Capitolo IV: L'istanza d'identità: la volontà personale
Il riscatto della volontà
Il riscatto della volontà appare doveroso ed urgente di fronte alle diverse interpretazioni, sovente tra loro contrastanti, che l'hanno "umiliata" negando di riconoscerla come capacità originaria dell'uomo dal punto di vista genetico e autonoma dal punto di vista operativo pratico. Il passaggio dalla esaltazione del suo potere fino a farne nell'epoca vittoriana la primaria ed esclusiva fonte del proprio valore, alla sua crisi profonda in virtù dell'abdicazione provocata dalla cultura delle correnti psicoanalitiche, che ha portato al permissivismo, come pure in virtù della sua concezione "sociale" propria della cultura marxista, che le ha tolto la libera iniziativa propria, collocandola nel tutto come unica realtà che le dà un senso e un compito, rende urgente il ripensamento al fine di ridare all'uomo il suo più alto prestigio, quello di tornare ad essere padrone di sé ed arbitro del suo destino.
Osserva R.Assagioli che col progresso scientifico e tecnologico, l'uomo riesce oggi a guidare a distanza i corpi creati per l'esplorazione dell'universo e a sprigionare e dominare energie di incalcolabile potenza; ma egli si ferma di fronte a se stesso; verso di sé l'uomo si presenta quasi impotente: incapace di gestire le sue emozioni, i suoi impulsi, i suoi desideri. Lo stacco tra poteri esterni e poteri interni appare la più importante e profonda causa dei mali individuali e sociali che affliggono la nostra civiltà e minacciano gravemente il nostro futuro (Assagioli R., op.cit., p.11; Rollo May, op.cit., p.180). Potremo ipotizzare un rimedio di tipo rousseauiano: prima ancora che nascesse e si sviluppasse la tecnologia moderna Rousseau reagì alle crescenti complicazioni ed alla artificiosità della civiltà del tempo, invitando l'uomo al ritorno alla natura. Quell'appello oggi potrebbe essere recepito come ritorno alla vita semplice, alla riduzione delle più complesse e pericolose tecnologie fino al rientro della loro dimensione a livello "umano". Si potrebbe pensare ad un riequilibrio del progresso tecnico in rapporto alla capacità di essere utilizzato a beneficio dell'uomo, sottraendolo quindi alla sua dominanza sull'uomo.
E' chiaro che si tratta di "uso" da parte dell'uomo perché egli se ne possa servire senza essere sopraffatto, reso schiavo e minacciato nella sua stessa esistenza. Non sarebbe un arretramento, ma una riduzione al passo: in fondo si tratta di riconoscere che la macchina riesce a comandare all'uomo quando essa corre e invecchia prima di lui. (Cfr. Prini P., Umanesimo programmatico. Armando. Roma. 1970, p.9)
Per giungere a tanto non basta n>è la contestazione critica (pur sempre verbalistica), né la fermezza della volontà di non lasciarsi sopraffare in un supremo sforzo di conservazione della propria libertà e identità. Occorre un intervento positivo di semplificazione operato con la forza delle proprie energie interiori, decise a liberarsi dai massimi pericoli di condizionamento. Occorre una volontà non tanto di salvaguardia di sé, quanto di conversione dei propri rapporti con la realtà. Affinché le facoltà interiori siano condotte ad affermare il loro primato. "Solo sviluppando le facoltà interiori l'uomo può allontanare i pericoli che derivano dall'aver perso il controllo delle grandiose forze naturali a sua disposizione ed essere divenuto vittima delle sue stesse conquiste" (Assagioli R., op.cit.,p.13)
Tra questi poteri interiori va riconosciuto un posto fondamentale alla volontà personale: si dice personale sia perché essa è in stretto collegamento con il centro del suo stesso essere, l'io, sia perché essa ha la funzione di decidere cosa si deve fare e a quali mezzi ricorrere per giungere ai risultati desiderati, nonostante tutti gli ostacoli e le difficoltà (Ib.) E' vero che un individuo da solo si trova a rispondere di sé e per sé, e non può molto nel sociale oggi così incombente; ma è anche vero che vale il discorso di Rousseau che per arrivare ai nuovi rapporti sociali occorre partire da Emilio, cioè dall'educazione di ciascuno. Se è in gioco l'umano, questo dovrà essere recuperato entro l'essenza stessa dell'uomo.
