L’educazione interculturale come risposta pedagogica ai problemi della società multiculturale 1.- Spunti di riflessione sull'intercultura Premessa Reputo che il tema "intercultura" debba considerarsi problema sia per ragione dell'interpretazione dei suo significato sia per la varietà delle implicanze nei rapporti tra appartenenti a culture diverse. Gli aspetti più trattati oggi sono quelli miranti a sostenere una convivenza tra appartenenti a culture diverse, cioé tra persone necessitate a lavorare insieme. Ma anche di fronte a questa evenienza il problema si fa eminentemente educativo. Si vuol dire che si tratta di fondare una antropologia dell'uomo, della vita e dei proprio essere su basi valide per tutti. Entriamo negli argomenti Il termine è composto da inter che in latino significa “tra” e cultura L'accento non è posto sulla relazione all'interno dei vari elementi che compongono e contraddistinguono una cultura, bensì sul rapporto di diverse culture fra di loro. Il termine cultura è assunto secondo l'accezione socio-antropologica, che riguarda usi, costumi, abitudini, concezioni religiose e forme diverse di vita. Entro questa concezione generale di cultura, il termine "monocultura" sta ad ìndicare l'esclusività di una sola cultura, quello di "pluricultura" o "multicultura" si riferisce a diverse culture vissute in un medesimo territorio ma inter sè non comunicanti. "Monocultura" e “plurícultura" (o "multicultura") interessano nella ricerca pedagogica ed educativa per conoscere le caratteristiche peculiari delle singole culture, che qualificano la loro identità (aspetti descrittivi). Invece "intercultura" non è un dato di fatto esistente; essa è obiettivo da raggiungere, attraverso l'instaurazione dì un tipo di rapporti dinamici tra pìù culture da conseguire attraverso la legislazione statale e i sistemi educativi (compito prescrittivo). Ad affrontare queste tematiche dagli inizi degli anni ottanta si è impegnata una nuova disciplina: la pedagogia interculturale. Questa non ha ancora raggiunto una sicura definizione; è ancora oggetto di ricerca da parte degli specialisti; e mira a fornire ai sistemi educativi tutte quelle indicazioni teoriche e pratiche che dovrebbero essere in grado di cambiare il volto della società. Le diversità culturali a confronto Nei tempi passati, quando le diversità culturali venivano a contatto, solevano sprigionare una conflittualità molto forte che dava origine a lotte e guerre per imporre all'altro il proprio dominio e la propria cultura, causando anche fenomeni di genocidio. L'idea dominante era quella del proprio valore, del possesso di una migliore civiltà o anche di una religione superiore. Oggi, il pluralismo diffuso costringe il pensiero comune a mettersi su di un altro piano: non ci possiamo distruggere in lotte intestine; dobbiamo guardarci in faccia, conoscerci, rispettarci e trovare le regole della convivenza e della collaborazione. A questo cambiamento di mentalità siamo costretti dagli avvenimenti, ma abbiamo anche fatto molti progressi sul piano dei significato e dei valore della vita umana, mettendo in primo piano non più le culture e la loro conflittualità, bensì l'uomo come persona nel suo valore e nella sua dignità. Sul piano dei fatti siamo in presenza di immigrazioni di gente proveniente da vari continenti, appartenente a culture e religioni diverse. E, quel che ancora conta, si tratta di diversità che si distanziano notevolmente e che, nel tentativo di conservare la propria identità minoritaria, si chiudono in una intransigente impenetrabilità. Per altro verso il Paese di accoglienza ha finito coi rinunciare alle imposizioni sia perché ha bisogno di mano d'opera, sia perché non ha più il potere delle armi. Sul piano della mentalità, chiunque rifletta deve ammettere che la base per accettarsi, tollerarsi e collaborare, obbliga a portare l'attenzione non più sugli attributi culturali, ma su una nuova concezione dell'uomo, chiunque egli sia. In altre parole non si può pìù parlare di nazioni che "importano mano d'opera", bensì si deve riconoscere che si importano "uomini" con tutti i loro diritti e con tutta la loro dignità, a prescindere dagli usi e costumi che segnano la foro cultura. Allo scopo di rendere fecondi e sicuri i rapporti tra le diverse culture dovranno intervenìre il legislatore ed il sistema educativo. Allo Stato spetta sancire con un'adeguata legislazione i diritti e i doveri degli immigrati. Né possono essere prese in considerazione le sole convenienze economiche. Gli immigrati, generalmente, accettano di affrontare lavori umili (o di alto rischio per la salute fisica), che ormai gli europei, ricchi in economia e poveri di prole, non svolgono più o per i quali non si trova mano d'opera locale sufficiente. L'immigrato è una persona, che,in virtù dei suo valore ontologico ed in nome della civiltà europea, ha diritto di essere considerato con tutti i suoi problemi umani: salute, famiglia, religione, cultura. Dal punto di vista psicologico ci si attende il superamento della xenofobia e dei pregiudizi razziali da parte degli ospitanti. Qui il discorso si fa eminentemente pedagogico poiché si tratta di educare a riconoscere all"'altro" la medesima dignità che riconosciamo a noi. La pari dignità delle culture Le diverse culture come prodotto dell'uomo meritano il riconoscimento della pari dignità e quindi un confronto a pari con il superamento ed il rifiuto di costituirsi di questa o quella come dominante, avente in sé, per ragione intrinseca o politica, il diritto di imporsi e di esigere d'essere accolta ed assimilata. Le conseguenze sul piano educativo comportano il riconoscimento di un ruolo attivo degli appartenenti a culture altre ad elaborare e mettere in atto opportune ed adeguate strategie educative. Sul piano sociale le conseguenze non potranno che farsi evidenti per la negazione della dominazione dell'uomo sull'uomo. In altri termini la pedagogia interculturale tende ad incidere sulla vita pratica della società, portando ad oltrepassare le barriere nazionali. In questo senso essa pone le basi per la costruzione della pace. La dignità dell'uomo viene prima della cultura Essa ci ricorda che l'educazione è la formazione dell'uomo in quanto tale, valorizzazione delle potenzialità interiori attraverso una cultura che sempre travalica e verso la quale si apre per