La solitudine della modernità liquida
“Quando si evita a ogni costo di ritrovarsi soli, si rinuncia all’opportunità di provare la solitudine: quel sublime stato in cui è possibile raccogliere le proprie idee, meditare, riflettere, creare e, in ultima analisi, dare senso e sostanza alla comunicazione. Certo, chi non ne ha mai gustato il sapore non saprà mai ciò che ha perso, ha lasciato indietro, a cosa ha rinunciato”
– Cose che abbiamo in comune. 44 lettere dal mondo liquido (Laterza, 2012)
Così Zygmund Bauman ci presenta il suo giudizio nei confronti di un tipo di solitudine considerato benefico: uno spazio dedicato a sè stessi, in cui poter prendere atto della propria interiorità e di come ci si relaziona all’interno di una società, a contatto con le interiorità altrui. Ma la solitudine nella riflessione del sociologo polacco ha un’accezione ben più ampia, che sfiora temi centrali all’interno della postmodernità, da lui definita modernità liquida.
Questa prima idea di solitudine sembra avvicinarsi al concetto di otium nella cultura latina: non si tratta solo del banale tempo libero, ma di un momento di riflessione su di sé e sugli altri, per trovare un giusto equilibrio tra la sfera privata e quella pubblica. Secondo il filosofo Seneca, a dedicarsi all’otium sono coloro qui sapientiae vacant, ovvero che impiegano al meglio il tempo a loro disponibile, ricercando la sapienza. Solo il tempo così impiegato è considerabile vita, e non mera esistenza. Il tempo che ci è stato concesso è infatti più lungo di quanto si pensa, ma lo sprechiamo in attività vane e non necessarie. Proprio Seneca descrive quasi con disprezzo i cosiddetti occupati, coloro che dissipano il presente, rimandando alla vecchiaia l’otium, l’unico tempo utile alla vita.
Si può dire che questo concetto ritorni in Bauman attraverso l’homo consumens, che però è impegnatissimo a tenersi occupato per un motivo ben preciso: la paura della solitudine. La vita dell’uomo all’interno di una società liquida è dominata dall’insicurezza, poiché i principi stabili della modernità si sono liquefatti e non vi è più nulla di certo e sicuro. Vi è il rischio di essere rifiutati, esclusi, abbandonati, e di rimanere soli. Questo porta l’uomo ad aggrapparsi con forza a quella che sembra essere l’unica certezza, l’unica cosa che gli può conferire un’identità: i beni materiali e dunque l’eccessivo consumo. Soddisfare del tutto i propri desideri è impossibile, ma questa distrazione distoglie l’uomo dai propri pensieri: solo la continua ricerca gli permette di colmare la sua insoddisfazione interiore, causata dal consumismo stesso e dall’assenza di identità stabili, accompagnati dal costante timore dell’esclusione. Il consumismo ci ha insegnato a non essere mai soddisfatti, a essere insaziabili. Riempiamo le nostre case di beni non necessari, oggetti morti, devitalizzati, privi di qualunque finalità se non quella di cercare di riempire un vuoto inestinguibile, ma che in realtà non fanno altro che accrescere ulteriormente la nostra solitudine.
Proprio a questo proposito, Stefano Bartolini, professore associato di Economia della felicità ed Economia politica all’Università di Siena, scrive:
“In Occidente stiamo producendo livelli di consumi più che sufficienti per soddisfare tutti: dobbiamo semplicemente distribuire meglio. C’è bisogno di più qualità della vita collettiva. La solitudine, invece, è diventata un problema di massa. I bambini crescono da soli in casa, non più in gruppo. Siamo di fronte a decenni di erosione delle relazioni. La desertificazione è anche relazionale, oltre che climatica. Gli studi sulla felicità ci dicono che la gente sola è più infelice e tende a consumare di più per riempire il vuoto delle proprie vite.”
Proprio questa è la peggiore sfumatura della solitudine. L’uomo postmoderno rifugge una solitudine benefica che lo costringa a fare i conti con sé stesso e ha la costante paura di rimanere solo, per non doversi relazionare con i propri pensieri. Ma allo stesso tempo, per quanto cerchi di colmarlo, è oppresso da un vuoto interiore determinato dall’assenza di relazioni e di sentimenti stabili, quella che Bartolini definisce desertificazione relazionale, e per questo è più solo che mai. Secondo Bauman, alle relazioni sono state sostituite le connessioni. L’uomo è ansioso di instaurare relazioni stabili, ma allo stesso tempo ha paura che queste possano limitare la tanto agognata libertà di scegliere e di instaurare relazioni: per questo non si parla più di relazione ma di rete, un rapporto caratterizzato da disimpegno e distacco, dove non è garantita l’esclusività ed è possibile con pari facilità entrare e uscire. In questa società liquida, sono diventati liquidi anche i legami umani e sembra quasi si faccia a gara a chi si sbarazza più in fretta non solo delle cose, ma anche delle persone. Secondo Bauman, tendiamo a “trattare gli altri esseri umani come oggetti di consumo, in base alla quantità di piacere che possono offrire”. Tutto è caratterizzato dalla velocità: più velocemente una connessione si crea, tanto più facilmente può essere liquefatta per lasciare il posto ad altre connessioni.
La solitudine del cittadino globale è però una solitudine non solo di tipo esistenziale, ma anche politico, creata da un sistema complesso di cause. Bauman approfondisce questo concetto nel testo “La solitudine del cittadino globale” (Feltrinelli Editore, 1999). L’aspetto politico della solitudine è in questo caso individuato dal sociologo nello “svuotamento di senso della libertà del cittadino”: la libertà è infatti sempre più legata alla sfera personale e alla dimensione privata, e si allontana sempre di più da quella pubblica. Si perde così la possibilità di elaborare e realizzare un progetto comune, poiché non vi sono più ideali collettivi e prevale l’individualismo.
Inoltre, il consumo stesso “è un’attività solitaria, anche quando avviene in compagnia” e ciò porta l’uomo a sentirsi parte, più che di una comunità, di uno sciame, una massa di individui apparentemente connessi, ma in realtà isolata. L’impossibilità di formare una comunità è data dalla mancanza del fondamento stesso della comunità: la comunicazione. Per tale motivo, anche quando si è in gruppo, non si smette mai di sentirsi soli. A questo proposito hanno un ruolo fondamentale, dall’inizio del nuovo millennio, anche i social network: ci permettono di connetterci con chiunque online, ma siamo sempre più distaccati umanamente. Sembra paradossale, ma in una società con tecniche comunicative così avanzate siamo ancora meno in grado di comunicare. Capita quotidianamente di imbattersi, per strada, in autobus, in treno, a tavola, in scene di totale isolamento: tutti con gli occhi rivolti verso uno schermo. Ormai è più comune sfiorare lo schermo del cellulare che una mano altrui. Questo è proprio ciò che intende Massimo Recalcati quando scrive di iperconnesione tecnologica:
“L’ideale positivo della connessione sistemica si capovolge qui in una disconnessione drammatica e silenziosa raggiunta proprio come esito paradossale di una iperconnessione illimitata, senza pause, senza tregue.”
E il motivo alla fine rimane sempre lo stesso: come diceva lo psicoanlista britannico Donald Winnicot, senza la capacità di restare soli, non si ha alcuna possibilità di generare legami sociali fecondi. Anche Bauman era della stessa idea: è infatti impossibile instaurare vere relazioni con gli altri, se prima non si è in grado di stare da soli con sé stessi.