a cura del Professor Vincenzo Cascino (Università degli Studi di Genova)
Riassunto: L’articolo tratta il tema dei virtualescenti e il loro rapporto con il mondo virtuale. In particolare, cerca di esplorare l’argomento delle tecnodipendenze e gli strumenti diagnostici utilizzati. L’articolo esplora il mondo dei virtualescenti e di come questi diventano dipendenti dalla rete.
Summary: This paper aims to explore the relationship between the brain and the internet. The needed psichic processes are attention and concentration.
The author of this article proposes to use the ‘virtualescentes’ to indicate the adolescents who live in virtual realities.
In una cultura fortemente virtualizzata, l’Io reale e l’Io digitale parlano un linguaggio, il cui conflitto sfocia nelle tecnodipendenze (Cascino, 2022 a, b, c).
La cultura muta nel tempo, e con essa i modelli della società. Tutto questo comporta una serie di difficoltà per quanto concerne il rilevamento, la diagnosi e la cura di quelle che sono considerate le nuove forme di dipendenza. Infatti, accanto alle forme scientificamente riconosciute di dipendenza, quali la tossicodipendenza, l’alcol dipendenza, il gioco d’azzardo (GAP o Gambling) e il tabagismo, ce ne sono altre che richiedono uno sforzo di comprensione e sguardo critico da parte della comunità scientifica e sono quelle sviluppatesi rapidamente negli ultimi anni, così dette “new addictions”, tutte forme di dipendenza da sostanze legali. Infatti, i meccanismi e i sintomi della dipendenza possono verificarsi, a tutti gli effetti, anche senza l’impiego e gli effetti chimici di nessuna droga (Addiction drug-free). Si parla dunque di dipendenza da televisione (television addiction), dagli acquisti (shopping addiction), dal lavoro (work addiction), di dipendenza affettiva, i disturbi alimentari ecc.
L’internet addiction disorder- IAD è tra queste (Dal Pra Ponticelli, 2005)
L’essere umano dipende da alcuni comportamenti che lo aiutano a mantenere la sua omeostasi e quindi la specie. Nel corso dell’evoluzione, i circuiti a finalità omeostatica, basati sui meccanismi di motivazione e gratificazione, si sono consolidati. Il circuito che si attiva nel momento in cui uno stimolo gratificante raggiunge il nostro sistema nervoso centrale è il sistema mesolimbico, costituito dalla connessione tra area tegmentale ventrale (VTA, gruppo di neuroni localizzato in vicinanza della linea mediana sul pavimento del mesencefalo) e nucleus accumbens (regione del prosencefalo basale, rostrale all’area preottica dell'ipotalamo). L’attivazione di tale circuito, ad esempio, veicola la spinta comportamentale a raggiungere e mangiare un alimento che abbiamo voglia di mangiare. Il circuito della gratificazione però non si limita solo alle connessioni mesolimbiche, ma coinvolge anche altre importanti strutture anatomiche, in particolare la corteccia prefrontale. Essa è la parte anteriore del lobo frontale del cervello ed è situata davanti alla corteccia motoria primaria e alla corteccia premotoria. Il termine “sistema esecutivo” viene associato all’insieme di funzioni che le vengono assegnate. La corteccia prefrontale ha una funzione di inibizione sull’attività del sistema mesolimbico, pertanto, è come se fosse il circuito di controllo e blocco di tale sistema. Le esperienze legate al piacere sono inoltre mediate nello spazio intersinaptico da un neuromediatore, la dopamina, che sta alla base dell’attivazione del “craving”, considerato come il desiderio impellente, urgente e non differibile di assumere la sostanza o di agire il comportamento di dipendenza. La dopamina svolge un ruolo fondamentale nel mantenimento e nel rinforzo delle condotte compulsive, evidenziando come mente e cervello siano parti dello stesso insieme, integrate entrambe nella funzione di apprendere dalla realtà e dall’esperienza (Bion, 1962). Il neuromediatore dopamina è coinvolto in tutti gli stati di eccitazione che portano alla soddisfazione di un bisogno all’interno di un circuito neurocerebrale mesolimbico, definito reward system (sistema della ricompensa). Esso è considerato la sede delle gratificazioni e ci permette in tale accezione di distinguere ciò che per noi è bene, da ciò che lo è meno, e quindi ciò che è male (www.neuroscienze.net). Quando la dopamina si attiva, invia endorfine al lobo frontale, provocando una sensazione soggettiva piacevole. Tale neurotrasmettitore svolge un’importante funzione nell’attribuzione della salienza, ovvero del valore motivazionale, a stimoli di varia natura, nell’indirizzare i comportamenti motivati, nel predire la gratificazione e nel consolidamento del ricordo di esperienze significative. La dopamina è quindi, a tutti gli effetti, la matrice del sistema di gratificazione, è infatti possibile affermare che ad ogni comportamento gratificante, la quantità di dopamina aumenta, e, dall’area tegmentale raggiunge il nucleus accumbens nel sistema mesolimbico. Pertanto, questi comportamenti si basano su due concetti importanti: il rinforzo positivo e il rinforzo negativo. Il rinforzo positivo è uno stimolo gratificante che aumenta la probabilità che il comportamento da cui proviene venga ripetuto (sulla base di un apprendimento condizionato), ad esempio, se mangio un nuovo alimento e questo mi piace, aumenta la probabilità che io mangerò nuovamente quell’alimento. Il rinforzo negativo è uno stimolo avverso che aumenta la probabilità che un comportamento di annullamento dello stimolo ostile venga ripetuto (sulla base di un apprendimento condizionato), ad esempio quello che accade con il fumo di sigaretta. Stati d’animo negativi come l’ansia, spesso vengono contrastati inconsapevolmente sulla base di un meccanismo di rinforzo negativo proprio mediante il fumo di sigaretta; quindi, un individuo fuma di fronte a uno stato d’animo avverso e in qualche modo annulla quello stato, dando luogo a un rinforzo negativo.