arricchìrsi, per comprendere gli altri e comunicare con essi. Quando un soggetto scopre, costruisce e rafforza la sua identità senza legame incondizionato alla cultura che gli è servita per la sua formazione, sarà in grado di crescere secondo un suo progetto (identità dinamica), aperto alla comprensione di altre culture e in grado di mettersi in dialogo con esse e ad operare le migliori íntegrazioni. Così col termine "integrazione", escludiamo la pura assimilazione tendente ad eliminare le identità proprie originarie, per sostenere, invece, il dialogo mediante il quale il soggetto rinnova ed accresce la sua cultura. Lo scoglio maggiore può consistere in una concezione di "gelosia" della propria cultura che si intende conservare per volontà di superiorità. Altro scoglio è rappresentato dal caso dei portatore di cultura "altra" che ritiene "debole" perché vissuta, come nel caso dell'emigrazione, in situazione di isolamento, ma "forte" perché legata alla storia della propria origine e agli affetti che le esperienze condotte tengono vivi. Superiorità e nostalgia si qualificano come atteggiamenti impeditivi di crescita e di collaborazione. Non possiamo nascondere che per "crescere" occorre anche lasciare, abbandonare le dimensioni dei piccolo, di ciò che apparta, ma abbandonare anche la dominanza che non accetta cambiamenti. E' l'uomo che fa la cultura e precisamente quella cultura che lo fa migliore, che arricchisce di conoscenze, di esperienze, di dialogo, di collaborazione. Questa prospettiva mette in crisi le identità stagne. Sono questi i presupposti per una ridefínizione di cultura in prospettiva di contatti ravvicinati tra culture diverse. Sia chiaro che la cultura, che ha fatto o fa le identità individuali e di gruppo, è sempre in movimento, in cammino e questa sua evoluzione non può essere fermata, pena l'invecchiamento e il superamento. Il problema è che oggi l'accelerazione non avviene solo per i sistemi di trasformazione industriale, ma sopratutto per il fatto sociale che gruppi diversi si trovano a convivere e a dover collaborare. Uomìni diversi possono collaborare, ma se vogliono accettarsi e reciprocamente avvicinarsi ed intendersi in pari dignità, sforzo e adeguamento, ciascuno deve cambiare. L'intercammino di civiltà Disquisire sul significato che il termine "civiltà" ha assunto presso i vari studiosi porta a rifarsi ai diversi contesti sociali,relativi sia ai popoli o gruppi umani oggetto d'indagine, sia ai ricercatori in quanto specchio di una determinata concezione antropologica. Un attento sondaggio fa emergere da quelle relatività taluni elementi il cui valore può essere sostenuto nell'attualità e addirittura costituire una buona base progettuale per il futuro. Da ciò emerge la possibilità di interrogarsi se sia prevedibile un incontrarsi dialogico delle culture in ravvicinamento spazio-temporale per un cammino di civiltà per tutti, indicato prioritaríamente come cammino in grado di prevenire conflitti,risolvere problemi ed offrire possibilità di progresso civile nell'ambito dei "villaggio globale". Sembra essere questa anche la via offerta alla moderna società nella sua discrasia fra progresso tecnico e vivibilità umana per rigenerarsi sul piano etico. Già il discorso interculturale, per il fatto di volersi coniugare in un certo modo, porta a porsi al di sopra delle singole culture e questo è un fatto di civiltà, sia per la rinuncia all'esaltazíone della propria cultura come eccellente o assoluta, cosa che equivale al riconoscimento dei diritti dell'altro, sia per la disponibilità ad eliminare storture ed acquisire valori nuovi con l'aiuto altrui. Questi atteggiamenti aprono ad un cammino che può superare i valori ricavabili soltanto dalle radici della propria cultura, per ricevere nuove iniezioni in ordine alla crescita in civiltà. Cosicchè l'arricchimento non è solo effetto di stimoli alle proprie radici culturali o di ínterscambio tra culture; ma è anche acquisizione di nuovi valori "umanisticamente" rilevanti ed elevanti. Fra questi ultimi mettiamo in primo piano le indicazioni circa i diritti umani, che ci provengono dai vari trattati internazionali. Possiamo, pertanto, passare dal concetto di "civiltà" in senso puro (teorico) a quello reale. Quest'ultimo senso dice sempre "elevatezza" anche se la civiltà reale si può presentare con qualche elemento di "barbarie". Pur tuttavia si deve riconoscere il diritto che ogni civiltà possa e debba modulare la propria identità secondo modalità specifiche proprie. I problemi della didattica Non possiamo dire di avere raggiunto un buon livello, né di avere raccolto esperienze adeguate al problema didattico sia nell'ambito scolastico che extrascolastíco. La nostra scuola è ancora fondamentalmente monoculturale: le discipline sono affrontate in modo unilaterale e sovente impostate (vedi ad esempio la storia) in funzione apologetica come le cause delle guerre, le lodi dei genio nazionale proprio degli scopritori, degli artisti ecc.. Si deve anche tenere conto che l'educazione interculturale impartita a scuola, a ben poco approda senza l'apporto deì genitori e degli adulti entro e fuori le istituzioni pubbliche e private di tutti i tipi, dalle sportive, alle culturali, alle religiose, ecc. Entriamo così in una questione di ampio respiro diretta a coinvolgere tutta la società ed in questa direzione vogliamo parlare dì "società educante". Numerose indicazioni di contenuti dell'educazione interculturale vengono date dall'UNESCO, dal Consìglío d'Europa e da studiosi. A modo di esempio riferiamo quelle offerte da M. Abdallah Pretceille ("Pédagogie intercuiturelle: Bilan et perpectives" in Interculturel, Toulouse, 1986, p. 32): - l'insegnamento delle civilìzzazioni - l'educazione ai diritti dell'uomo - le azioni di riflessìone sull'apertura al terzo mondo - gli scambi linguistici L'A. commenta: "amiamo sottolineare che questo discorso metodologico e didattico di natura interculturale non iscritto nell'effimero e nell'avventura, s'estende ad ogni tipo e livello di educazione e, riferendoci alla scuola, rileviamo che esso non è riservato alle scuole o alle classi con presenze multiculturali - per cui ci piace dichiarare come esso getti le basi per una educazione alla mondialità". Secondo H. Essinger "interkulturette Paedagogik", Baitmannsweiler, Suizberg, 1986 p.71) serve: - educare all'empatia: imparare a capire gli altri, immedesimarsi in loro - educare alla solidarietà: per formare una società più umana - educare al rispetto interculturale: non saccheggiare più la natura e l'uomo - educare contro il pensiero nazionalistico: ormai sono superati i confini nazionalistici: molta mobilità di popoli. Altre indicazioni si trovano ormai presso tutti gli Studi più recenti che trattano di pedagogia interculturale. 