Il dramma della modernità è stato acutamente e terribilmente compreso da Montale, nella poesia “Mia vita, a te non chiedo”, nella quale constata come “han lo stesso sapore miele e assenzio”. Tale è ormai la condizione dell’homo consumens della postmodernità: è un uomo che non riesce più a provare né stupore né per le gioie, né tristezza per i dolori: un uomo che non vive nella profondità i propri sentimenti ed è ormai in un turbolento vortice che lo priva della sua capacità di emozionarsi di fronte agli eventi della vita. E’ un uomo disumanizzato, nel senso che non vive più la dimensione della vita così come intesa dagli antichi Greci, i quali provavano emozioni intense, quasi esasperate, e che trovavano i loro archetipi nelle figure mitiche. La µήνις di Achille, la πολύτροπια di Odisseo, o ancora la fermezza di Antigone, la bramosia di conoscere di Edipo, la follia di Aiace, la furbizia di Prometeo. L’uomo greco sa vivere le proprie emozioni in profondità, e non per questo vive in funzione di una trascendenza la cui esistenza non è gnoseologicamente dimostrabile. Vive hic et nunc, carpit diem, è un uomo che si realizza nella vita terrena e la cui unica possibilità di vivere eternamente è ottenibile attraverso il ricordo dei posteri per le imprese compiute in vita. Achille, per esempio, aveva la possibilità di combattere, morendo giovane a Troia, e di essere ricordato per l’eternità grazie alla gloria che avrebbe ottenuto in guerra, o di vivere a lungo con la propria discendenza per poi essere scordato dopo poche generazioni. Scelse di morire. Ma la sua morte è ciò che gli ha donato l’immortalità nel ricordo, che perdura nei versi dell’Iliade, e non solo (si pensi al canto XXVI dell’Inferno di Dante, o all’“Ulysses” di Tennyson, da millenni. È la poesia eternatrice tanto elogiata dal Foscolo, che riconosce appunto l’importanza della poesia nel rendere immortale nei millenni le vite dei grandi. Ecco, oggi non c’è più questo strebem verso l’immortalità del ricordo. L’uomo è piccolo, immensamente piccolo in un mondo sempre più grande. L’individualismo esasperato che è alla base della società moderna ha paradossalmente portato allo smarrimento dell’uomo. Nel suo sentire, l’uomo si sente un minuscolo punto in un universo che si allarga sempre di più. È proprio questa dilatazione spaziale sempre maggiore, unita ad un tempo che non si misura più sull’uomo, ma su un click, che causa nell’uomo postmoderno un disorientamento al quale è difficile dare una direzione. La politica non è più in grado di dare risposte: è essa stessa disorientata, poiché priva di potere, di capacità di agire ed impattare le vite dei cittadini. Non ci sono più certezze certe, ma solo dubbi e domande alle quali l’uomo non riesce più a dare risposta. Il sapere è ormai parcellizzato: non si vendono più enciclopedie, perché si è persa la concezione stessa di sapere enciclopedico, tanto cara agli illuministi. Ne risulta che l’uomo non ha più una visione d’insieme, non riesce ad attuare ragionamenti sintetici che permettano di osservare i fenomeni nella loro globalità e complessità per farsi idee proprie. La facoltà analitica ha sostituito la facoltà sintetica. Questo è particolarmente evidente nei paesi anglo-sassoni, dove l’istruzione si fonda sullo studio di poche materie. Certo lo studente si specializza, ma viene meno la capacità di analizzare globalmente gli avvenimenti che avvengono nel mondo. Si è bravi in un lavoro, in una disciplina, o meglio, in una branchia di una disciplina che è a sua volta branchia di…: la parcellizzazione è estremizzata. Viene dunque meno la capacità stessa di formulare idee autonomamente. Si tende a ragionare di meno: un test a crocette, del resto, non da’ spazio all’espressione del sentimenti e delle emozioni né a riflessioni critiche su quanto mnemonicamente e meccanicamente appreso. Non bisogna poi meravigliarsi che alcuni, frutto di una scuola che invece che uomini produce automi, privi di pensiero critico e solo in grado di apprendere nozioni, e di una società in cui regna l’indifferenza, compiano atti disumani, come mostra il crescente numero di femminicidi. Senza apprendere il senso tragico della vita, e riflettere su ciò che si impara, e sviluppare capacità di riflessione, diviene difficile confrontarsi con le emozioni più pure, come l’ira e la rabbia, e dominarle; e allora, invece che risolvere i problemi con il dialogo, li si affronta con la violenza. È necessario cogliere la gravità della perdita di pensiero critico: all’uomo che accetta passivamente le idee altrui, allo sciame privo di direzione, alla convinzione che sia più importante imparare un lavoro manuale che consenta di guadagnare da vivere piuttosto che farsi una cultura e un’idea del mondo, la storia ha sempre risposto con le dittature. È questo è il rischio dell’oggi. E