a cura del Prof. Vincenzo Cascino
Introduzione
La nascita degli studi sul bullismo è relativamente recente nella storia della letteratura psicosociale e può essere fatta risalire alla fine degli anni Ottanta – inizi Novanta quando sono comparse, a livello internazionale, le prime pubblicazioni su questa tematica. Negli ultimi anni la conoscenza di tale fenomeno si è sviluppata su più livelli, dal piano divulgativo d’informazioni e notizie rivolte ad un largo pubblico, al piano scientifico delle ricerche psicologiche e sociali nel settore.
Sul versante dell’informazione la maggior parte delle notizie ha riguardato comportamenti d’aggressione sistematica, in alcuni casi nel contesto scolastico, in altri in contesti ad esso ricollegabili.
I titoli dei servizi dedicati all’argomento hanno descritto situazioni allarmanti a carico dei bambini e dei ragazzi coinvolti nel fenomeno, che agiscono sia singolarmente sia in gruppo. Episodi tra i più inquietanti hanno riguardato le cosiddette “baby gang”: si tratta spesso di ragazzi che, sebbene non siano così organizzati come negli U.S.A., sono capaci di compiere aggressioni e azioni illegali ai danni d’altri coetanei, minacciandoli o estorcendo loro beni personali.
Quest’attenzione alla problematica ha prodotto sicuramente dei benefici, tra cui la consapevolezza del fenomeno da parte dell’opinione pubblica e degli operatori della scuola, registrando, un tale allarme sociale da promuovere una discussione e una risoluzione parlamentare in cui il governo si proponeva di perseguire una serie d’iniziative per prevenire e ridurre il fenomeno (Commissione parlamentare per l’infanzia, 2000) (2).
Sul piano scientifico, nella seconda metà degli anni Novanta alcuni articoli e volumi sono apparsi su riviste o collane editoriali di psicologia.
Nel maggio 1995 su Psicologia contemporanea è stato pubblicato un articolo di Ada Fonzi che riporta in anteprima i dati italiani sull’argomento e si è subito parlato di dati scioccanti, poiché restituivano un quadro del fenomeno nel nostro Paese particolarmente preoccupante. Nel 1996 è comparsa la prima traduzione italiana del libro scritto da Olweus nel 1993, destando attenzione e interesse a livello scientifico e di opinione pubblica. Contemporaneamente è stato pubblicato il primo articolo sull’incidenza e le caratteristiche del fenomeno in Italia sulla rivista Età evolutiva (Genta, Menesini, Fonzi e Costabile, 1996) e nell’anno successivo, Ada Fonzi, riporta i dati di una vasta indagine condotta in sette regioni italiane.
Nel 1997 un gruppo di ricercatori di Firenze e Cosenza ha ottenuto un primo finanziamento da parte dell’Unione europea per studiare il fenomeno e le strategie di prevenzione. Quest’evento ha dato un forte impulso alle ricerche relative alla conoscenza del fenomeno e alla sperimentazione di percorsi di prevenzione nella scuola.
Successivamente altri progetti hanno ottenuto finanziamenti e supporti a livello locale, nazionale e internazionale.
A livello europeo, vale la pena di ricordare altri due progetti finanziati nell’ambito nell’iniziativa Connet dell’Unione europea: il progetto del Comune di Torino e il progetto dell’IRRE Veneto (3) entrambi molto importanti per la ricerca intorno al fenomeno del bullismo.
Progressivamente si sono sviluppate nel Paese una miriade di iniziative di sensibilizzazione e di ricerca che hanno contribuito a costruire una cultura più diffusa sull’argomento.
Nonostante quest’attenzione da parte dell’opinione pubblica, del mondo scientifico e professionale e dei media, a livello politico e legislativo non si è ancora registrata un’iniziativa specifica su tale fenomeno.
In altri Paesi europei, invece, la costruzione di una cultura psicologica e pedagogica si è tradotta in specifiche azioni legislative, che prevedono un impegno dello stato e della scuola nella prevenzione e nella riduzione dei fenomeni di violenza e aggressività. In Italia, allo stato attuale, si registra quindi una discrepanza tra realtà locali spesso attive e sensibili a tale argomento e una realtà istituzionale che non è riuscita sinora a recepire tali istanze.
1.1 Bullismo a scuola: le ricerche sul fenomeno
L’origine delle ricerche sul bullismo risale al lavoro di Dan Olweus, il quale, già negli anni Settanta, iniziò ad occuparsi del problema tra gli studenti Norvegesi. Il suo studio del 1978, realizzato con oltre 130 mila ragazzi d’età compresa tra gli 8 e i 16 anni, rilevò che il 15% dei soggetti era stato coinvolto frequentemente in episodi di prepotenza nei due o tre mesi precedenti la somministrazione del questionario(4). Di questi ragazzi il 9% dichiarò di aver subito prepotenze, il 7% di aver agito con prepotenza nei confronti degli altri, mentre l’1,6% apparteneva ad una categoria mista di soggetti che assumevano entrambi i ruoli, quello di bullo e quello di vittima.Da allora studi di tipo descrittivo volti alla rilevazione dell’incidenza del fenomeno si sono moltiplicati in diversi Paesi, confermando a volte i risultati di Olweus e più spesso trovando delle differenze nelle percentuali di diffusione.
Altri studi che costituiscono dei punti di riferimento importanti nella letteratura internazionale sono stati: quello di Whitney e Smith (1993) condotto su un campione di 6.500 studenti nell’area di Sheffield in Gran Bretagna e quello di Rigby e Slee (1991) in Australia, che ha indagato il fenomeno su una popolazione di 685 studenti di età compresa tra 6 e 16 anni.
Dopo queste prime ricerche, negli anni successivi, altri studi sono stati avviati in molti Paesi Occidentali mettendo a confronto i risultati e le caratteristiche del fenomeno (5).
Nel nostro Paese la ricerca sul bullismo è cominciata solo all’inizio degli anni Novanta, evidenziando subito la gravità e la drammaticità del fenomeno per quanto riguarda la fascia d’età che va dal secondo ciclo della scuola elementare alla scuola media superiore. La differenza quantitativa del fenomeno tra la realtà italiana e quella degli altri paesi industrializzati è stata confermata dalle ricerche svolte nelle varie regioni d’Italia. La prima ricerca pubblicata da Genta et al. (1996) ha coinvolto due campioni del Centro e Sud Italia esaminando 1.379 ragazzi di Firenze e Cosenza di età compresa tra gli 8 e gli 11 anni utilizzando il questionario anonimo d’Olweus. Dai risultati emerge che una percentuale molto elevata di maschi e di femmine riferisce di aver subito prepotenze nel periodo considerato: circa il 42% nelle scuole elementari e il 28% nelle scuole medie. La percentuale di coloro che dichiarano di fare prepotenza è più bassa, ma rimane molto consistente in entrambi gli ordini di scuola: circa il 20% nelle scuole elementari e il 16% nelle scuole medie. Anche dalle ricerche condotte da Ada Fonzi (1997) Ciucci, Smorti e Fonzi (1997) emerge una sostanziale conferma dei risultati dell’indagine iniziale: il bullismo nelle scuole italiane si presenta con valori molto elevati, che si collocano vicini al 40% nelle scuole elementari e al 20% nella scuola media inferiore.