2.- L’educazione interculturale come educazione dell’essere Dalla dimensione della razionalità a quella dei sentimenti: Il ruolo dei sentimenti nell’educazione interculturale Per ciò che riguarda il bambino piccolo si dovrà far leva non sulla razionalità ma sui sentimenti e sulle caratteristiche proprie dei singoli sentimenti. Gli psicologi umanisti ci dicono che l’educazione può far leva sui sentimenti di benevolenza e sulla sua tendenza all’esplicazione nelle relazioni umane. Sarà così possibile sviluppare i sentimenti di benevolenza, che consideriamo prerequisito per la comprensione tra gli uomini a qualunque razza o colore ciascuno appartenga. Il fatto stesso che l’avversione del dissimile non esiste presso i piccoli fanciulli, che è stato dimostrato il carattere acquisito dell’avversione, prova l’opportunità, anzi la necessità, di proporre delle attività che riguardano l’evoluzione e le modalità della vita di relazione del fanciullo e successivamente dell’adolescente, del giovane e dell’adulto, ma sempre secondo le peculiarità con cui si presentano in ciascuno. Quando vengono suscitati ed incoraggiati i sentimenti di benevolenza fin dall’infanzia, il soggetto si dispone a quell’apertura che amiamo chiamare: ”volere l’altro” così com’è. La volontà di bene verso l’altro, toglie il soggetto dall’egocentrismo consentendo di interagire con gli altri in atteggiamento di collaborazione e solidarietà. Interagendo con l’altro in condizioni di accettazione e collaborazione, il soggetto previene e semmai supera la pretesa di autosufficienza nei suoi stessi riguardi ed approda più facilmente alla ricerca della reciproca promozione. Questo atteggiamento, da considerarsi preliminare e fondamentale per avviare il piccolo educando all’incontro con l’altro diverso, è destinato a dare frutti più lontani nel tempo. Tuttavia se queste riflessioni riguardano il bambino, non sono estranee all’umanità dell’adulto: solo che nell’adulto i sentimenti sono già stati caricati di contenuti, per cui il discorso, per questi aspetti, è da considerarsi di recupero. Quando gli adulti, portatori di culture diverse, vengono stimolati al reciproco dialogo, chiaramente sono impegnati a considerazioni di rispetto, di stima, di ricerca d’intesa fondati sulla comune umanità. Tutto il discorso fa leva sulla capacità di razionalizzazione. Ma l’attività di razionalizzazione, nel momento operativo, quando cioè si trova di fronte ai vari elementi della propria cultura, scopre i suoi legami con i sentimenti, le affezioni e le risonanze individuali con cui ha rivestito i suoi convincimenti e le sue esperienze. Così ci troviamo di fronte più spesso al gioco ed alla forza dei sentimenti che condizionano i ragionamenti Pertanto, la realtà culturale può essere passata al vaglio solo se alla base mettiamo i discorsi fatti per i più piccoli, altrimenti si incontrano o scontrano individui alla ricerca di convenienze più o meno vantaggiose per i propri interessi e convinzioni. Vogliamo dire che ancora una volta anche nell’adulto giocano i sentimenti, non puri come all’origine, ma già modulati attorno ai suoi convincimenti ed alle sue esperienze, così da rendere più difficile il dialogo per la ricerca dell’integrazione. 3.- Quali sentimenti coltivare nella scuola di fronte al pluralismo 1.- Caratteristiche proprie dei sentimenti Le nostre riflessioni si occupano direttamente ed esclusivamente dei sentimenti che noi vogliamo tenere distinti e separati dalle emozioni. Sappiamo quanto la letteratura talora interscambi i due concetti oppure connetta le due realtà ed in particolare – cosa che più ci interessa – intraveda ed analizzi la compresenza di elementi di pensiero. Noi intendiamo collocare i sentimenti nell’ambito della comprensione ponendoci così in una posizione più moderna rispetto alla tradizione che voleva la comprensione attività e prodotto della mente. Intendiamo, cioè, concepire la comprensione, quale frutto dei sentimenti, come capacità di avvertire e rispondere alla realtà in forma antecedente la razionalità vera e propria. La nozione di comprensione ha sempre avuto in Occidente un riferimento alla mente e non si era mai pensato che le idee possono nascere all’interno di un orizzonte della mente (Cfr. Perla L comprensivo pre-logico, pre-mentale, dovute alla capacità di avvertire situazioni a un livello antecedente l’analisi razionale e di agire e reagire ad esse in base a quanto è stato avvertito. In sintesi: nella nostra cultura non si è mai data rilevanza alla comprensione di cui è capace il nostro sentimento, ma solo alla comprensione della mente e delle produzioni, Educazione e sentimenti. Ed.La Scuola. Brescia. 2002, pp. 75-76). Ché, anzi, il sentimento è stato visto come ostacolo. In questa visione l’adesione ai valori risulta essere opera di sentimento e, solo dopo, essi vengono ratificati dal giudizio. Noi li cogliamo subito nel registro del nostro sentire profondo per una sorta di convinzione dovuta alla natura stessa dell’essere umano in quanto tale; nell’adulto vi giocano anche la sua storia, la sua educazione, le sue concezioni filosofiche e spirituali e solo successivamente egli cerca di giustificarli col ragionamento. Qualora volessimo persuadere un altro a favore di questo o quel valore per ragione del nostro convincimento che esso è migliore del suo, difficilmente egli vi aderirà finché i suoi sentimenti glielo impediscono. (Cfr. G. Avanzini, Eduquer aux valeurs, Ed. Don Bosco, Paris, 1999. p.72). Noi ci orientiamo, dunque, a comprendere i nessi e le connessioni tra la natura interna e la natura esterna (io-mondo); la natura interna diventa il territorio della nostra riflessione. Le relazioni sociali non sono più considerate conseguenze dei sentimenti, aspirazioni, predisposizioni, ma sono viste come pre-condizioni che rendono possibile l’attualizzazione e la manifestazione di sentimenti, passioni, aspirazioni, predisposizioni. Su