Un tratto che accomuna le dipendenze comportamentali e quelle da sostanze, è che la loro insorgenza è subordinata a molteplici cause che scaturiscono da diversi fattori, che possono essere genetici, ambientali, comportamentali ed emotivi, essendo a tutti gli effetti multifattoriale, andandosi inoltre a correlare al modello biopsicosociale, che è alla base della maggior parte delle risposte terapeutiche. Dal punto di vista motivazionale, la dipendenza si colloca tra la ricerca del piacere e l’evitamento del dolore. Consiste nella ripetizione di qualsiasi comportamento che assuma rilevanza psicologica nel ridurre stati emotivi percepiti come negativi e nell’intensificare stati positivi di percezione di sé e del mondo. I comportamenti di dipendenza che si mettono in atto, sono accomunati dalla possibilità di alterare lo stato di coscienza e dell’umore, offrendo una prospettiva di cambiamento, in senso positivo, al proprio stato d’animo. Tali comportamenti, infatti, provocano stati di piacere soggettivi che scatenano euforia, alimentando, di conseguenza, il comportamento di dipendenza.
2.1 La Dipendenza Patologica
La storia concettuale della dipendenza è stratificata e può affondare le sue radici fino alla descrizione fornita da Trotter (Trotter, 1804) del genio malvagio dell’abitudine all’ubriachezza che egli definiva “una malattia prodotta da una causa remota, che da origine ad azioni e movimenti nel corpo vivente e che disturba le funzioni vitali per la salute” (Tao, 2010). Successivamente a Trotter, agli inizi del XX secolo, si inizia a parlare di dipendenza, che riguarda però un insieme più ampio di sostanze, come la cannabis, la nicotina e in seguito la cocaina (Who, 1968). Nel 2001, si leggeva su un articolo che “una ricompensa è una ricompensa, indipendentemente dal fatto che provenga da una sostanza chimica o da un’esperienza. E quando c’è una ricompensa, c’è anche il rischio che il cervello vulnerabile rimanga intrappolato in una compulsione” (Holden, 2001). Ulteriori ricerche che si sono susseguite negli anni hanno continuato ad occuparsi dei sistemi di ricompensa del cervello, spingendosi in avanti per comprendere non solo le sostanze ma anche le azioni e i comportamenti messi in atto. Le dipendenze comportamentali, esattamente come le altre dipendenze, venivano piano piano considerate come dei disturbi del controllo e degli impulsi, che implicavano un uso eccessivo, astinenza, tolleranza ed avevano ripercussioni sociali negative (Karin et al. 2016). L’uso di sostanze stupefacenti e alcoliche è una pratica che risale all’antichità, quando venivano utilizzare per conoscere la volontà delle divinità, per alleviare le fatiche e i dolori fisici ed infine per il puro piacere in una chiave mistico-religiosa.
Il termine dipendere, dal latino de-péndere, vuol dire essere appeso, attaccato a qualcosa o a qualcuno, in inglese addiction significa dedizione, schiavitù, a volte anche tradotto come “essere schiavi di un vizio”. La dipendenza è una condizione naturale e, in particolari momenti, imprescindibile dell’uomo. Basti pensare al fatto che l’uomo è dipendente quando ha bisogno di figure significative e di riferimento per crescere, per capire che un periodo breve o lungo di dipendenza, il più delle volte è funzionale al raggiungimento di una piena autonomia e autodeterminazione. In questo, ed in molti altri casi, è possibile parlare di dipendenza “sana” o “funzionale” dell’individuo. Ma, a questo termine in realtà, è spesso associata un’accezione negativa o “patologica”, quindi “disfunzionale”. Si parla di dipendenza in questi termini, quando essa occupa la maggior parte del tempo di un individuo, agendo in maniera negativa sulla sua concentrazione e si presenta come diretta conseguenza di un rapporto squilibrato, o abuso, di sostanze legali e/o illegali, naturali e/o sintetiche e di un’alterazione comportamentale. Inoltre, la persona dipendente, perde facilmente la capacità di controllo, ricercando la fonte del piacere in modo esagerato, mettendo in atto un comportamento del tutto squilibrato. È spinta poi a reiterare l’esperienza conseguentemente agli effetti soddisfacenti e piacevoli che ne trae, che si vanno ad aggiungere al senso di malessere che prova quando non assume quel determinato comportamento o sostanza; è sempre dissociata dall’ambiente che la circonda e sembra vivere di attimo in attimo, attraverso la persistenza di atteggiamenti dipendenti, anche mascherati, fino all’adesione esagerata a cose concrete o a quei comportamenti autolesivi che caratterizzano la dipendenza patologica. Quest’ultima, per la quale utilizzeremo in questo elaborato anche il termine “addiction”, è fondata sulla compulsività dei comportamenti e la pervasività dei pensieri. I comportamenti impulsivi e compulsivi che coinvolgono corpo e mente rappresentano ciò che la psicopatologia attuale ha definito CRAVING, fenomeno che va inteso come un’inarrestabile e improcrastinabile spinta a compiere un’azione o ad assumere una sostanza, che spesso travalica la forza di volontà. La dipendenza patologica diventa così un’alternativa al dolore intollerabile ed esprime il bisogno di soffrire di meno. Il piacere legato alla gratificazione appare non tanto come un modello esistenziale, frutto di una scelta consapevole, ma come l’esito finale di un cortocircuito destinato a ripetersi. Il craving comporta l’attivazione di un meccanismo cognitivo conflittuale tra la motivazione all’assunzione della sostanza e la consapevolezza del rischio connesso all’assunzione della sostanza. L’individuo percepisce le difficoltà ed i problemi connessi all’assunzione di quella determinata sostanza o di quel comportamento, ma, nonostante ciò, sente una spinta motivazionale molto forte ad assumerli entrando quindi in una fase conflittuale in cui alla fine sceglie di farlo. Tutto ciò ha anche una spiegazione di natura neurobiologica proprio perché il sistema mesolimbico, che si trova a livello sottocorticale, è la sede della spinta motivazionale, mentre la corteccia cerebrale, che è per di più la sede della coscienza e della riflessività, si oppone alla funzione delle strutture sottocorticali.