I dati raccolti da Fonzi nelle varie regioni italiane sono stati rielaborati nel 1997 nel libro Il bullismo in Italia dove è stato possibile presentare i valori degli indici medi di presenza e gravità (Tabella1) per le prepotenze subite e agite in relazione a due diversi livelli d’età:
Tabella 1: Presenza delle prepotenze subite e agite in Italia (indice medio di presenza e di gravità)
Questi dati sono stati confermati, o in alcuni casi risultano addirittura più elevati, in ulteriori pubblicazioni come quella di Baldry (1998), Marini e Mameli (1999) e quella Molinari e Speltini (2001).
La stabilità nel tempo del fenomeno
Fin dalle prime ricerche (Olweus, 1993; Whitney e Smith, 1993), è stato messo in luce che la percentuale di bambini che subisce prepotenze diminuisce con l’aumentare dell’età e in particolare, nel passaggio dalle elementari alla scuola media e successivamente dalla scuola media alla superiore. La concordanza tra i diversi studi porta a pensare che il bullismo nelle scuole elementari italiane sia diventato un fenomeno molto diffuso e pervasivo in cui un’alta percentuale di bambini è coinvolta nei ruoli di bullo o di vittima.
Nella scuola media il fenomeno delle prepotenze coinvolge un minor numero di ragazzi e spesso sono gli stessi individui che più degli altri faticano ad uscire dal loro ruolo di bullo o di vittima, come analizzato da Menesini (2000) in relazione allo sviluppo della condotta aggressiva.
Per quanto riguarda la scuola media superiore secondo i contributi di Menesini (2003) il fenomeno assume aspetti sempre più inquietanti per la gravità e la premeditazione, rilevando valori che oscillano attorno al 15% con forti differenze a seconda del tipo d’istituto. In un certo modo i ruoli di bullo e vittima, con il passare del tempo, sembrano radicalizzarsi e diventare sempre più rigidi, tanto è vero che, a volte, il coinvolgimento nel fenomeno è correlato a difficoltà future nell’adolescenza e nella vita adulta.
Dal punto di vista evolutivo, nonostante la frequenza dei comportamenti aggressivi sia più elevata nella prima e nella seconda infanzia, il periodo in cui questo comportamento si configura come più pericoloso è l’adolescenza e la prima età adulta (Coie e Dodge, 1998), infatti il nonnismo nelle caserme e il mobbing sui luoghi di lavoro danno origine ad episodi gravi di prevaricazione.
Che cos’è il bullismo e le origini della definizione
Il termine “bullismo” (un derivato del sostantivo “bullo”) è entrato a far parte del nostro vocabolario recentemente come traduzione di bullying, termine inglese usato per connotare il fenomeno delle prepotenze tra pari in un contesto di gruppo.
Nei primi studi condotti nei Paesi del Nord Europa, per definire episodi di prepotenza, sono stati usati i termini “mobbing” (in Norvegia e in Danimarca) e “mobbing” (in Svezia e in Finlandia). Il termine “mobbing”, in realtà è stato coniato nel 1963 dall’etologo e premio Nobel Konrad Lorenz, il quale ha studiato il comportamento aggressivo negli animali ed ha individuato con questo termine la reazione di odio che negli animali induce all’attacco collettivo dei più deboli contro il più forte. L’etologo austriaco, per esempio, usa il termine aggressione di gruppo per indicare l’attacco di questi animali verso altri anche di diversa specie, che di solito sono più grandi, pericolosi e nemici del gruppo. Da questo punto di vista l’aggressione di gruppo ha chiaramente un valore di sopravvivenza: un attacco collettivo può condurre al ferimento o alla fuga persino di un grosso animale. Inoltre tale attività ha la funzione di insegnare agli animali giovani od inesperti quale è l’aspetto di un nemico pericoloso e dove questo nemico può trovarsi.
Il termine, utilizzato in etologia, è introdotto successivamente da Heinemann (1972) nell’ambito della ricerca sull’aggressività tra i bambini in età scolare, definendo con il termine mobbning o bullying un’azione iniziata o portata avanti da un gruppo.
Successivamente Olweus (1978), nei suoi lavori pionieristici, ne ha proposto una definizione più ampia, utilizzando il termine bullying per descrivere le azioni aggressive o i comportamenti di manipolazione sociale agiti sia da un gruppo, sia da un singolo. Al termine mobbing, sono state attribuite diverse derivazioni: dal sostantivo inglese mob, che significa “moltitudine in tumulto”, al verbo to mob, che letteralmente significa “attaccare”, fino alla locuzione latina mobile vulgus, come “moto di gentaglia” (La Rosa, 2004).
Sull’Oxford Dictionary bully denota una “persona che usa la propria forza o potere per intimorire o danneggiare una persona più debole”. Dalla comune radice derivano sia il verbo to bully sia il sostantivo bullying. Il significato inglese del termine non denota quindi un semplice atteggiamento, ma una specifica modalità di relazione tra due persone: “un più forte, che si avvale della propria superiorità per danneggiare un soggetto più debole”. In questa definizione è espressa con chiarezza la matrice relazionale del fenomeno e l’esistenza di uno squilibrio nel rapporto di forza tra due o più persone, quindi l’intenzione di arrecare un danno alla persona più debole.
In quanto detto sopra è possibile riconoscere una somiglianza con ciò che s’intende per mobbing sul luogo di lavoro(6), dove spesso la vessazione è perpetrata dal gruppo attraverso prepotenze verbali e psicologiche, che solo in casi estremi, si traducono in vere e proprie aggressioni fisiche. Da ciò si deduce che l’utilizzo ambiguo che è stato fatto dei termini bullying e mobbing, sia per definire le prevaricazioni tra adulti in ambito lavorativo sia quelle esercitate dai bambini nelle scuole, hanno rallentato il riconoscimento di una precisa e condivisa terminologia, creando, soprattutto a livello internazionale, problemi di definizione. Tuttavia, la maggior parte dei ricercatori concorda con Dan Olweus nel definire il fenomeno di bullismo come un abuso di potere(7), quindi, secondo l’attuale definizione scientifica perché una relazione tra soggetti possa prendere il nome di bullismo devono essere soddisfatte tre condizioni:
verificarsi di comportamenti di prevaricazione diretta o indiretta;
ripetitività nel tempo di queste azioni;
coinvolgimento sempre degli stessi soggetti, di cui uno/alcuni sempre in posizione dominante (bulli) ed uno/alcuni più deboli e incapaci di difendersi (vittime).