questo piano ogni relazione sociale ha un suo codice, per cui non si cerca più di colonizzare totalmente la natura interna per la costruzione di identità ‘docili’ e malleabili, corpi per riempire ‘involucri’ (ruoli) molto ben disegnati e delineati. Centrare l’attenzione sui sentimenti significa cercare di comprendere attraverso quali energie gli individui fanno i conti con gli involucri disponibili (Cfr. Di Nicola P., Amichevolmente parlando, Franco Angeli, 2002, pp.12-15). In questa ottica per imparare occorre sentire, così più un oggetto di apprendimento è in grado di suscitare sentimenti intensi, più quell’oggetto entra a far parte dell’assetto motivazionale profondo per il soggetto che apprende. Non si tratta di separare il sentire da quell’ insieme di elementi che ne accompagnano l’esperienza. Fatto è che si tratta di riconoscere che i fatti acquistano un senso, quel senso che ad essi si riesce ad attribuire. Quello da costruire è un “senso unitario”. Possiamo parlare di educazione dei sentimenti, ma in questo significato di unitarietà, che può meglio essere espresso come educazione ai sentimenti, che si intendono dotati di un proprio codice. “Oggi l’educazione ai sentimenti, nel senso del giusto, delle relazioni, dei valori non è certo al centro delle finalità dei sistemi formativi istituzionali, in primo luogo della scuola. L’arte, la musica, lo sport, la poesia, la religione, la politica, il teatro, la lettura fatta per l’esclusivo piacere di leggere, sono attività poco apprezzate in ambito scolastico, se non opzionali.” (Perla L.op.cit.p.79 ). “Ma il cuore dove può andare a scuola? Diceva Rousseau ‘Colui che, fra tutti noi, sa meglio sostenere le gioie e i dolori della vita è, a mio avviso, il meglio educato’. L’educazione della mente razionale, così importante secondo quanto ci è stato fatto credere dall’indottrinamento della scuola, ci rende ben poco capaci di affrontare gioie e dolori. E’ vero piuttosto il contrario: l’educazione della mente razionale ci rende meno capaci di sentimento, perché sentimento e pensiero sembrerebbero svilupparsi, per lo più, l’uno a spese dell’altro” (Hillman J.citato in ib). 2.- Sentimenti e apprendimenti A questo punto si fanno strada le domande: quali idee-guida identificare nella prospettiva dell’educazione ai sentimenti? E più ancora quali atteggiamenti dell’educatore entrano a sostenere la detta educazione? Non si tratta far leva sulla forza della simpatia dell’educatore: realtà pur interessante, ma rischiosa di trasformarsi in condizionamento. E d’altra parte è l’esperienza concreta vissuta con gioia, con simpatia, con risonanza gratificante, che entra a costituire la base dell’educazione. S’aggiunga che il bambino ed anche il fanciullo sono propensi alla gioia e a fissare stabilmente nella loro interiorità le esperienze vissute “gioiosamente”. E pure occorre tener presente che educare ai sentimenti comporta l’ educazione ai “buoni”sentimenti: siamo infatti in educazione e la pedagogia ci ricorda il suo valore etico e morale, poiché la crescita e lo sviluppo della personalità secondo dignità umana è sempre positivo. Ma con questo anche ricordiamo che non è il “valore oggettivamente positivo”, che sia in grado da solo far risuonare i sentimenti. a) Una prima disposizione ravvisiamo nella tendenza alla benevolenza, che origina dalla connaturalità dell’essere umano con il bene e con la tendenza alla sua esplicazione nelle relazioni umane. Su questa l’educatore può far leva come a prerequisito per la comprensione tra gli uomini, a qualunque cultura e religione ciascuno appartenga. Quando vengono sostenuti i sentimenti di benevolenza fin da bambino, il soggetto si dispone a quell’apertura che amiamo chiamare “volere l’altro”, che non va inteso come riduzione dell’altro a sé e neppure di un Dio tutto e solo per sé. Sarebbe un dominio, un asservimento che implica presunzione di una compiuta eccellenza propria o superiorità del proprio credo, tale da giustificare l’antagonismo verso l’altro e la pretesa del suo possesso. Quando prevale la volontà di superiorità si bloccano i sentimenti di benevolenza e di accoglienza, che costituiscono la prima condizione per il dialogo tra diversi. In linguaggio cristiano si dovrebbe dire che occorre educare a vedere sempre nell’altro un fratello, un dono e in Dio il Dio di tutti. E’ un’educazione di base che comincia coll’impedire l’arroccarsi in quelle forme religiose che possono essere causa di tensione e scontro. b) Se la tendenza alla benevolenza prospetta possibili orientamenti aperti nelle relazioni umane, a prescindere da diversità culturali e religiose, il momento operativo è presieduto dalla tendenza alla dedizione, o più esattamente alla oblatività. Se questa, come crediamo, è una risorsa ed una esigenza della natura umana, noi abbiamo qui un aiuto per rendere possibile lo stabilirsi di rapporti interumani, i quali, più che essere una faticosa conquista, sono un sereno e gioioso affermarsi di ciò che è più degno dell’uomo in quanto tale, di ogni uomo. E’ la volontà di bene verso l’altro, la quale, promossa e sostenuta dall’educazione, toglie il soggetto da quell’egocentrismo che mal dispone nei riguardi dell’altro. Interagendo con gli altri ed agendo per gli altri di qualunque cultura o religione essi siano, il fanciullo previene ogni dogmatismo religioso. Questo atteggiamento si fa fondamento e garanzia della solidarietà umana ed elimina fin dalla radice le cause di rifiuto e di scontro anche sul piano religioso. e fin tanto che continua ad esistere la vita sociale, la realizzazione di sé non può costituire il principio etico supremo”. Ma se l’uomo non è un animale solitario, i suoi sforzi per realizzare la propria personalità, i suoi tentativi di individuazione, devono comprendere i suoi rapporti con gli altri. Russel lascia intendere che un uomo possa essere se stesso solamente a spese degli altri . In civiltà come la nostra, invece, dove non tutte le energie di un uomo sono necessariamente rivolte al mantenimento in vita di se stesso e della propria famiglia, lo sviluppo dell’individuo non avviene a spese, ma a vantaggio delle persone che lo circondano. L’adulto, al contrario del bambino, se ha raggiunto una posizione in cui può mettere a frutto le sue attitudini, si renderà conto che i suoi simili, lungi dall’essere ostacoli, sono anzi per lui