L’organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), nei primi anni ’50 del ‘900, diede la sua definizione di tossicodipendenza, tentando di descrivere la serie di caratteristiche che deve presentare una dipendenza per essere considerata patologica: “stato di intossicazione cronica o periodica dannosa all’individuo e alla società, prodotta dall’uso ripetuto di una sostanza naturale o di sintesi, caratterizzata da: un’irresistibile bisogno o desiderio di continuare ad assumere la sostanza e quindi di procurarsela con ogni mezzo; tendenza ad aumentare la dose; dipendenza psichica e fisica dagli effetti della sostanza; effetti dannosi all’individuo e alla società”. Più tardi, nel 1978, l’OMS, modificò la definizione sopra citata per meglio sottolineare il concetto di dipendenza esattamente come uno “stato psichico e talvolta fisico risultante dall’interazione tra un organismo vivente e una sostanza, e caratterizzato da modificazioni del comportamento o reazioni che determinano la compulsione ad assumere la sostanza in modo periodico o continuo, per sperimentare i suoi effetti psichici e per evitare gli effetti di privazione (Basurto, 2004).
Il Manuale internazionale di statistica e diagnostica dei disturbi mentali (DSM), indica dei criteri universali per la diagnosi della dipendenza patologica. Quest’ultima è definita come “una modalità patologica d’uso della sostanza che conduce a menomazione e a disagio clinicamente significativi, come manifestato da tre, o più, delle condizioni seguenti:
Desiderio persistente o tentativi infruttuosi di ridurre o controllare l’uso della sostanza;
Una grande quantità di tempo viene spesa in attività necessarie a procurarsi la sostanza o a riprendersi dai suoi effetti;
Uso ricorrente e continuativo della sostanza nonostante la consapevolezza di avere un problema persistente o ricorrente di natura sociale, fisica e psicologica verosimilmente causato o esacerbato dalla sostanza;
Tolleranza, ossia il bisogno di assumere dosi notevolmente più elevate della sostanza per raggiungere l’intossicazione o l’effetto desiderato e allo stesso tempo un effetto notevolmente diminuito con l’uso continuativo della stessa quantità della sostanza;
Astinenza, cioè l’insieme dei sintomi spiacevoli, fisici e psichici, sperimentati dalla persona quando questa non assume la sostanza o non mette in atto il comportamento compulsivo;
Tendenza ad assumere progressivamente quantità sempre maggiori o per periodi più prolungati, rispetto a quanto previsto dal soggetto;
Interruzione o riduzione d’importanti attività sociali, lavorative e ricreative a causa dell’uso della sostanza;
La dipendenza patologica è talvolta evidente e riconosciuta maggiormente quando riguarda l’uso di sostanze psicoattive che possono essere pericolose per la salute e l’equilibrio mentale della persona. Altre volte, invece, tale forma di dipendenza è insidiosa e difficile da mettere in luce perché coinvolge comportamenti accettati, o addirittura incoraggiati socialmente. “Ogni esperienza di liberazione, se condotta a una sua esasperazione, può trasformarsi in scorporazione, può produrre delocalizzazione, spaesamento, perdita di radicamento ed estraneità” (Giorgetti Fumel M., 2010). Tutte le dipendenze condividono la progressiva percezione di perdita delle capacità di esercitare controllo sul comportamento dipendente, la sensazione di impossibilità di resistere all’impulso di mettere in atto il comportamento. Tutto questo, inevitabilmente, porta alla compromissione della vita sociale, familiare e lavorativa.