Da questa definizione emergono con rilevanza tre elementi distintivi:
Intenzionalità: perché il bullo mette in atto intenzionalmente dei comportamenti fisici, verbali o psicologici con lo scopo di offendere l’altro e di arrecargli danno o disagio.
Persistenza: perché l’interazione bullo-vittima è caratterizzata dalla ripetitività di comportamenti di prepotenza protratti nel tempo.
Disequilibrio/asimmetria: perché fondata sul disequilibrio e sulla disuguaglianza di forza tra il bullo che agisce e la vittima che spesso non è in grado di difendersi.
Si tratta di una definizione più complessa di quanto non appaia a prima vista, in quanto non si riferisce ad un singolo atto, ma ad una situazione relazionale considerata dannosa per il suo protrarsi nel tempo. Non include, quindi, azioni negative occasionali fatte per scherzo o in un impeto di rabbia, ma azioni usate come una sequenza, nella quale gli attori svolgono ruoli ormai stabiliti (bullo, vittima, astanti).
1.3 Come si manifesta
Gli episodi di prepotenza si possono manifestare con diverse modalità, più o meno esplicite e più o meno evidenti. La letteratura ci dice che sono due le principali forme di bullismo: quello diretto, costituito da comportamenti aggressivi e prepotenti più visibili che può essere agito in forme sia fisiche sia verbali e quello indiretto.
Il bullismo diretto fisico, si manifesta con attacchi aperti nei confronti della vittima e consiste nel picchiare, prendere a calci e a pugni, spingere, dare pizzicotti, graffiare, mordere, tirare i capelli, appropriarsi degli oggetti altrui o rovinarli.
Il bullismo diretto verbale, implica il minacciare, insultare, offendere, prendere in giro, esprimere pensieri razzisti, estorcere denaro o beni materiali.
Il bullismo indiretto, agisce sul piano psicologico, è meno evidente e più difficile da individuare, ma non per questo meno dannoso per la vittima, in quanto la violenza, se prolungata nel tempo, può causare una perdita di autostima e stress. Esempi di bullismo indiretto sono l’esclusione dal gruppo dei coetanei, l’isolamento, l’uso ripetuto di smorfie e gesti volgari, la diffusione di pettegolezzi e calunnie sul conto della vittima, il danneggiamento dei rapporti d’amicizia(8). Questo tipo di bullismo è prevalentemente femminile e a causa della sua strisciante manifestazione è stato individuato più tardi rispetto a quello maschile ed è più difficile da cogliere anche per gli insegnanti.
Come ci consiglia Menesini (2003), dopo aver descritto quelle che sono le più frequenti manifestazioni di bullismo, è importante però, chiarire che cosa possiamo e che cosa non possiamo “etichettare” come bullismo (Tabella 2), sebbene non sia sempre semplice riconoscere le differenti tipologie di comportamenti aggressivi.
(Tabella 2: Forme di comportamento non aggressivo, prepotente e violento)
Una prima categoria di comportamenti non classificabili come bullismo è quella degli atti particolarmente gravi, che più si avvicinano ad un vero e proprio reato. Attaccare un coetaneo con coltellini o altri oggetti pericolosi, fare minacce pesanti, procurare ferite fisiche gravi, commettere furti di oggetti molto costosi, compiere molestie o abusi sessuali sono condotte che rientrano nella categoria dei comportamenti antisociali e devianti e non sono in alcun modo definibili come “bullismo”.
Allo stesso modo, i comportamenti cosiddetti “quasi aggressivi”, che spesso si verificano tra coetanei, non costituiscono forme di bullismo.
I giochi turbolenti e le “lotte”, particolarmente diffusi tra i maschi, o la presa in giro “per gioco” non sono definibili come bullismo in quanto implicano una simmetria della relazione, cioè parità di potere e di forza tra i due soggetti implicati e alternanza di ruoli fra prevaricatore e prevaricato
1.3.1 Differenze di genere nelle manifestazioni di bullismo
In rapporto alle differenze di genere si registra un maggior coinvolgimento dei maschi nei ruoli di bullo a tutti i livelli d’età (Olweus, 1993; Whitney e Smith, 1993; Genta et al.,1996; Fonzi, 1997). Per quanto riguarda il ruolo di vittima delle prepotenze, invece, non ci sono dati interamente concordanti.
Alcuni studi hanno riscontrato una maggiore percentuale di vittime maschi rispetto alle femmine (Boulton e Underwood, 1992; Perry, Kusel e Perry 1988). In altri casi, come anche nel nostro Paese, non sono state trovate differenze significative nel sesso delle vittime di bullismo (Fonzi, 1997).
Una caratteristica importante del fenomeno delle prepotenze, legata al sesso, riguarda la distinzione tra bullismo diretto e indiretto.
Le prepotenze di tipo diretto, verbali e soprattutto fisiche, si manifestano con più frequenza nei maschi, mentre quelle indirette caratterizzano spesso le relazioni tra le femmine (Bjorkqvist,1994). Oltre ad agire maggiormente in modo diretto, i maschi subiscono soprattutto azioni di tipo diretto e le femmine azioni di tipo indiretto.
Un’altra differenza tra i sessi viene solitamente riscontrata nella relazione tra attori e vittime di prepotenze: mentre i maschi fanno prepotenze sia nei confronti dei maschi che delle femmine, queste ultime esercitano prevaricazioni per lo più solo verso altre compagne. Le femmine inoltre, manifestano una maggiore capacità d’empatia, cioè una capacità di mettersi nei panni degli altri e in particolare della vittima, comprendendo il suo stato d’animo e cogliendo la sua tristezza e il suo disagio. I maschi, al contrario, hanno più difficoltà ad immedesimarsi nella vittima e raramente si dimostrano dispiaciuti o in colpa dopo aver compiuto atti di prepotenza.
Dove avvengono le prepotenze
I contesti in cui gli episodi di bullismo avvengono con maggior frequenza sono i seguenti ambienti scolastici: le aule, i corridoi, il cortile, i bagni e in genere i luoghi isolati o poco sorvegliati, come per esempio gli spogliatoi della palestra o i laboratori.
