Elogio della ripetizione
Siamo per lo più noi Italiani ad essere assillati dal problema della ripetizione: anche gli scrittori più
superficiali, se possibile, cercano di non ripetere lo stesso termine, almeno nell’ambito di un unico periodo. Talvolta gli allievi, intenti a comporre un testo, interpellano il docente per chiedergli di suggerire loro un sinonimo, mentre trascurano altri aspetti della composizione che, invece, meriterebbero maggiore cura, come la correttezza, la coerenza e la perspicuità.
I locutori di lingua inglese, invece, non esitano a ricorrere al medesimo lessema, pur avendo a
disposizione molte coppie di vocaboli di cui uno di origine anglosassone, un altro derivante dal Latino, di solito tramite il Francese medievale (ad esempio, “to build” e “to construct”, costruire; “deed” e “fact”, fatto; “to answer” e “to respond”, “to ask” e “to interrogate”, chiedere...): l’Inglese è uno degli idiomi indoeuropei con il più ampio glossario. E’ un serbatoio che offre talora sinonimi “pieni”, sebbene il lemma di matrice latina appartenga quasi sempre ad un registro formale. Tuttavia, per scarsa conoscenza o per comodità, di rado nella lingua di Albione si rintraccia una “varietas” lessicale significativa, se si escludono i contesti specialistici.
In ogni caso, dal pur lodevole desiderio di schivare la monotonia, conseguono non di rado scelte
discutibili, talora grottesche, giacché si dimentica – come ci ricorda il glottologo russo Roman Jakobson – che i sinonimi perfetti non esistono: di solito essi appartengono a registri differenti o a difformi età della lingua o a diverse aree geografiche, i cosiddetti geosinonimi. Entrano quindi in gioco la diacronia e la sincronia.
Non solo, la ripetizione può essere efficace: se non occorre evidenziare la diversità di sfumatura, di
accezione, si può conferire enfasi ed icasticità ad un testo, iterando la stessa parola, un sintagma,
addirittura un intero enunciato. L’anafora, l’epifora, l’anadiplosi… donano “pàthos” e drammaticità
all’elocuzione. Associata ad altre figure retoriche, sia sintattiche sia di significato, ad esempio la
“climax”, il chiasmo, l’ironia, la diafora… la ripetizione scolpisce i suoni ed i significati, rendendoli
plastici, aggettanti. Come sarebbe povera e molle la “Prima Catilinaria”, se Cicerone non ricorresse
all’insistita iterazione di certe espressioni? Come sarebbe fiacco l’“incipit” che drammatizza il III canto dell’ “Inferno” senza la formidabile anafora di “Per me”?
La ripresa è anche garanzia di coerenza tematica: è come un filo che lega le perle in una collana. Salda i concetti in un’unità testuale, additando il cuore dell’argomento. Certo, pure in questo caso, vale il motto latino “est modus in rebus”: è preferibile non abusare dell’iterazione, soprattutto se il repertorio ci offre un ricco assortimento, se ci squaderna lessemi i cui valori si dispongono lungo una gamma semantica che può ampliarsi o restringersi, secondo le esigenze comunicative e di stile. Evitiamo dunque di eccedere con il verbo “fare”, con il generico sostantivo “cosa” e via discorrendo. Rifuggiamo dall’insensato “nel senso che”, da vocaboli opachi ed ideologici, come “resilienza”, da arbitrari anglicismi e da consimili tic.
Sia concessa una breve digressione su “resilienza”: è voce che, in questi ultimi anni, dal sottocodice scientifico con il significato di “capacità di un materiale di resistere agli urti”, ha cominciato ad imperversare nel chiacchiericcio dei “media” tanto digitali quanto cartacei. Con “resilienza” ci si riferisce ad una sorta di attitudine per opera dell’individuo ad affrontare sfide e ostacoli. In realtà, ci sembra una frode linguistica, un modo per lusingare i cittadini affinché si adattino a situazioni politiche, economiche e sociali sempre più disagevoli e disumane. Se dunque ci si conforma a questo “linguaggio unico”, massificato, specchio dell’altrettanto deprecabile “pensiero unico”, si rischia di impantanarsi nella miseria linguistica dei gazzettieri: è una miseria che, lungi dal denotare soltanto ignoranza, dà la misura di pochezza intellettuale e persino etica. E’ la disfatta della lingua, della cultura, di tutto.