L’american Psychiatric Association (2013), l’Organizzazione Mondiale della Sanità (2008) e l’American Society for Addiction Medicine (2010), hanno riconosciuto l’esistenza di dipendenze patologiche comportamentali di varia entità e con diversi, sebbene analoghi, caratteri clinici. Mark Griffiths (2005) evidenzia sei aspetti fondamentali per definire un
ADDICTION: preminenza, influenza sul tono dell’umore, tolleranza, sintomi di astinenza, conflitto e recidiva. “Per preminenza si intende che il comportamento diventa l’attività più importante nella vita della persona e tende a dominarne pensieri, sentimenti e azioni. L’influenza sul tono dell’umore si riferisce alle conseguenze emotive del comportamento sull’individuo, che spesso è un modo di affrontare i problemi, ed è descritto come una esperienza molto emozionante, o per il suo effetto rilassante o come “diversivo” rasserenante. La tolleranza è il fenomeno per cui è necessario intensificare il comportamento per raggiungere i precedenti effetti sul tono dell’umore, il che spesso significa maggiore quantità di tempo impegnato nel comportamento e/o che si instaura un aumento volontario e progressivo di intensità, avventatezza, distruttività e natura egodistonica del comportamento stesso. I sintomi da astinenza sono stati d’animo spiacevoli e/o conseguenze fisiche, come ad esempio l’agitazione, l’instabilità dell’umore, l’irritabilità, che si verificano quando il soggetto non può mettere in atto il comportamento. Il conflitto riguarda la discordanza che si determina tra il soggetto e coloro che gli sono intorno, quindi conflitti interpersonali, incompatibilità con altre attività, ossia vita sociale, lavoro, hobby, interessi, o problemi interiori, quali possono essere conflitti intrapsichici e/o la sensazione soggettiva di perdita del controllo, correlati al tempo eccessivo dedicato al comportamento. La recidiva è la tendenza a tornare più volte a comportarsi come in precedenza e a giungere alle forme più estreme del comportamento subito dopo periodi di maggiore controllo.” (Rosenberg & Feder, 2014). Le nuove dipendenze, o dipendenze senza sostanza, si riferiscono a una vasta gamma di comportamenti anomali, tra le quali possiamo annoverare il gioco d’azzardo patologico, la dipendenza da tv, lo shopping compulsivo, le dipendenze dal sesso e dalle relazioni affettive, le dipendenze dal lavoro e alcune devianze del comportamento come l’eccesso di allenamento sportivo (sindrome da sovrallenamento). Fa parte di questo elenco anche la IAD (Internet Addiction Disorder o dipendenza da internet).
2.1.1 IAD - Internet Addiction Disorder
L’internet Addiction Disorder (IAD), ha riscosso una certa attenzione da parte della comunità scientifica, specialmente negli ultimi anni. Circa il 40% della popolazione mondiale possiede oggi una connessione internet. Gli utenti sono aumentati di almeno 10 volte, dal 1999 ad oggi. Infatti, nel 2005 si era raggiunto il primo bilione di utenti, nel 2010 due bilioni e nel 2014 il terzo bilione (Ropelato, 2014). Nella quinta versione del DSM (Diagostic and Statistic Manual of Mental Disorder), la sezione riferita ai Disturbi da utilizzo di Sostanze è stata suddivisa in due parti: dipendenza da sostanze e dipendenza senza sostanze. La prima parte si riferisce ai casi in cui si parla di comportamento di assunzione di una sostanza tossica per l’organismo, che genera un sempre maggior bisogno di assunzione in modo ripetuto nel tempo e sempre più ravvicinato, allo scopo di provare gli effetti psichici della sostanza e di evitare i malesseri fisici della sua privazione. La seconda parte fa riferimento a comportamenti anomali che però danno l’effetto medesimo. Ad oggi, in quest’ultima sottocategoria, è indicata solo la dipendenza da gioco d’azzardo, la dipendenza da internet (IAD), non vi rientra ancora a pieno titolo, ma è segnalata come proposta nella terza sezione del manuale, dove sono annoverate quelle condizioni che richiedono ulteriori studi prima di essere classificate definitivamente come disturbi. Il gioco d’azzardo patologico, dunque, è al momento l’unico disturbo non correlato a sostanze, inserito come categoria diagnostica nel DSM-5. Il gruppo di lavoro del DSM-5 ha esaminato più di 240 articoli trovando similitudini comportamentali tra gioco su internet, disturbo da gioco d’azzardo patologico e disturbo da uso di sostanze (American Psychiatric Association, 2014). Mancando però ancora una definizione standard dell’IAD è difficile determinare i dati di prevalenza con precisione. In particolare, nella terza sezione del DSM-5, si evidenzia come si possa parlare di dipendenza da internet quando, per una significativa quantità di tempo, le proprie energie psico-fisiche vengono spese in rete, creando così molte lacune degli altri ambiti della vita quotidiana come quella personale, scolastica, lavorativa, relazionale, familiare ed affettiva. Inoltre, vengono riconosciuti comportamenti del tutto simili all’assuefazione, al bisogno impellente e alla comparsa di tolleranza, così come avvengono esattamente per quanto riguarda l’utilizzo di sostanze (Scaramozzino D. et al. 2014). Al momento sono cinque le tipologie di dipendenza da Internet riconosciute e sono le seguenti:
Dipendenza dalle relazioni virtuali (Cyber-Relational Addiction), caratterizzata da un’eccessiva tendenza ad instaurare rapporti d’amicizia o amorosi con persone conosciute in rete principalmente via chat, forum o social networks. In tale condizione, le relazioni online diventano rapidamente più importanti dei rapporti nella realtà con la famiglia e con gli amici reali;
Sovraccarico cognitivo (Information Overload), caratterizzato da una ricerca ossessiva di informazioni sul web: gli individui trascorrono sempre maggiori quantità di tempo nella ricerca e nell’organizzazione dei dati in rete;
Dipendenza dal sesso virtuale (Cybersexual Addiction), nella quale si individua un uso compulsivo di siti dedicati alla pornografia e al sesso virtuale. Gli individui sono di solito dediti allo scaricamento e all’utilizzo di materiale pornografico online, sono coinvolti in chat per soli adulti e possono manifestare masturbazione compulsiva;
Gioco Offline (Computer Addiction), caratterizzato dalla tendenza al coinvolgimento eccessivo in giochi virtuali che non prevedono l’interazione tra più giocatori e non sono giocati in rete;
Gioco Online (Net Compulsion), nel quale si evidenziano coinvolgimento eccessivo e comportamenti compulsivi collegati a varie attività online quali il gioco d’azzardo, lo shopping compulsivo, i giochi di ruolo.