Generalmente i bulli fanno parte della stessa classe delle vittime o di classi superiori, per cui accade frequentemente che nelle scuole elementari e medie l’aula diventi il luogo privilegiato in cui si manifestano le prevaricazioni.
Nelle scuole superiori, anche se i dati sono ancora pochi e frammentari, emergono forme di prepotenza più frequenti sui mezzi di trasporto e in spazi della scuola meno soggetti a controllo.
1.5 Gli attori e i loro ruoli
Ad una prima e superficiale osservazione i ruoli in gioco sembrerebbero esclusivamente quello del bullo e della vittima, ma è abbastanza chiaro che le cose non sono così semplici. Tra gli attori di prepotenze si distinguono (Salmivalli C., Lagerspetz K., Bjorkqvst K., Osterman K. e Kaukiainen A., 1996):
i bulli, che mettono in atto le prevaricazioni;
le vittime, che subiscono le prepotenze;
gli astanti, che non prendono parte attivamente alle prepotenze, ma vi assistono favorendo lo sviluppo di questo fenomeno.
All’interno di tali raggruppamenti è possibile individuare alcune sottocategorie.
Per quanto riguarda il bullo, è possibile parlare di “bullo dominante” o di “bullo gregario”, mentre la vittima è definibile come “vittima passiva/sottomessa” o “vittima provocatrice”. Tra gli astanti, poi, vi sono i sostenitori del bullo, i difensori della vittima e la cosiddetta “maggioranza silenziosa”.
Quali sono le caratteristiche di personalità e gli stili comportamentali che contraddistinguono le diverse tipologie di attori? Comunemente gli studenti tendono a citare caratteristiche esteriori negative come l’obesità, i capelli rossi, un insolito dialetto o l’uso degli occhiali per descrivere le vittime e caratteristiche positive come la bellezza, l’altezza e la furbizia per descrivere il bullo. Tuttavia, ricerche condotte su due gruppi di ragazzi non hanno confermato questa spiegazione (Olweus, 1978). Nel complesso le vittime non risultano avere caratteristiche esteriori anomale rispetto al gruppo di controllo (9) costituito dai ragazzi non prevaricati. L’unico contrassegno esteriore che differenzia veramente gli attori è la forza fisica: le vittime sono solitamente più deboli dei ragazzi in generale, mentre i bulli sono più forti della media dei ragazzi e soprattutto delle vittime prescelte.
Il bullo dominante
Una caratteristica distintiva dei bulli, implicita nella loro stessa definizione, è l’aggressività nei confronti dei coetanei ed a volte anche verso gli adulti, genitori ed insegnanti.
Generalmente il bullo dominante può essere così descritto:
è un soggetto più forte della media dei coetanei e della vittima in particolare;
ha un forte bisogno di potere, di dominio e di autoaffermazione: prova soddisfazione nel sottomettere, nel controllare e nell’umiliare gli altri;
è impulsivo e irascibile: ha difficoltà nel controllo delle pulsioni e una bassa tolleranza alle frustrazioni;
ha difficoltà nel rispettare le regole;
assume comportamenti aggressivi mostrandosi oppositivo e insolente;
approva la violenza come mezzo per ottenere vantaggi e acquisire prestigio;
mostra scarsa empatia e quindi non riesce a comprendere gli stati d’animo della vittima e la sua sofferenza;
manca di comportamenti prosociali;
ha scarsa consapevolezza delle conseguenze delle prepotenze commesse, non mostra sensi di colpa ed è sempre pronto a giustificare i propri comportamenti rifiutando di assumersene le responsabilità (pensa che la vittima “si meriti di essere trattata così”);
ha un’autostima elevata e un’immagine positiva di sé, che ostacola la motivazione al cambiamento;
non soffre di ansia o insicurezza;
il suo rendimento scolastico tende a peggiorare progressivamente, fino a portare talvolta all’abbandono scolastico;
è spesso abile nello sport e nelle attività di gioco;
la sua popolarità presso i coetanei è nella media, o addirittura al di sopra di essa soprattutto tra i compagni di età inferiore, che subiscono il fascino della sua maggiore forza fisica e, sebbene con il passare del tempo la sua popolarità diminuisca, il bullo non raggiunge mai i livelli di impopolarità della vittima.
I bulli dominanti vengono descritti come particolarmente vulnerabili circa la loro identità e insicuri nel loro attaccamento alle persone ed alle istituzioni che dovrebbero prendersi cura di loro. Essi sono orientati all’azione piuttosto che all’introspezione. Il loro equilibrio è infatti continuamente minacciato dall’emergenza incontrollabile d’impulsi e bisogni. Lo sviluppo di questi soggetti risulta insufficiente e parzialmente compromesso da una serie di esperienze precoci riconducibili in alcuni casi all’incapacità dei genitori di rispondere tempestivamente agli stati di angoscia e sofferenza del bambino. I soggetti che agiscono un bullismo diretto, frequentemente manifestano problemi di iperattività, disturbi della condotta, difficoltà nelle relazioni sociali, mentre chi utilizza un approccio indiretto ha minori problemi comportamentali, ma è molto abile nel manipolare il gruppo e le vittime prescelte (Castorina, 2005).
Il bullo gregario
I bulli gregari, definiti anche bulli passivi, costituiscono un gruppetto di due o tre persone che assumono il ruolo di seguaci del bullo dominante. Pur non prendendo iniziative, i bulli gregari intervengono rinforzando il comportamento del bullo dominante ed eseguendo i suoi ordini.
Il bullo gregario presenta caratteristiche diverse rispetto al primo:
aiuta e sostiene il bullo dominante;
spesso agisce in piccolo gruppo;
non prende l’iniziativa nell’agire prepotenze;
spesso è un soggetto ansioso e insicuro;
ha un rendimento scolastico basso;
gode di scarsa popolarità all’interno del gruppo dei coetanei;
crede che la partecipazione alle azioni di prevaricazione gli consenta di affermarsi e di accedere al gruppo dei forti;
è possibile che provi senso di colpa per le prepotenze commesse e una certa empatia nei confronti della vittima.