ciò a cui bisogna stare attenti è che le dittature del futuro non saranno dittature di sangue. Huxley osservava come il pericolo reale risieda nella perdita di interesse e volontà da parte degli uomini di sapere. Il pericolo reale che corriamo è di rimanere incastrati in circoli viziosi, spirali senza fine, loop senza uscita da ritmi che non ci consentano più di vivere la nostra dimensione umana. Ed è questo che Marx temeva negli sviluppi del capitalismo: “Quanto meno mangi, bevi, compri libri, vai a teatro (al ballo e all'osteria, quanto meno pensi, ami, fai teorie, canti, dipingi, verseggi, ecc.,) tanto più risparmi (tanto più grande diventa il tuo tesoro, che né i tarli né la polvere possono consumare, il tuo capitale). Quanto meno tu sei, quanto meno realizzi la tua vita, tanto più hai; quanto più grande è la tua vita alienata, tanto più accumuli del tuo essere estraniato. Tutto ciò che l'economista ti porta via di vita e di umanità, te lo restituisce in denaro e ricchezza”. Il punto è che il denaro deve tornare ad essere considerato come un mezzo, non come un fine. Oggi esso è l’unico indicatore di importanza sociale. Quella che prima era la nascita, e poi la classe lavorativa, quell’elemento che determinava l’appartenenza ad un determinato gruppo sociale, è oggi rappresentato dal solo denaro. Anche perché per trovare la felicità serve anche la passione per ciò che si fa. E, ancora di più, la solidità delle relazioni umane. La trasformazione della società verso una condizione sempre più liquida e individualizzata ha portato alla fragilità e all'incertezza delle relazioni umane. Queste diventano più instabili e sottoposte a regole impersonali imposte dalla struttura stessa dei network. Tutto ciò influisce profondamente sulla prospettiva esistenziale dei giovani, che percepiscono la propria realtà come priva di un centro, soggetta a eventi imprevedibili e incapace di fissare saldamente le scelte fondamentali che definiscono la loro identità. Le nuove generazioni, in particolare, sembrano essere influenzate da una "defuturizzazione" della società contemporanea. Questo fenomeno si inserisce in un contesto di globalizzazione, in cui il concetto stesso di futuro è compromesso da una crisi identitaria più ampia, generando incertezza nel tempo vissuto e una mancanza di orientamento nel futuro. Le prospettive di lavoro flessibile e la rarefazione delle opportunità lavorative, unite all'impossibilità di sviluppare progetti di lungo respiro, hanno posto di fronte ai giovani un'alternativa radicale: una vita impegnata o una vita disimpegnata, talvolta oscillando tra la disperazione e una nuova visione della vita improntata al gioco e al rischio. Spesso, i giovani scelgono la seconda opzione, in virtù della sua apparente ragionevolezza. Bauman critica severamente la società contemporanea, definendo il postmoderno una trappola esistenziale ostile alla vita umana. Egli evidenzia come la società globalizzata, dominata dall'onnicomprensività del capitale, abbia sostituito la distruzione dei legami sociali e comunitari con una crescente "individualizzazione" della società stessa. Il passaggio dalla modernità "solida" alla "liquida", da un sistema industriale tipo "fordista" a uno "toyotista", ha portato a notevoli trasformazioni. In particolare, le innovazioni nelle comunicazioni, come Internet e le tecnologie digitali, hanno rivoluzionato non solo le modalità produttive, ma anche la vita quotidiana di intere popolazioni. Al di là della prospettiva marxista sulla crisi del capitalismo, si riscontra un caos enorme nell'attuale sistema economico e nelle relazioni internazionali, ma, ancor dipiù,nella struttura sociale e nei comportamenti individuali. L’uomo postmoderno vuole essere libero, da ogni vincolo sociale e morale, da ogni habitus etico, per concentrare la propria vita all’accumulo di denaro. Oggi l’uomo sente un bisogno esasperato di libertà, ma non dal bisogno, bensì da ogni sovrastruttura sociale che imponga un certo mos vivendi. Ma il nodo che tiene saldamente legato l’uomo ad una collettività non è forse ciò che gli ha permesso di progredire? L’alienazione, e non la solitudine, non è forse l’ostacolo più grande alla realizzazione del proprio Io? Come si può vivere senza un confronto con l’Altro? Ma sopratutto, come può l’uomo vivere senza la condivisone di idee, ideali, costumi e abitudini? Quale condizione libertaria estrema vuole raggiungere l’uomo? Vuole forse distruggere la società? Non sono forse state le condizioni sociali a promuovere le grandi scoperti compiute nei secoli? È forse questo il postmoderno, il lento percorso verso la distruzione di una società della quale si vede solo il volto negativo, dell’imposizione di alcune normi sociali, mentre sono proprio esse che, regolamentando la vita umana, ne hanno permesso il miglioramento?