Secondo Young (2000), la dipendenza da Internet si sviluppa secondo tre fasi distinte: il coinvolgimento, la sostituzione e la fuga. Nella prima fase prevale solo una certa curiosità e voglia di sperimentazione che porta, infine, a scegliere una particolare applicazione di Internet. Nella seconda fase si vive un’immersione profonda nell’esperienza, nelle attività e nelle relazioni offerte dalla Rete. La rete sostituisce ciò che sembra mancante o inaccessibile nella vita reale. A tal proposito, per quanto riguarda le relazioni, nel giro di qualche mese o di qualche settimana, ecco che hai sempre più amici. È solo nella terza fase che s’instaura realmente la dipendenza: il soggetto si rivolge alla comunità di Internet sempre più spesso e per periodi sempre più lunghi. La rete diventa un antidoto efficace a ogni tipo di stress e sofferenza, e la persona sperimenta una profonda angoscia se non può connettersi. Tanto che non è in grado di evitare di farlo, anche se lo vuole. Questo stato interferisce negativamente sullo studio, sul lavoro e sui rapporti sociali. Il soggetto può arrivare persino a mentire a familiari e medici sul reale numero delle ore che trascorre collegato. Secondo Young, alla base nella nuova dipendenza, sono presenti sempre forme di fuga da altri problemi, più o meno evidenti. Questo tipo di fuga però risulta essere di natura temporanea perché, una volta spento il computer, i problemi di ogni giorno si riaffacciano e si aggravano. Questo ha come conseguenza il fatto che le persone si rituffino nel cyber spazio e ci ritornino sempre più frequentemente e per periodi sempre più lunghi, al fine di placare le sensazioni dolorose risvegliatesi (Young, 2000). Solo in Italia, è stimato che oltre 250.000 adolescenti passino più di tre ore al giorno davanti ad uno schermo, sia esso della tv, della consolle, del computer, o di qualche smartphone. In molti di questi casi, come abbiamo visto da articoli precedenti, l’adolescente rinuncia a frequentare la scuola, viene assorbito da una realtà parallela e virtuale. Infatti, è molto importante porre in risalto il fatto che la dipendenza da internet non è sempre proporzionale alla quantità di tempo che si passa in rete, ma piuttosto a quanto la rete occupa i pensieri della persona. Ad esempio, un ragazzo che non può connettersi più di qualche ora, ma passa il resto della giornata a pensare in modo ossessivo al gioco di ruolo al quale partecipa su internet, è da considerarsi maggiormente dipendente di chi rimane connesso per un numero maggiore di ore, per svolgere il proprio lavoro e una volta tornato a casa un computer non lo vuole neanche vedere. Per le persone che presentano questo genere di dipendenza da internet, “navigare” diventa un bisogno che esclude progressivamente ogni altra cosa che fa parte della propria vita, ritirandosi dal mondo reale e mettendo in secondo piano tutte le attività della vita quotidiana.
2.1.2 Effetti sul benessere psicofisico
L’uso problematico di Internet viene definito come un utilizzo smodato, che comporta delle difficoltà nella vita di un individuo in ambito psicologico, sociale, educativo o lavorativo, a causa del troppo tempo passato sul web (Beard & Wolf, 2001). Internet viene spesso descritto come uno strumento che ha un significativo potenziale per influenzare gli atteggiamenti, i comportamenti e le abitudini delle persone, nei contesi amicali, lavorativi e familiari (Candemir & Tunc, 2020). Nonostante sia uno strumento utilissimo nella vita quotidiana, Internet è in realtà una moneta con due facce opposte (Praisy et al., 2020). Infatti, da una revisione della lettura, l’uso di Internet può avere molti effetti negativi, ma anche alcuni risvolti positivi.
Problemi Interpersonali: si sono riscontrati ricorrenti e gravi difficoltà nel relazionarsi con gli altri, come ad esempio reagire ad alcune situazioni come gli altri non si aspetterebbero. Si sciolgono le relazioni preesistenti, in modo graduale e non si trova interesse nel coltivarle. Alcuni siti di social network generano invidia in molte persone, che sono gelose dei successi e della tanta felicità ostentata dagli altri (Romano, 2013). La dipendenza da Internet, al pari di qualsiasi altra forma di dipendenza, porta alla solitudine e all’isolamento. Quello che rende difficile arrivare ad una consapevolezza generale e collettiva circa il problema, è che “la rete e le comunità web, in un loro uso distorto, offrono l’illusione di un’appartenenza comunitaria, fondata su legami virtuali, in cui le relazioni possono essere create e mantenute, senza rinunciare alla propria condizione di egoistico e appassionato isolamento” (Giorgetti Fumel, 2010). Spesso sono proprio le famiglie a lamentare problemi interpersonali legati all’abuso di Internet, soprattutto per quanto riguarda i minori, gli adolescenti, i ragazzi e i giovani adulti in casa. È facile intuire come possa rivelarsi più semplice mostrare la propria identità, liberamente, nel mondo virtuale. Questo però fa si che non si acquisisca mai realmente l’abilità di relazionarsi e mostrarsi agli altri per come si è veramente, alimentando il bisogno di rifugiarsi nel mondo virtuale per sentirsi maggiormente adeguati e accettati. Se non si è sulla rete, quasi non si esiste, a partire a questo si comprende la necessità di essere sempre in contatto con gli altri, virtualmente. “L’aspetto sociale di questi mondi virtuali, infatti, è tale per cui si sia soggetti ad accettazione o a rifiuto, si riesca a instaurare relazioni o si rimanga esclusi, con processi del tutto simili, sebbene elevati esponenzialmente, a quelli della vita reale” (Giorgetti Fumel, 2010).