La vittima passiva/sottomessa
Dagli studi sull’argomento è emersa una descrizione relativamente chiara delle vittime (Olweus, 1978; Bjorkqvist K., Ekam K., Lagerspetz K.M.J., 1982) che può essere così riassunta:
è un soggetto più debole della media dei coetanei e del bullo in particolare;
è ansioso e insicuro;
è sensibile, prudente, tranquillo, fragile, timoroso;
è incapace di comportamenti aggressivi;
ha una bassa autostima, un’opinione negativa di se stesso e delle proprie competenze, che viene ulteriormente svalutata dalle continue prevaricazioni subite;
a scuola spesso è solo, escluso dal gruppo dei coetanei e difficilmente riesce a crearsi delle amicizie;
ha bisogno di protezione: a scuola cerca la vicinanza degli adulti;
se attaccato, è incapace di difendersi: spesso reagisce alle prepotenze piangendo e chiudendosi in se stesso;
è contrario ad ogni tipo di violenza;
il suo rendimento scolastico, variabile nella scuola elementare, tende a peggiorare nel corso della scuola media;
ha una scarsa coordinazione corporea ed è poco abile nelle attività sportive e di gioco; talvolta ha paure relative al proprio corpo;
nega l’esistenza del problema e la propria sofferenza e finisce per accettare passivamente quanto accade; spesso si autocolpevolizza;
non parla con nessuno delle prepotenze subite perché si vergogna.
Le vittime passive sono spesso oggetto, oltre che di violenza fisica e verbale, di atteggiamenti generalizzati, fra i coetanei e nell’ambiente sociale, di isolamento e di esclusione sociale.
Divengono vittime solitamente i bambini più dipendenti e passivi, inibiti nella manifestazione della loro aggressività e che di fronte alle difficoltà, che ogni alunno incontra nell’apprendimento e nell’affrontare l’ambiente scolastico, si difendono regredendo a stadi evolutivi primitivi ed isolandosi.
Sentono inoltre insicuro il rapporto con coloro che dovrebbero assicurare supporto e protezione dalle stimolazioni intense, dai pericoli provenienti dalle loro stesse emozioni, dall’incontro con coetanei ed adulti dentro e fuori l’ambiente familiare.
Sono più fragili dunque non solo per l’età e per la loro forza fisica, ma soprattutto per un processo di crescita psicologica che presenta dei punti di arresto e delle problematiche che si evidenziano in presenza di fattori di rischio, come appunto l’incontro/scontro con l’aggressività e le violenze esercitate da altri soggetti (Castorina, 2005).
La vittima provocatrice
La vittima provocatrice è un soggetto che, con il suo comportamento, provoca gli attacchi degli altri. Contrariamente alla vittima passiva, che subisce senza reagire, spesso la vittima provocatrice contrattacca le azioni aggressive dell’altro, ricorrendo talvolta alla forza (anche se in modo poco efficace).
Proprio perché agisce e subisce le prepotenze, questo soggetto viene definito anche “bullo-vittima”.
La vittima provocatrice presenta queste caratteristiche:
è generalmente un maschio;
è irrequieto, iperattivo, impulsivo;
talvolta è goffo e immaturo;
ha problemi di concentrazione;
assume comportamenti e abitudini che causano tensione e irritazione nei compagni (non solo nei bulli, ma nell’intera classe) e perfino negli adulti, provocando reazioni negative a proprio danno;
è ansioso e insicuro;
ha una bassa autostima;
è preoccupato per la propria incolumità fisica.
Gli astanti
Di solito quando si parla di bullismo si pensa esclusivamente al coinvolgimento dei bulli e delle vittime. Accanto a loro, però, vi è una grande maggioranza di bambini e ragazzi che assiste alle prevaricazioni o ne è a conoscenza: circa l’85% degli episodi di bullismo avviene infatti in presenza del gruppo dei pari (Craig e Pepler, 1997). Questi soggetti, definiti anche spettatori, possono con il loro comportamento favorire o frenare il dilagare del fenomeno. Poiché nella maggior parte dei casi le prepotenze non vengono denunciate e il gruppo non interviene per fermarle viene utilizzato il termine di “maggioranza silenziosa”. Il bullismo si manifesta quindi come un fenomeno di gruppo che coinvolge la totalità dei soggetti, i quali possono assumere diversi ruoli, spesso rigidamente assegnati da una comune cultura gruppale.
Tra gli astanti possiamo riconoscere tre ruoli:
Sostenitore: chi agisce in modo da rinforzare il comportamento del bullo, ad esempio ridendo, incitandolo o semplicemente stando a guardare.
Difensore: chi prende le difese della vittima consolandola o cercando di far cessare le prepotenze.
Esterno: chi non fa niente, cercando di rimanere fuori dalle situazioni di prepotenza.
La stabilità nel tempo dei ruoli
Nonostante il problema sia da molti sottovalutato, il bullismo produce effetti che si protraggono nel tempo e che comportano dei rischi evolutivi tanto per chi agisce quanto per chi subisce prepotenze.
Il bullo acquisisce modalità relazionali non appropriate in quanto caratterizzate da forte aggressività e dal bisogno di dominare sugli altri; tale atteggiamento può diventare trasversale ai vari contesti di vita poiché il soggetto tenderà a riprodurre in tutte le situazioni lo stesso stile comportamentale.
Di conseguenza, a lungo termine si delinea per il bullo il rischio di condotte antisociali e devianti in età adolescenziale e adulta.
La vittima, nell’immediato, può manifestare disturbi di vario genere a livello sia fisico che psicologico e può sperimentare il desiderio di non frequentare più i luoghi dove solitamente incontra il suo persecutore, perché percepiti come pericolosi.
La vittima vive una sofferenza molto profonda che implica spesso una svalutazione della propria identità. A distanza di tempo possono persistere tratti di personalità insicura e ansiosa tali da portare, in alcuni casi a episodi di depressione.
È possibile individuare specifiche conseguenze a breve e a lungo termine (Tabella 3a e 3b), sia per i bulli sia per le vittime.
Tabella 3a: Conseguenze per i bulli
A BREVE TERMINE A LUNGO TERMINE
Basso rendimento scolastico Ripetute bocciature e abbandono scolastico
Disturbi della condotta comportamenti devianti e antisociali:
per incapacità di rispettare le regole crimini, furti, atti di vandalismo
Difficoltà relazionali abuso di sostanze , violenza
in famiglia , aggressività sul lavoro
Tabella 3b: Conseguenze per le vittime
A BREVE TERMINE A LUNGO TERMINE
Sintomi fisici: mal di pancia, Psicopatologia:
mal di stomaco, mal di testa depressione, comportamenti
( soprattutto la mattina prima autodistruttivi e autolesivi,
di andare a scuola)
Sintomi psicologici: Abbandono scolastico
disturbi di sonno, incubi,
attacchi d’ansia A livello personale :
Problemi di concentrazione e ritiro, solitudine,
di apprendimento, calo relazioni povere
del rendimento scolastico
Riluttanza nell’andare a scuola,
disinvestimento nelle attività scolastiche
Svalutazione della propria identità,
scarsa autostima
Sebbene le conseguenze del bullismo siano diverse per i bulli e per le vittime, non va dimenticato che, generalmente entrambi presentano difficoltà sul piano relazionale.