aiuto nella espressione delle sue potenzialità. Nessun essere umano è autosufficiente. Se esistesse un essere umano autosufficiente, non possederebbe più quelle caratteristiche che noi chiamiamo umane, e potremmo difficilmente parlare di lui come di una personalità reale. La sua cultura sarebbe chiusa in sé senza condivisione con altri. Nessun uomo è un’isola. Nessuno può raggiungere indipendenza e maturità isolandosi dai propri simili. Si parla di “dipendenza matura” come traguardo. Il pieno sviluppo della personalità implica, da parte dell’individuo, l’accettazione del bisogno fondamentale che ciascuno ha degli altri. Ci troviano di fronte al paradosso secondo cui l’uomo attinge il massimo della sua individualità proprio grazie al più profondo contatto con i suoi simili, con la loro cultura, mentre quando se ne stacca è proprio allora che cade nella minima ‘individuazione’. Che cosa c’è allora di così importante nei rapporti con gli altri, se l’uomo non riesce a sviluppare senza di essi la propria personalità? Come un bambino non può fare a meno dell’affetto e dell’amore dei suoi genitori, così l’adulto non può vivere senza sentirsi inserito nella cultura dei suoi simili, in mancanza di che è preso dell’isolamento della follia. Condividere e interagire, sul piano dei significati e dei valori della vita, ossia tenersi aperti verso la cultura del sociale, pur nell’identità del proprio essere personale, vuol dire diventare capaci di accettare noi stessi e pertanto di essere noi stessi fra gli altri e con gli altri e di realizzare la nostra personalità. Non possiamo nemmeno prendere coscienza di noi stessi come individui singoli, senza collegarci con gli altri, con la loro cultura sia per un confronto come per un arricchimento. (Cfr.A.Storr. L’integrazione della personalità. Astrolabio. Roma. 1969, pp .19-26. passim). d) L’educazione per una cultura di maturità individuale e sociale. Oggi la pedagogia, resa più sensibile ed avveduta di quanto non sia stato nell’anche recente passato, si richiama alle capacità ed ai bisogni dell’individuo. Non intende che serva il più o meno ampio magazzino di informazioni di cui si può disporre; intende, invece, richiamarsi alle concrete forze che il soggetto possiede, alle attività, alle attitudini, in una parola, alle forme culturali suscettibili di adattamento, di innovazioni, di modifiche, per offrire al soggetto quanto gli può servire di volta in volta nel cammino della sua vita individuale, sociale, ma anche professionale. Si tratta, dunque, di un’offerta culturale che guarda più al futuro che al presente. (Cfr.Flores D’Arcais G., op.cit.) Conclusione c) Va da sé, dunque, che il sistema di formazione dovrà accompagnare l’individuo per tutto l’arco della vita, facendo riferimento ai due versanti del possibile cammino: le risorse del soggetto (quelle esistenti, e quelle di nuova scoperta) e le proposte culturali adeguate a rispondere alle aspettative. Il progetto impegna il sistema educativo d’intervento nella capacità di intrecciare la cultura personale e quella sociale, estesa anche a quella professionale, affinché l’identità personale, dinamicamente attiva, cammini coi tempi della propria vita e con le novità della società in continua Oltre la dedizione od oblatività, si prospetta la necessità di instaurare effettivamente dei rapporti coi propri simili. A nulla varrebbe quanto fin qui abbiamo considerato se effettivamente il fanciullo non si facesse attivo attraverso esperienze di collaborazione, di gioco ed altro. Si tratta di esperienze suscitatrici di gioia nell’incontro, nello stare insieme, nel creare qualcosa insieme. Nessuna remora dovrà impedire l’incontro col diverso in qualsiasi campo, compreso quello religioso: Dio è il Dio di tutti. Se la religione distingue, non deve però separare dal consorzio con i propri simili. d) Altra caratteristica naturale è la tendenza a vedere nell’altro un essere da amare. M.Nédoncelle la chiama “sguardo d’amore” che tende alla promozione dell’altro visto come essere uguale a sé al di fuori ed al di sopra delle differenze d’ogni genere “L’amore è una volontà di promozione. L’io che ama vuole anzitutto l’esistenza del tu; vuole inoltre lo sviluppo autonomo di questo tu”. (M.Nédoncelle.Verso una filosofia dell’amore e della persona. Ed.Paoline. Roma.1959 p.13). Esso ha come fondamento la più tipica qualità umana, destinata a coestendersi con tutte le esperienze della vita : ogni cosa si può fare con amore e per amore. Vi possono essere intralci e difficoltà soprattutto per le resistenze altrui; tuttavia il fanciullo, che non è stato irretito da pregiudizi, può far prevalere la sua forza ed il suo bisogno d’amore. La notevole rilevanza dell’amore su tutto il piano delle relazioni umane porta a dover concludere che possibile e doveroso amarsi tra persone per quanto diverse. In ultima analisi ogni individuo ha in sé lo stesso valore (ontologico) dell’altro. Caratteristiche proprie dei sentimenti a) I sentimenti sono da considerarsi come stato psicologico di carattere affettivo. Generalmente, infatti, sono intesi come dinamismi espressi da una facoltà spirituale contrapposta alla ragione. Se è vero quanto dice Rousseau che noi “sentiamo” prima di conoscere, ha senso richiamarsi alle sue riflessioni ove afferma: “per quanto tutte le nostre idee ci vengano di fuori, i sentimenti che le valutano sono dentro di noi”. Così i sentimenti di benevolenza, dedizione, amore, altruismo possono affermarsi presiedendo all’instaurazione dei rapporti sociali, creando nel soggetto una cultura aperta. Che se poi, come vorrebbe Freud, le esperienze dei primi anni di vita condizionano il comportamento futuro, noi disponiamo di una forte risorsa della natura umana per avviare fin dall’infanzia un nuovo processo di socializzazione e collaborazione fra bambine e bambini di diversa etnia e religione creando esperienze di vita, che si proiettano anche verso la vita adulta. I sentimenti innati non inclinano a fare dell’uomo “homo homini lupus”. Purtroppo nel corso della vita vi potranno essere devianze, come sovente tutti costatiamo. Del resto Rousseau stesso con una nota di pessimismo all’inizio dell’Emilio osserva: “tutto è bene uscendo dalle mani dell’Autore delle cose, tutto degenera fra le mani dell’uomo”. Fra il nativo e l’originario (Cfr.Spranger) si collocano gli interventi, che