Problemi comportamentali: il proprio tempo va sempre riprogrammato a causa di una erronea gestione del tempo che si trascorre su internet. La rete viene utilizzata per navigare fino a tarda notte, con conseguenti problematiche relative alla privazione di sonno. Si trascorre molto meno tempo a coltivare amicizie reali, passioni, hobby, sport. Spesso vengono saltati i pasti per rimanere sempre connessi. “A livello generale si osserva una graduale perdita del senso di appartenenza a tutto ciò che è della dimensione territoriale, in senso culturale, politico e sociale, per via di un’intensificazione dell’identificazione alla grande e immateriale comunità elettronica […] che spinge sempre più alla rinuncia dell’esperienza diretta della natura” (Giorgetti Fumel, 2010). Il coinvolgimento istantaneo cui siamo sottoposti dai nuovi media sopprime l’identità privata, generando rabbia e forme di violenza (Giorgetti Fumel, 2010)
Problemi fisici: la dipendenza da internet causa numerosi problemi fisici che possono insorgere stando a lungo seduti davanti ad un computer: emicranie, cefalee, insonnia e mal di schiena (cervicalgia, dorsalgia, lombalgia), alterazione del comportamento alimentare, sindrome del tunnel carpale, eccessivi affaticamenti, indebolimento del sistema immunitario che porta al peggioramento dello stato di salute psicofisica della persona dipendente. Inoltre, sono riscontrabili disturbi alla vista, dolori e fastidi al collo, contratture e indolenzimenti. Seduti tante ore al giorno senza muovere un muscolo, chini sulla tastiera o con la testa sugli smartphone, si assumono posture sbagliate e non si svolgono movimenti fondamentali per il corpo che aiutano a smaltire e a bruciare calorie, aumentando di conseguenza anche il rischio di malattie cardiovascolari, sovrappeso e diabete. Oltre alla sindrome del tunnel carpale, può comparire anche quella del dito “a scatto”, causata da un’eccessiva sollecitazione dell’articolazione del pollice e dell’indice, che provoca un bruciore insieme a un fastidio alla base del pollice.
Problemi psicologici: sono stati riscontrati cambiamenti di umore repentini e destabilizzanti. Disturbi compulsivi e depressione, ansia, irrequietezza, irritabilità, tono basso d’umore ma anche senso di soddisfazione, gratificazione e piacere durante la connessione ad Internet, utilizzato come criterio d’analisi nelle ricerche. Infelicità (Romano, 2013), disturbi della memoria, dell’attenzione e della concentrazione, oltre ad appiattimento emotivo e generale ottusità. Spitzer nel 2014, definisce questo quadro clinico come “demenza digitale”. Pensare, memorizzare e riflettere non costituiscono più la norma. “Demenza”, in questo caso particolare si riferisce prettamente ad uno scarso rendimento mentale e bassa capacità critica poco pensiero, bassa capacità critica e di orientamento tra le informazioni che si ricevono (Spitzer, 2012). Inoltre, vi è una riduzione drastica delle capacità creative e analitiche. In effetti, il modo in cui gli strumenti elettronici ci facilitano la vita, fa si che noi possiamo evitare di fare qualsiasi tipo di fatica, anche mentale, ma, delegando sempre il compito di fare al posto nostro, a questi strumenti, anche il nostro cervello si atrofizza. Si denota inoltre un peggioramento delle prestazioni scolastiche, sia nel calcolo che nella lettura. L’utilizzo del computer nei primi anni della scuola materna può provocare disturbi dell’attenzione e in seguito dislessia, In età scolare, si registra un incremento dell’isolamento sociale (Spitzer, 2012). Sono molto diffusi sentimenti di solitudine e abbandono e nello stesso tempo crescono crisi di panico, ansia e paure, suscitate dalle relazioni interpersonali. Il successo delle chat-line costituisce un chiaro esempio su come le persone possano essere apparentemente socializzate in rete, mentre magari, nella vita reale, sono profondamente chiuse, privilegiando forme di relazione accomodanti ai propri bisogni narcisistici (Cantelmi, 2013).
Problemi lavorativi: la significativa correlazione negativa riscontrata tra unità di lavoro e percentuale di tempo di Internet, supporta l’idea che l'uso di Internet motivi e spinga al non-lavoro. Si osservano quindi ritardi sul posto di lavoro e nelle consegne. Molte persone navigano in Internet per propri interessi durante l’orario di lavoro. Inoltre, anche il non aver lavoro e una situazione economica insoddisfacente conduce alla dipendenza da Internet. Tutta questa mole di problemi può divenire molto presto un circolo improduttivo che si autoalimenta e che porta progressivamente alla degenerazione fisica e mentale.