Secondo alcune ricerche, i ruoli di bullo e di vittima tenderebbero a persistere nel tempo: bambini che iniziano a subire prepotenze già agli inizi della carriera scolastica possono mantenere questo ruolo negli anni.
Ciò non significa che sia impossibile per i bulli e le vittime uscire da questi ruoli: il cambiamento è possibile, anche se è difficile che avvenga spontaneamente.
In molti casi, è necessario non solo un intervento da parte dei genitori, degli insegnanti e di altre figure significative per il bambino–ragazzo, ma anche di professionisti della salute mentale che lo aiutino a recuperare un positivo adattamento.
6 Amicizia e bullismo
A scuola l’adolescente sperimenta il gruppo-classe, che è un gruppo formale, in quanto non scelto direttamente dagli interessati. Questo si presenta tuttavia con specifiche funzioni che lo rendono gruppo di lavoro con vincoli tra i partecipanti che vanno oltre gli aspetti formali del gruppo. L’istituzione scolastica, ricorrendo ai gruppi per realizzare i propri obiettivi, richiede ai componenti che sono investiti del ruolo sociale di studenti, di rispondere ai programmi d’insegnamento-apprendimento per soddisfare le attese della scuola. Non è possibile però dimenticare che questi studenti hanno anche bisogni, desideri, condizioni personali e attese che caratterizzano i loro ruoli affettivi, i quali all’interno del gruppo-classe dovrebbero coniugarsi con i ruoli sociali per conseguire sia il miglior adattamento sia la migliore produttività negli apprendimenti.
L’unione dei due ruoli spesso è facilitata da alcuni fattori, come ad esempio la vicinanza spaziale, che nel gruppo-classe è d’obbligo e favorisce la comunicazione e l’interazione, influendo sulla dinamiche di gruppo.
Un altro fattore è l’analogia di caratteristiche: l’affinità per età e conseguentemente degli atteggiamenti, come modo di pensare, sentire e reagire verso la realtà ed i suoi problemi (10).
Per l’adolescente in questa fase della crescita, infatti, le relazioni tra pari diventano il fulcro del suo mondo sociale e l’amicizia con i coetanei è intesa come strumento fondamentale per la sua crescita e il suo benessere, creando così relazioni orizzontali che affiancano e, per certi versi, sostituiscono quelle verticali consolidate con gli adulti (Bonino, 2000). L’approvazione degli altri diventa particolarmente rilevante per i ragazzi, che stanno lavorando alla costruzione di una nuova identità: le persone che li circondano gli rimandano delle immagini di sé che influenzano il modo di autopercepirsi.
A conferma di questo, basti pensare ai soggetti che, per descrivere se stessi, usano far riferimento proprio alle caratteristiche sociali e a quegli aspetti che più di altri ricevono l’approvazione da parte dei coetanei. I ragazzi che rivestono ruoli simili in situazioni di bullismo quindi, proprio per le loro affinità, tendono a formare fra loro reti sociali e di amicizia. Per quanto riguarda l’amicizia tra bulli, molti studiosi (De Rosier, Cillessen, Coie e Dodge, 1994) indicano che questi adolescenti si comportano in maniera più aggressiva dopo aver osservato qualcun altro assunto come “modello” (11) agire aggressivamente.
L’osservazione di questo modello che viene “ricompensato” per il suo comportamento aggressivo, infatti, porta ad una diminuzione di controllo della propria impulsività e un forte aumento di stima e ammirazione per il prepotente da parte dell’osservatore.
Da questo possiamo dedurre che l’effetto è rinforzato se l’osservatore valuta positivamente colui che agisce con la prepotenza, considerandolo, duro, coraggioso e forte. Questo avviene quando il bullo è ricompensato dalla “vittoria” riportata sulla vittima e quando il comportamento di questo produce scarse conseguenze negative da parte sia degli insegnanti, sia dei genitori che dei coetanei.
Tutto ciò contribuisce ad indebolire l’inibizione dell’aggressività anche negli osservatori “neutrali”, stimolando anch’essi a partecipare ad azioni di bullismo vista la riduzione del senso di responsabilità individuale (Olweus, 1993). Si lasciano influenzare molto da queste azioni i ragazzi insicuri e dipendenti (bulli passivi, i gregari), che non godono di alcuna considerazione all’interno del gruppo dei coetanei e che desidererebbero affermarsi.
Gli studiosi finlandesi, allora, tracciano la differenza tra bullismo e aggressività individuale, sottolineando due caratteristiche importanti del primo: il suo carattere collettivo e il fatto di essere basato sulle relazioni sociali di dominanza e subordinazione. Questi, pertanto, suggeriscono che l’aggressività in un gruppo debba essere studiata in relazione alle dinamiche interne e ai ruoli che i suoi membri assumono nel corso dell’interazione, malgrado la maggior parte degli studi si focalizzino esclusivamente sulle caratteristiche individuali di bulli e vittime o sulle loro modalità interattive.
1.7 Dai luoghi comuni al disimpegno morale degli attori
Gli studi che si sono occupati del comportamento aggressivo hanno avanzato l’ipotesi che i bambini che osservano e mettono in atto comportamenti prepotenti acquisiscano progressivamente un insieme di credenze ed aspettative che promuovano e legittimano tali comportamenti nel tempo. Spesso però queste credenze ed aspettative sono alimentate dalle figure adulte di riferimento (insegnanti, genitori ecc.) che sottovalutano il fenomeno e finiscono per ridurre la problematica a semplici luoghi comuni, come fa notare Menesini (2003) con le seguenti affermazioni:
«Nella nostra scuola il problema non esiste!». Questo è un pregiudizio frequente, perché comunemente si ritiene che il problema esista solo nelle scuole di zone particolarmente degradate. Le prepotenze invece avvengono in tutte le scuole e riconoscere che questo succede è il primo passo per prevenire e ridurre la portata del problema. Occorre allora superare il pregiudizio secondo il quale le scuole che affrontano il problema sono quelle in cui il fenomeno è più grave, perché in realtà le scuole che se ne occupano sono quelle che offrono ai loro studenti maggiori garanzie in termini di sicurezza e convivenza a scuola.