mirano a sviluppare la personalità del singolo soggetto. Partire da questa realtà naturale significa compiere un percorso a natura conforme (Cfr.Comenio). Ed ancora per rifarsi ai classici della pedagogia diremo che seguendo la natura non si sbagli mai. Ma quel’è questa natura? Ossia di quali risorse è dotata la natura umana? Ravvisiamo che per ciò che riguarda il bambino piccolo si dovrà far leva non sulla razionalità ma sui sentimenti e sulle personali proprie caratteristiche degli stessi sentimenti. Gli psicologi umanisti ci dicono che l’educazione può far leva sui sentimenti di benevolenza e sulla sua tendenza all’esplicazione nelle relazioni umane la cui esperienza arricchisce il proprio essere. Sarà così possibile sviluppare i sentimenti di benevolenza, che consideriamo prerequisito per la comprensione tra gli uomini a qualunque razza o colore ciascuno appartenga. Il fatto stesso che l’avversione del dissimile non esiste presso i piccoli fanciulli, che è stato dimostrato il carattere acquisito dell’avversione, prova l’opportunità, anzi la necessità, di proporre delle attività che riguardano l’evoluzione e le modalità della vita di relazione del fanciullo e successivamente dell’adolescente, del giovane e dell’adulto, ma sempre secondo le peculiarità con cui si presentano in ciascuno. Quando vengono suscitati ed incoraggiati i sentimenti di benevolenza fin dall’infanzia, il soggetto si dispone a quell’apertura che amiamo chiamare: ”volere l’altro” così com’è. La volontà di bene verso l’altro, toglie il soggetto dall’egocentrismo consentendo di interagire con gli altri in atteggiamento di collaborazione e solidarietà. Interagendo con l’altro in condizioni di accettazione e collaborazione, il soggetto previene e semmai supera la pretesa di autosufficienza nei suoi stessi riguardi ed approda più facilmente alla ricerca della reciproca promozione Questo atteggiamento, da considerarsi preliminare e fondamentale per avviare il piccolo educando all’incontro con l’altro diverso, è destinato a dare frutti più lontani nel tempo. Tuttavia se queste riflessioni riguardano il bambino, non sono estranee all’umanità dell’adulto: solo che nell’adulto i sentimenti sono già stati caricati di contenuti, per cui il discorso, per questi aspetti, è da considerarsi di recupero. Quando gli adulti, portatori di culture diverse, vengono stimolati al reciproco dialogo, chiaramente sono impegnati a considerazioni di rispetto, di stima, di ricerca d’intesa fondati sulla comune umanità b) Si tratta di sviluppare la naturale disposizione alla benevolenza, all’amicizia, alla dedizione attraverso la coltura dei sentimenti in esperienze positive di incontri gioiosi e gratificanti. E’ un educare all’amore dell’altro, qualunque sia la sua diversità; è un consentire che il fanciullo apprenda, attraverso l’esperienza, la essenzialità dell’essere personale, termine d’amore al di là dell’etnia, del sesso, delle doti, della cultura del gruppo di appartenenza e della particolare religione. Evidentemente ciò vale per tutti sia autoctoni che immigrati; ma è indispensabile che gli adulti, particolarmente i genitori di questa o quella etnia o cultura o religione si aprano a questo genere di atteggiamenti. c) Un’occasione favorevole è fornita anche dai giochi sociali fra bambine e bambini, fra ragazze e ragazzi di diversa etnia e religione. Questi giochi opportunamente scelti possono essere resi possibili sia a scuola dagli insegnanti che dai genitori delle differenti famiglie. Ma è chiaro che è indispensabile il superamento degli usi e costumi o meglio della mentalità più o meno tribale E’ un problema che riguarda gli adulti e la loro disponibilità ad abbracciare esperienze nuove e diverse da quelle della loro tradizione. d) A sostegno dell’affermazione e dello sviluppo di tali sentimenti l’insegnante può dare un suo grande contributo con l’esemplarità del suo modo di fare, cioè con quanto in pedagogia si dice a proposito dell’ “amore pedagogico”. Non si vuole qui farne una approfondita ed analitica disquisizione. Ci è sufficiente richiamare come nel metodo educativo, fin dal Rinascimento, si è chiesto all’educatore di operare con “amore”, con “amorevolezza”: modalità riconosciute rispettose del soggetto educando ed efficaci per evocare i suoi sentimenti. In merito giova ricordare per tutti Pestalozzi e don Bosco. Preliminari del concetto di cultura e della sua funzione nella vita umana (Dispensa) 1. - Verso una definizione di cultura. Per caratterizzare l’oggetto di questa scienza particolare che è l’antropologia, non Cultura è ciò che è distinto dalla natura, ossia ciò che è prodotto dall’uomo. Contrariamente all’animale, l’uomo non è chiuso nella sua struttura biologica. Il psichismo umano è malleabile e l’azione esercitata su di esso si accompagna ad una modificazione parallela degli elementi più vicini, che ne vengono coinvolti, come la costruzione di progetti, di mezzi e di impostazione di rapporti. basta caratterizzare la cultura come elaborazione di un gruppo umano che eccede la biologia. La cultura è trasmissibile e modificabile. Essa interessa, pertanto, l’educazione. All’educatore importa sapere che questo aspetto del psichismo umano, che s’era creduto naturale dell’ordine dell’istinto, è in effetti il risultato di una elaborazione sociale cristallizzata nella cultura (Cfr. Camilleri C., Antropologie culturelle et éducation. Paris, Unesco, Delachaux et Niestlé, 1985, p.9) Vari sono stati i tentativi di formulare una definizione della cultura che permettesse di identificare tutti gli oggetti culturali; ma, attraverso la enumerazione di una serie di categorie non si è riusciti a distinguere tra ciò che è culturale e ciò che non lo è. D’altra parte per questa via si perviene ad una concezione fissa e statica della cultura. Pare più produttivo rifarsi alla situazione concreta dell’individuo, il quale si rapporta ai significati più persistenti e condivisi tra i membri di un gruppo. In questo modo si può evidenziare come l’individuo concreto, portatore di cultura, si rapporta rispetto al modello globale. Del resto la modificabilità della cultura ci stimola a tener presente che l’individuo è sempre collocato in un insieme simbolico, in un universo di significati che si forma ed evolve per tutta le sua esistenza. Per cui possiamo dire che il culturale non costituisce