Internet, però, porta con sé anche effetti positivi come l’informazione, la comodità, il possedere risorse illimitate e il divertimento. Inoltre, la rete Internet è di grande aiuto quando si parla di comunicazione senza confini, di creare, gestire e tramettere documenti, vedere e sentire persone molto distanti, acquistare prodotti di ogni genere senza muoversi, seguire corsi di aggiornamento a distanza, migliorare le proprie capacità in autonomia, espandere la propria rete di contatti e il bagaglio di conoscenza.
2.1.3 Strumenti diagnostici
Kimberly Young, oltre ad affermare l’esistenza della dipendenza da internet, propose alcuni criteri diagnostici per poter individuare i caratteri formali della dipendenza, cioè la tolleranza, l’astinenza e il craving. Secondo la ricercatrice, coloro che soddisfano quattro o più dei seguenti criteri, nel corso di un anno, possono definirsi “Internet dipendenti”:
Essere mentalmente assorbito da Internet;
Avvertire il bisogno di utilizzare Internet sempre più a lungo per sentirsi soddisfatto;
Avere difficoltà a controllare il proprio utilizzo della rete;
Sentirsi inquieto o irritabile mentre si tenta di ridurre o interrompere l'utilizzo di Internet;
Utilizzare Internet come mezzo per fuggire dai problemi o per alleviare il senso di abbandono, impotenza, colpa, ansia o depressione;
Mentire ai familiari o agli amici per nascondere il proprio grado d’interesse per la rete;
Avere messo a repentaglio o aver rischiato di perdere relazioni affettive, opportunità di lavoro o di studio a causa di Internet;
Tornare in rete anche dopo aver speso grandi somme di denaro per i collegamenti;
Ritiro sociale quando si è offline con aumento di depressione e ansia.
La ricercatrice Young elaborò anche un modello, che chiamò “ACE”, il quale spiegava in maniera più dettagliata i comportamenti ossessivocompulsivi nei confronti di internet e che veniva utilizzato per identificare i fattori facilitanti e predisponenti l’insorgere di disturbi patologici rispetto all’utilizzo di internet. ACE è l’acronimo di:
Accessibility, ovvero accessibilità e velocità con cui oggi, a seguito della diffusione della rete, è possibile avere accesso ad una vasta gamma di sevizi, traendone una gratificazione immediata.
Control, ovvero la capacità della persona di controllare, padroneggiare e gestire le proprie attività online, più di quanto gli è possibile rispetto alle attività della vita reale.
Exicitement, ovvero l’eccitazione vissuta attraverso l’esperienza di navigare in rete
La Young propose inoltre cinque tipologie caratterizzate da diversi comportamenti compulsivi, messi in atto relativamente ai contenuti/applicazioni fruiti. Le tipologie sono le seguenti:
- Cyber-sexual addiction (dipendenza dal sesso virtuale). Quando vi è un uso compulsivo di siti dedicati alla pornografia e al sesso virtuale.
- Cyber-relational addiction (dipendenza da relazioni virtuali). Riguarda tutti coloro che manifestano un eccessivo coinvolgimento nelle relazioni affettive e/o adultere nate e mantenute in rete attraverso chat, email e, più comunemente nei giovani, sfruttano forum e Social Network, come ad esempio Instagram in particolare (Ballarotto et al., 2021). Si corre il rischio poi di sviluppare quella che è la Social Media Addiction, tale per cui i soggetti generalmente trascorrono circa sette ore o più online, attuando, in alcuni casi, comportamenti a rischio quali cyber-bullismo, sexting o social challenges, diffusa di più tra i giovani.
- Net compulsion (dipendenza da attività in rete). Il gioco d’azzardo online e lo shopping compulsivo sono degli esempi.
- Information overload (dipendenza da eccessive informazioni). Quando si effettua una ricerca compulsiva di informazioni online, la quale occupa il maggior tempo impiegato su web. Inoltre, i materiale raccolto viene collezionato ed organizzato ossessivamente.
- Computer addiction (dipendenza da giochi virtuali online). Questa è caratterizzata da un uso eccessivo di giochi virtuali, per i quali è spesso necessario che la persona crei un avatar o un personaggio attraverso cui vive in un universo virtuale.
Oltre alla Young, altri ricercatori dopo di lei, hanno considerato il termine IAD come un concetto esteso che va a comporsi dei cinque sottogruppi differenti, sopra citati. (ISS, 2022; Librani, 2017; Mihajlov & Vejmelka, 2017; Ozturk & Alkaya 2021; Poli, 2017; Young, 1999). Data la presenza di vari comportamenti, diventa di fondamentale importanza indagare i diversi fattori di rischio o di protezione che si associano a questa patologia. In uno studio sono state individuate tre macroaree principali alle quali appartengono i sintomi provati più frequentemente dai pazienti: fisica, psicologica e sociale (Cantizano et al., 2019). I sintomi associati all’uso di internet sono i seguenti: deprivazione del sonno, dovuto all’uso prolungato che può occupare le ore notturne e dall’effetto stimolante che hanno i dispositivi elettronici usati prima del sonno; difficoltà coniugali, dovute alla riduzione di attività sociali; negligenza dei lavori professionali o percezione di sentimenti di abbandono dei propri cari (Ahmadi et al., 2021; Cañas & Estévez, 2021; Tereshchenko & Kasparov, 2019; Vondràckova & Gabrhelik, 2016). Il riconoscimento della sintomatologia è fondamentale per agire tempestivamente e sarebbe più semplice se si riuscisse ad individuare uno strumento universale per la diagnosi. Attualmente il modello diagnostico più usato rimane quello formulato dalla Young, basato sui criteri diagnostici riportati nel DSM-IV per la dipendenza da gioco d’azzardo (Fernandes et al., 2019; ISS, 2022; Poli, 2017). Sulla base di questo strumento, è stata sviluppata la versione più comunemente utilizzata del questionario per la misurazione della dipendenza da Internet, l’Internet Addiction Test (IAT) (Young, 1998). Lo IAT è una scala di 20 elementi che misura la presenza e la gravità della dipendenza da Internet, è quindi uno strumento di misurazione dei sintomi per la dipendenza da Internet (ISS). Tra gli strumenti disponibili per l’Italia, oltre alla IAT, vi è inoltre “Uso, Abuso e Dipendenza da Internet” (UADI) (Del Miglio et al. 2001) che valuta il rischio di sviluppare un abuso di Internet, la componente psicologica connessa all’uso della Rete da parte degli utenti e alcune variabili psicopatologiche correlate a tale utilizzo eccessivo. Successivamente, nel 2005. È stata proposta una versione dell’UADI per adolescenti, nella quale gli item sono 27 e le dimensioni indagate sono leggermente modificate (Baiocco et al. 2005).