«La vittima deve imparare a difendersi. Un po’ di difficoltà aiuta a crescere!». Questo è un altro pregiudizio molto pericoloso, perché suggerisce che le vittime sono colpevoli di non riuscire a difendersi. La vittima spesso soffre di insicurezza personale e vive in un profondo isolamento sociale, mentre il comportamento del bullo ha il significato di affermare un potere sulla vittima. Questa esperienza è fortemente umiliante e violenta per chi la subisce e non può, in alcun modo formare il carattere dei ragazzi che sono esposti a rischi futuri di fragilità e vulnerabilità psicologica.
«Non è una prepotenza è solo una ragazzata!». Alcune persone tendono sistematicamente a sottovalutare il problema, ritenendo si tratti di ragazzate o cose di poco conto giustificando in tal modo questo comportamento. I bulli stessi sono molto abili a manipolare la situazione e a far credere agli adulti che l’episodio sia stato solo un gioco, ma purtroppo non lo è. Il bullismo è un comportamento capace di lasciare profonde ferite in chi lo subisce quindi gli insegnanti debbono vigilare e attivarsi affinché la scuola diventi un luogo sicuro per tutti i ragazzi.
«A volte le vittime se lo meritano!». Questa è una vera e propria percezione distorta. Pensare che le vittime se lo siano meritato perché sono provocatrici o spesso sono troppo diverse dai compagni è un’idea sbagliata, in quanto il bullismo non è una forma di giustizia nei confronti di chi ci infastidisce, ma piuttosto una forma per umiliare e per attaccare l’altro.
«Gli insegnanti sanno come affrontare il problema, è il loro lavoro!». In molti casi la famiglia o altri servizi delegano alla scuola la soluzione del problema, ritenendo che gli insegnanti siano in grado di capire tutte le problematiche dei loro alunni. Nonostante i docenti siano consapevoli delle difficoltà sociali presenti tra i ragazzi spesso hanno una percezione del fenomeno parziale o poco in linea con quello degli alunni, rilevando quindi solo i comportamenti più gravi di natura fisica e sottostimando gli effetti di comportamento verbali e indiretti.
La prima causa per cui si sottovaluta il bullismo è che lo si confonde con la normale aggressività del vivere sociale. In realtà quando parliamo di bullismo parliamo di qualcosa di diverso dalla normale conflittualità fra coetanei o dagli sporadici episodi di violenza che possono accadere in una comunità. È vero che le prepotenze ci sono sempre state, ma questo non significa che non abbiano avuto e non abbiano conseguenze negative sulla vita delle persone coinvolte, sia per coloro che agiscono prepotenze sia per chi le subisce. Per quanto riguarda il confronto con le esperienze del passato (es. «Queste cose succedevano anche in passato, aiutano a crescere!») quindi, non dobbiamo limitarci a guardare i comportamenti in sé, ma si devono considerare anche i cambiamenti sociali e culturali, perché questi danno un significato diverso alle prepotenze. Indipendentemente dal significato che ciascuno di noi può dare ai comportamenti aggressivi (chi li considera negativi, chi positivi e necessari), è importante sapere che le ricerche hanno dimostrato da un lato una netta correlazione tra bullismo persistente, comportamenti antisociali e criminalità e dall’ altro tra vittimismo, forti disagi personali e sociali, fino all’estremo del suicidio. A livello sociale, inoltre, l’autorevolezza degli adulti e il loro controllo, si sono ridotti nel tempo, per la “precocizzazione” adolescenziale tipica della nostra società, che fa sì che i comportamenti trasgressivi e certe dinamiche di gruppo tra coetanei si presentino già nella tarda infanzia e nella preadolescenza. La trasgressione, non è più caratteristica tipica dei giovani adolescenti, ma sta diventando “norma” o quantomeno fa “tendenza”, in una continua gara al rialzo e all’estremizzazione dei comportamenti. Le prepotenze nella scuola, che oggi sembrano appunto essere la “norma”, rientrano nella sfera dell’illecito e richiedono pertanto da parte dei bulli una giustificazione, che spesso viene assecondata dagli adulti di riferimento per mancanza di pronte strategie d’intervento. I bulli trasgrediscono alla norma di cui riconoscono la validità e l’unico modo per giustificarsi è quella di interrompere il comportamento o modificare la norma a loro vantaggio. In quest’ultimo caso si cercano delle eccezioni ammissibili («Questa cosa in genere non si può fare, ma in questo caso…») per ampliare i confini di ciò che è lecito, togliendo credibilità agli adulti che sostengono la norma. Tutto ciò permette che si inneschino meccanismi di disimpegno morale (12).
I meccanismi di disimpegno morale di seguito descritti aiutano i bulli a trovare una giustificazione per l’atto compiuto davanti agli adulti:
giustificazione morale: si ha quando la prepotenza risponde ad una morale non condivisa dagli osservatori, ma rilevante per chi agisce (es. razzismo, omofobia…);
confronto vantaggioso: si ha quando la gravità dell’azione si riduce nel confronto con comportamenti più gravi o valutando i vantaggi che l’azione stessa offre, ad es. nella risoluzione di un conflitto;
uso di eufemismi: si ha quando un uso bene educato del linguaggio trasforma e rende rispettabile anche una condotta dannosa.
I meccanismi che intervengono sulla percezione del danno prodotto dalle prepotenze:
negazione: si ha quando gli osservatori sostengono che non c’è stato nessun danno;
minimizzazione: si ha quando un danno esiste, ma non tale da provocare provvedimenti o condanne morali;
Inconsapevolezza: si ha quando un danno c’è stato, ma chi ha compiuto le prepotenze non ne era a conoscenza e quindi non ne può essere responsabile.
I meccanismi che si basano sull’identità della vittima:
deumanizzazione: si ha quando la vittima di prepotenze non è considerata una persona alla pari degli altri, quindi, non meritando rispetto, qualsiasi prepotenza nei suoi confronti è legittimata.
colpevolizzazione: si ha quando chi subisce ha la sensazione di essere il vero colpevole per quello che fa o per quello che non fa.
Le giustificazioni relative all’attribuzione di responsabilità:
diffusione: si ha quando le azioni compiute all’interno del gruppo sono imputabili a tutti e a nessuno, sia durante l’azione, sia successivamente al momento di giustificarsi.
spostamento: si ha quando in un gruppo guidato da un leader o in presenza di un’autorità che si accoda alle prepotenze, si attribuisce ogni responsabilità a colui che detiene lo status di superiorità.
Tutto questo porta a errate modalità relazionali con se stessi e con gli altri, producendo nei ragazzi ridotte capacità di comprendere l’altro ed i suoi sentimenti. In contesti in cui il bullismo è una cultura condivisa anche chi subisce prepotenze, se non vuole soccombere alla solitudine, può assumere uno sguardo tutto sommato simile a quello del prepotente.