che una parte e non la totalità di questo universo di significati. In una società poi a veloce trasformazione, come la nostra, diventa difficile distinguere tra i significati collettivi che rivelano del culturale e gli altri. Quanto diventa obsoleto rispetto a ciò che è “persistente e condiviso” si affaccia come problema di sociabilità. (Cfr. Ouellet F., L’éducation interculturelle., L’Harmattan, Paris,1991, pp.33-36). Lo stesso obsoleto soffre delle peculiarità del singolo, che nel caso dell’immigrazione, porta con sé sia una probabile relativa assuefazione al culturale persistente e condiviso, sia una costruzione di significati fatta sulla base della propria limitata elevazione intellettuale. Si vuol dire che in ogni singolo individuo la cultura in concreto diventa qualcosa di problematico, cioè di misto che si rincorre tra il “permanente e condiviso” della sua cultura ambientale, l’obsoleto innovativo come risposta alla sociabilità ed in fine l’indivuale modalità di recezione dei significati per ragione della propria elevazione intellettuale e del proprio carattere. Tutto questo discorso approda alla conclusione che, se si vuole capire la cultura di un soggetto occorre rifarsi alla peculiarità delle sue situazioni, cioè conoscere il suo pensiero e dialogare partendo dal concreto così come si presenta in ciascun soggetto. 2.-Cultura e formazione a) L’unità della cultura. La cultura non può essere se non unità e totalità, mentre il sapere costruito dall’uomo è sempre un sapere frammentario e molteplice, che non dà cultura, ma soltanto enciclopedismo e per di più di tipo quantitativo, (Cfr. Flores D’Arcais G., Cultura, in Nuovo Dizionario di pedagogia, Ed. Paoline, Roma, 1982). Tocca al singolo riportare ad unità e coerenza, cioè, potremo dire, ad una dinamica Weltanschauung, le sue conoscenze e le sue valutazioni. Considerato, poi, che il soggetto vive nel mondo culturale di oggi, cioè tra ”il permanente e condiviso”, l’obsoleto e la sua peculiare situazione di pensiero, si prospetta il rischio della possibile disgregazione tra i saperi all’interno dell’universo delle convinzioni per cui il soggetto vive un’esperienza disorientata o, in ogni caso, sfasata rispetto al bisogno di coerenza. E’ qui che ha da intervenire l’educazione, cioè l’offerta di aiuto per il conseguimento della criticità di sé con l’intento di rivisitare la propria situazione ed ordinarla nella coerenza. Questo si dice perché l’uomo di oggi è particolarmente e frequentemente esposto ad un insieme di informazioni, date in modo caotico; sia perché egli diviene facile bersaglio di suggestioni per il modo con cui le cose vengono presentate soprattutto dai mezzi di comunicazione; ed inoltre perché, di fronte ai nuovi problemi che la vita e la società gli pongono, rischia di essere terreno del primo occupante. b) La cultura in cammino. Inerendo essenzialmente alle persone, che in quanto tali sono sempre in divenire (sia nel pensiero che nelle azioni), la cultura è anch’essa in divenire, legata cioè, ai mutamenti che gli uomini mettono in essere o subiscono ogni giorno. Da qui la sua caratteristica di “dinamicità” dovuta alla complessità delle relazioni tra persone e tra gruppi. Tali relazioni complesse e dinamiche danno luogo a processi culturali, ossia a quell’agire che nel tempo e nello spazio esprime le proprie concezioni della realtà, offre schemi di vita, modalità di sentire e di pensare che scrivono il susseguirsi della storia e il differenziarsi delle esperienze. Da ciò si capisce come l’analisi e lo studio delle culture consentano la ricostruzione dei sistemi di “senso” comprendenti il complesso dei valori e delle credenze di un determinato tempo.(Cfr. Di Cristoforo Longo G., Identità e cultura. Edizioni Studium. Roma1993. Pp.11-13) Questi rilievi evidenziano che la cultura è sempre un prodotto dell’uomo, più o meno cosciente e libero ed è sempre la risposta ai problemi del tempo. Tuttavia ci interessa sapere se e in quale misura una comunità ed una singola persona possano sottrarsi a questa realtà sociologica della cultura. In altri termini ci interroghiamo se ed in quali termini l’educazione possa aiutare una comunità e un singolo individuo a costruirsi una cultura diversa. Qui il discorso si fa eminentemente pedagogico e merita un’altra sede per il suo chiarimento. Ci preme, tuttavia, affermare che la cultura sociologica non potrà spegnere la libertà del singolo, la sua creatività e, in una parola, la sua identità. c) La cultura per la propria persona e per la società. Ci domandiamo se la cultura è indispensabile per vivere e, dal momento che essa è un prodotto dell’uomo, qual è la sua funzione in ordine alla formazione della propria personalità. Innanzitutto la cultura serve a dare un senso alla propria vita. Ancora, quindi, prima di una ricerca del consenso sociale, occorre conseguire il senso della realizzazione di sé, che è la méta finale del processo formativo. Essa consiste nella estrinsecazione la più completa possibile, nel contesto della vita, delle potenzialità innate nell’individuo, nella unicità propria. Se noi ammettiamo l’esistenza di una tendenza innata alla realizzazione di sé, una forza istintiva che spinge l’individuo verso una sempre più completa espressione delle sue potenzialità latenti, riusciremo a comprendere molti fenomeni che altrimenti in psicologia potrebbero rimanere oscuri. L’unica implicazione che il concetto di autorealizzazione comporta è che in tutti gli uomini, qualunque sia la loro dotazione di base, è innata la possibilità di raggiungere una certa armonia e completezza interiore e di stabilire un rapporto soddisfacente tra se stessi e il mondo; e che ciò vale sia per i meno dotati che per i più dotati. Tuttavia, il concetto di autorealizzazione dev’essere stemprato dagli equivoci. L’autorealizzazione, intesa come méta da raggiungere non comporta che il processo del suo conseguimento sia autonomo, anche se non può avvenire senza l’attività propria del soggetto stesso.La realizzazione di sé include l’armonia e la completezza interiore ma anche il rapporto soddisfacente tra se stessi ed il mondo. La realizzazione di sé non può essere il fine dell’uomo in quanto non è compatibile con la sua esistenza sociale. E’ questo il punto di vista formulato da Bertrand Russel (Cfr. Storia della filosofia occidentale: “L’uomo non è un