Il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, noto anche con la sigla DSM (dall’inglese Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), è uno dei sistemi nosografici per i disturbi mentali o psicopatologici più utilizzati in ambito internazionale, sia nella pratica clinica sia nell’ambito della ricerca. A San Francisco, il 17 maggio 2013 l’APA ha annunciato la pubblicazione della quinta edizione del Manuale, DSM-5. L’edizione italiana è stata pubblicata nel 2014. Il manuale, oggi alla 5ª edizione, viene redatto prendendo in considerazione lo sviluppo e i dati derivanti dalla ricerca psicologica e psichiatrica in diversi campi, cosa che consente di introdurre nuove definizioni di disturbi mentali o modificare quelle già esistenti (www.stateofmind.it). I sistemi diagnostici usati negli Stati Uniti devono essere compatibili con l'ICD dell’OMS (International Classification of Diseas) per assicurare l'uniformità delle statistiche nazionali e internazionali. I diversi cambiamenti e le novità del DSM-5 sono il prodotto di 30 anni di acquisizione di nuovi dati e progressi provenienti dalla ricerca scientifica mondiale, così come è stato sottolineato nell’Introduzione del Manuale. L’impalcatura del DSM-5 è ancora quella originaria del DSM-III, salvo l’abolizione del sistema multiassiale, quindi ateorica, che adotta un criterio prevalentemente descrittivo sulle manifestazioni cliniche dei disturbi psichici e basata su fenomeni osservabili, criteri intercambiabili, termini temporali scelti per convenzione, creazione di categorie NAS (Non Altrimenti Specificato), studi sul campo, confronto con associazioni di pazienti e con altri operatori della salute. Il disturbo mentale è quindi il risultato di una “condizione sistemica” in cui rientrano: il patrimonio genetico, la costituzione, le vicende di vita, le esperienze maturate, gli eventi stressanti, il tipo di ambiente nel quale si cresce e si vive, la qualità delle comunicazioni intra ed extra-familiari, l'individuale differente plasticità del cervello, i meccanismi psicodinamici, la peculiare modalità di reagire, di opporsi, di difendersi. Chiaramente non è possibile inquadrare la mente e il comportamento umano in numeri, sezioni e categorie, tuttavia è vero che affinché medici, psichiatri e psicologi di tutto il mondo possano comunicare tra loro è necessario utilizzare un linguaggio chiaro e condiviso, accettando il fatto che ogni scelta è una convenzione e ha, di conseguenza, i suoi vantaggi e i suoi limiti. Il DSM-5 presenta diversi interessanti cambiamenti e aggiornamenti, e, pur avendo un’impostazione conservativa, il testo cerca di offrire nella maniera più aggiornata possibile quanto i dati di ricerca a livello internazionale hanno introdotto nel panorama psichiatrico. La principale novità è la scomparsa della valutazione “multiassiale”, inoltre è stata introdotta la più sofisticata WHO Disability Assessment Schedule (WHODAS) 2.0, la quale prende il posto della Valutazione Globale del Funzionamento (VGF), cambiamento che denota la forte comunione d’intenti tra i curatori del DSM-5 e quelli del nascente ICD-11. Nei Disturbi da Sostanze è scomparsa la distinzione tra abuso e dipendenza ed è emerso il concetto di dipendenza comportamentale, in cui sarebbero implicati i circuiti neurali del rinforzo e della gratificazione. Nel 2013, l’American Psichiatric Association (APA) ha citato per la prima volta, nella terza sezione del DSM-5, l’internet addiction, all’interno dei disturbi comportamentali, che non comportano l’uso di sostanze, inseriti a loro volta nella categoria dei disturbi dalla gratificazione che necessitano ancora di ulteriori sforzi da parte del mondo della ricerca (Cantelmi, 2013).
L’adozione di un sistema diagnostico standardizzato come il DSM-5, rappresenta un’importante opportunità per raccordarsi con il mondo scientifico internazionale, con l’universo della ricerca, dalla genetica alla neurochimica, con l’ambito della prevenzione in campo psicoterapeutico e riabilitativo, nonché una sfida aperta per andare oltre e migliorarne l’impiego per clinici, pazienti, studenti e ricercatori
(www.rivistadispichiatria.it)
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