I meccanismi di disimpegno lo aiutano a giustificarsi innanzitutto con se stesso e a mantenere le propria posizione, evitando l’isolamento. È una questione di sopravvivenza all’interno del gruppo, sia ridurre la percezione delle proprie difficoltà sia di dare delle chance ai compagni; le due cose procedono insieme e sussistono finché il danno ricevuto non supera il livello di sopportazione.
In senso educativo più generale concorrono ad alimentare questo fenomeno alcune dimensioni dell’emotività (quali la tenerezza, la gioia, la calma, il sentirsi appoggiati, il piacere di essere guidati nella scoperta delle cose, il gusto della conquista e della conoscenza costruita passo dopo passo, ecc.) che sembrano essere sempre meno presenti nella vita di bambini e ragazzi.
Vincenzo Cascino
Docente Dipartimento di Scienze della Salute Università degli studi di Genova
vincenzo.cascino@edu.unige.it
NOTE
(1) L’espressione, coniata dallo scrivente, deriva per contrazione da due termini: virtuale e adolescente e sta ad indicare la nuova categoria antropologica di adolescenti che vivono nella/la realtà virtuale.
(2) Commissione parlamentare per l’infanzia, risoluzione 7-00879, Forme di violenza di gruppo da parte dei minori (baby gang), approvata il 15 marzo 2000. Per ulteriori approfondimenti è possibile consultare il sito web www.camera.it.
(3) L’IRRE (Istituto Regionale di Ricerca Educativa) del Veneto nell’autunno del 1998 ha costituito un gruppo di progettazione per individuare i bisogni emergenti nel campo del disagio giovanile e preparare delle proposte di intervento dopo aver ottenuto risultati preoccupanti riguardo alle indagini sul bullismo. Sono consultabili sui siti web gli approfondimenti: http://www.comune.torino.it/novasres/Italiano/progetto.htm
http://www.gold.ac.uk/connet/interventionprojects.html.
(4) Dan Olweus nel 1978 somministra agli studenti un questionario sul fenomeno del bullismo per raccogliere informazioni sull’entità del fenomeno, sulla frequenza con cui gli insegnanti intervengono e parlano con gli studenti coinvolti, sul livello di consapevolezza dei genitori circa il comportamento e le esperienze dei figli a scuola. Nel 1993 elabora il Questionario Anonimo sulle prepotenze, primo strumento conoscitivo per ottenere un’analisi descrittiva del fenomeno delle prepotenze nella scuola in termini sia quantitativi sia qualitativi. Obiettivo principale dello strumento di rilevazione è quello di ricavare all’interno del gruppo-classe informazioni utili circa la presenza e le gravità del fenomeno, i luoghi dove si svolgono le prepotenze, le modalità secondo le quali sono agite o subite, i vissuti emotivi di coloro che le subiscono, che assistono o compiono prepotenze in relazione ad alcune variabili generali quali l’età, il sesso e il tipo di scuola.
(5) Nel 1993 Smith and Whitney hanno confrontato e documentato i risultati delle ricerche nei diversi Paesi Occidentali evidenziando la natura e le caratteristiche del fenomeno in 16 Paesi Europei, nel Nord America (USA e Canada) e in tre Stati dell’area dell’Oceano Pacifico (Giappone, Australia e Nuova Zelanda). Questo lavoro è stato documentato in: Whitney and Smith, (1993) A survey of the nature and extent of bullying in junior/middle and secondary schools, in Educational Research, 35.
(6) I siti da consultare per approfondire il fenomeno di mobbing sono per la maggior parte scandinavi o in lingua inglese. Particolarmente utili possono essere: www.leymann.se (nel sito si può trovare The Mobbing Enciclopedia di Heinz Leymann); www.aziende.iol.it/prima (il sito di Prima, l’associazione di Bologna fondata da Harald Ege); www.successunlimited.co.uk (sito inglese ricco di notizie creato da Tim Field); www.hec.unil.ch/depart/deep/cahiers/TEXTES/txt-9907.pdf (uno studio dell’Università di Losanna sulle conseguenze mediche e psichiche del mobbing).
(7) D. Olweus studioso Norvegese, per primo ha condotto ricerche su tale fenomeno e definisce così il bullismo: “uno studente è oggetto di azioni di bullismo, ovvero è prevaricato o vittimizzato, quando viene esposto, ripetutamente nel corso del tempo, alle azioni offensive messe in atto da parte di uno o più compagni” .
(8) Consultabile sul sito web www.azzurro.it. Quaderni telefono azzurro Il fenomeno del bullismo. Conoscerlo per prevenirlo. Inserto speciale a cura di Chiara Angioletti, Laura Michelotto, Cristina Racchi, Approfondimenti a cura di Barbara Fabbri e Daniela Faletra con la collaborazione di Marta Pacini e Barbara Forresi, Vignette di Marco Fabbri.
(9) Lo studio condotto da Olweus nel 1978 indica che approssimativamente il 75% degli studenti del gruppo di controllo presenta un qualche tratto “anomalo” e ciò significa che quasi tutti abbiamo delle anomalie e che, di conseguenza, chiunque le ricerchi nelle vittime come spiegazione del loro ruolo non avrà difficoltà a trovarne molte, confermando così questo pregiudizio.
(10) Secondo un recente lavoro di Menesini e Gini (2000) le modalità messe in atto dai diversi membri durante un episodio di bullismo costituiscono un elemento intorno a cui si costituiscono i gruppi nella classe. Da un lato, infatti ci sarebbe un “effetto selezione” per cui la scelta dei membri avverrebbe in base alla somiglianza dei comportamenti; dall’altro, una volta formatosi il gruppo, il membri stessi si influenzerebbero a vicenda mediante quello che Salmivalli et al. (1996) hanno chiamato “effetto socializzazione dei comportamenti”.
(11) Per indicare precisamente questo tipo di fenomeno è stato utilizzato il termine contagio sociale.
(12) Secondo Bandura (1996; 1997) il rapporto tra principi morali interiorizzati e condotta è mediato da un sistema di meccanismi di autoregolazione, da sanzioni interne, quali i sensi di colpa, che anticipano e prevengono il comportamento immorale. Sono questi i meccanismi interni che mantengono in sintonia la condotta e le norme morali interiorizzate. Questo sistema di autocontrollo può in alcune circostanze essere disattivato. L’acquisizione e il possesso di un sistema di autoregolazione interno non ne garantiscono un funzionamento efficace e continuo.
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