animale solitariotrasformazione. Luigi Secco Duccio Demetrio Implicazioni interculturali nella ricerca dell’interiorità pp.175 ss. In Aa.Vv. (a cura di A.Portera) L’educazione intercultrale in Italia e in Eruropa, Vita e Pensiero.Milano 2003 NB Da ricordare che il tema di fondo riguarda la ricerca dell’interiorità per vedere le implicazioni interculturali. Cioè non si parte dall’intercultura ma dall’interiorità. Oggi la P.I.tende “a mettere in evidenza ciò che -nella differenza- può accumunarci in quanto appartenenti all’ ‘umano’, più che al culturale e quindi alla diversità di origine” (p.175) Annoto: non è il discorso dei diritti umani da mettere alla base della p.i. quale traguardo da dover conseguire da parte di tutti. In che consiste questo umano? Sembra consistere in convincimenti personali su certe tematiche che ciascuno può avere preso in considerazione L’esperienza ci mostra: “La storia delle migrazioni internazionali è la storia di queste ‘colonie autogestite’ in terra straniera all’insegna della ricerca di una riaggregazione più che altro affettiva o di fede. Gravitante intorno a simboli (il cibo, la danza, il canto, ecc.) ora di rigenerazione, ora di carattere puramente narrativo, ora di resistenza e di mutuo aiuto. Si può affermare che tutto questo da sempre ha fatto parte della fisiologia degli spostamenti e dei radicamenti migratori e che, pertanto, immaginare un’accoglienza volta al dialogo tra mondi diversi che domandi a essi di agire il confronto con noi in situazione di perdita delle radici sarebbe quanto mai sbilanciato rispetto all’indubbia, impari, superiorità assimilatrice dei nostri contesti. Ne consegue che è la pedagogia interculturale acritica, sono i nostri idealismi a essere invitati a riflettere sulla realtà dei fatti, sui principi contenuti nei nostri libri, sui loro proclami alla reciprocità, sugli inviti accorati di apprendere gli uni dagli altri, a praticare la ‘filosofia del dono’. Tutto ciò, alla luce di quanto sta accadendo, può restare pura retorica, con gravi implicazioni per una pedagogia che intenda guardare alle fenomenologie sociali, economiche e psicologiche del migrare con maggiore prudenza e concretezza. Ma, a questo punto, dobbiamo porci una domanda. Può darsi una pedagogia interculturale meno attenta alle culture (all’implicita dimensione aggregativa e sociale) e più attenta all’individuo? Alle persone, ai soggetti nella loro specificità biografica di donne e uomini, soprattutto? Al di là delle difficoltà incontrate nella diffusione di un progetto come quello interculturale, non è quindi peregrino (anzi ciò ci sembra coraggioso e smaliziato) chiedersi se, alla base delle quanto mai buone intenzioni della proposta, non si debba oggi accettare la variazione di paradigma, una diversa concezione delle relazioni tra culture (177) Ciò può apparire un’ammissione di sconfitta, rinunciataria, una caduta di spessore ideale, anche se –forse- è proprio attorno al ‘valore individuo’ che è possibile far convergere tradizioni che ci appartengono e tradizioni che ne stanno scoprendo ora l’importanza e la consistenza politica nonché transculturale. (178) “Verso un neouniversalismo esistenziale” (178) La svolta interculturalista si sta indirizzando verso una prospettiva appunto transculturale che vuole prescindere dall’accentuazione delle differenze… a vantaggio di una messa al centro della categoria universale della valorizzazione…del soggetto che cerca…la sua strada. …Quante migliaia e migliaia di cittadini immigrati sono, infatti, loro stessi all’oscuro di tradizioni, forme d’arte, filosofie del loro paese natio in quanto entità nazionale…” …Rilanciare intertransculturalmente una versione della soggettività connessa con il rispetto dell’integrità fisica, morale, politica di ogni donna o uomo vuol dire dare un contributo alla lotta per l’emancipazione delle culture individuali dalle culture di appartenenza…”(178-179) “La svolta che che auspichiamo e che denominiamo ‘neouniversalismo esistenziale’ si prefigge di enucleare i grandi temi dell’esistenza (l’amore, la sofferenza, il diritto alla vita, il conflitto, il declino, ecc.) a prescindere dalla loro collocazione, letteralmente dalla loro declinazione locale; questa potrà essere ritrovata dopo uno sguardo a livello di ermeneutica della vita, che consente… di svelare il senso dell’esistenza, delle emozioni, delle storie umane, dell’intricata problematica del vivere…” (180) …”la scienza di sé”…”Il principio secondo il quale il conoscere se stessi sviluppa amore e pazienza verso l’estraneo, viene confermato da una miriade di testi sapienziali e oggi anche dalla psicologia clinica, dalla psicoanalisi e dalla pedagogia del ‘lavoro’ interiore” (184) ..Nell’umano ritrovato c’è la possibilità di capirsi (186). .A.Portera, Spunti e limiti della pedagogia interculturale In Ped.e Vita n.5 sett.-ott.1999 “Il concetto di pedagogia interculturale, pur godendo di vasta popolarità, specialmente nel mondo pedagogico, pur essendo discusso ormai da più di vent’anni e recepito in numerosi documenti nazionali ed europei di politica educativa, non può ancora essere veduto come consolidato” (p.73). “Numerosi pedagogisti esperti nel settore denunciano da tempo che la pedagogia interculturale manca di una chiara e condivisa definizione epistemologica, ed è ancora difficile identificare un oggetto di studio distinto, anche se collegato, della pedagogia generale”(p.74). L’importanza di concepire l’educazione interculturale sempre come umanistica: riferita all’uomo in quanto tale (e al suo valore ontologico) A.Portera, In La pedagogia intercultrale in Italia e in Europa (a cura di A.Portera ...”E’ proprio nella fase attuale, all’inizio del nuovo millennio, che si decide la sorte per l’approccio interculturale. In Europa, come in tutti i paesi industrializzati, solo se riuscirà a porre in adeguata discussione critica i concetti di cultura e di etnia, a considerare maggiormente opportunità e limiti della pedagogia interculturale;… solo se riuscirà a concepire una teoria dell’ educazione supportata da una sufficiente pratica educativa… si potrà assistere ad una rifioritura dei concetti pedagogici atti a far pronte alle molteplici sfide e alla trappole insite nella globalizzazione e nella complessità, tramutandole in reale opportunità di arricchimento per l’intera umanità” (p.23) |