonte della sua bellezza, non a caso Stendhal scrisse "la bellezza non è che una promessa di felicità", e nonostante una svolta narrativa avvenga nel secondo atto essa non è verso il futuro, anzi Sorrentino ci ripropone ciò che aveva già offerto molte volte in passato cercando di accontentare pubblico e critica con un melting pot stereotipato, casereccio e familiare, e nè la sorpresa grottesca e simbolica rappresentata dal figlio del professor Marotta o il miracolo di San Gennaro possono smuovere tale fastidiosa sensazione di già visto. Il finale trae inevitabilmente pregi e difetti da ciò che lo ha preceduto, esso è carico di malinconia verso un tempo che passa inesorabile, è il luogo trascorso di una giovinezza tanto cara, ma che fu incapace di dirci chi eravamo e chi saremo diventati e quindi ci fa chiedere se Parthenope tentò realmente di vivere amando o solamente per inerzia dell'amore degli altri per lei. Sorrentino è cinico, ma è anche molto arguto e sicuramente sa ciò che piace e soprattutto cosa gli piace: ecco la folla di tifosi in festa, Napoli è ancora lei, Sorrentino è ancora lui e Parthenope si sente finalmente a casa.
Titoli di coda,
"Dio non ama il mare"
Fine.
Giunti alla conclusione viene spontaneo chiedersi, chissà cosa si sarebbe potuto creare se si fosse abbandonato per sempre il luogo dei ricordi, se ci si fosse accostati con maggior coraggio all'indicibile e all'impossibile, se si fosse veramente "visto" al di là, eppure non è questo il caso, il Sorrentino antropologo dice che vuole raccontarci la vita, ma mente, in realtà vuole solo raccontarci la sua Napoli e lo fa con molti attributi: nostalgica, malinconica, beffarda, familiare, offensiva, sospesa tra passato e presente, vecchia ed eterna giovane, nella sua perpetua baraonda e nei suoi miscugli dove tutto ha uno spazio e un luogo già stabilito, quindi bellissima come vorrebbe essere il suo film e onestamente, a noi, va anche bene così.