La riduzione della vita a forme più naturali non può avvenire che per volontà dell'uomo cioè col ricorso alle forze interiori: e questo è un riaffermare il primato dell'interiorità in rapporto al mondo. La vera riforma della società e delle sue strutture, anche fatta in omaggio alla celebrazione del valore dell'uomo come tale, non può che essere opera dell'uomo stesso.
La riconduzione del rapporto uomo-mondo alla relazione di condizione in luogo di condizionamento per consentire la padronanza sulla realtà avviene non solo per semplificazione del reale, ma anche e prima di tutto per potenziamento delle forze interiori individuali. L'uomo va posto in condizione di poter affermare i suoi valori personali ed educato al rapporto con l'altro (persone e cose) in ordine all'effettiva affermazione di quei valori. Occorre che ciascuno riesca a vivere entro condizioni di vita a misura d'uomo ed impegnare se stesso in tutto quanto non può che dipendere da lui.
Questo secondo aspetto, che peraltro si collega al primo, mette al riparo da ogni abdicazione e da ogni alienazione, e chiede al soggetto di diventare l'autore dei suoi atti e attore nella gestione della sua attività. Così egli dovrà essere educato a far leva sulle sue risorse sia nel momento genetico che nel momento operativo.
Il riferimento all'attività "voluta" e posta in essere ci richiama alla correlatività fra la fonte di quell'energia e l'attività stessa. Osserva G.Calò "Io e la volontà sono termini correlativi: l'io in tanto è, in quanto ha una capacità d'azione sua propria, che è il volere ed il volere non esiste che come attività distinta e autonoma dell'io: l'uno e l'altro si presuppongono a vicenda e crescono insieme; e si può dire che l'io è una costruzione progressiva del volere, come si può dire che il volere è potere di affermazione dell'io contro la forza, tendenzialmente disgregatrice, dei suoi singoli elementi" ( Enciclopedia Italiana di scienze, lettere e arti. Roma, 1929 ss. Vol35, p.599) La volontà non si deduce da altro: essa cresce su di sé con propria attività onde non si insegna a volere per altra via che attraverso l'esperienza del volere o più esattamente volere è una condizione per imparare a volere.
Il volere non è, dunque, risultante di combinazioni, necessaria risposta d'una parte vincente sull'altra. Se così fosse la volontà verrebbe portata a pronunciarsi in questa o quella direzione a seconda di un gioco di reazione le cui componenti possono essere intenzionalmente disposte. L'attività volitiva può essere prevista e, pertanto, preordinata secondo progetti che, mentre hanno l'esito sicuro dal punto di vista comportamentistico, deprivano il soggetto della libertà, inserendolo in un processo di condizionamento: l'agire diventa un reagire, senza spazio per la proattività e l'originalità (Cfr. Erikson E.H., Intrspezione e responsabilità. Armando Roma, 1968). Il sistema educativo che ne segue diventa un sistema strettamente scientifico ed applicativo. L'uomo oggetto di scienza nella componente più qualificante del suo essere, la volontà, potrà ottenere da sé quei comportamenti che desidera ordinandone le premesse. In un certo senso egli ne è il responsabile in quanto mette in movimento i meccanismi che sono destinati a produrre gli effetti desiderati (causa causae est causa causati); tuttavia determinando quanto può e deve dipendere dalla volontà a forze ad essa estranee, l'uomo perde la direzione personale fatta di coscienza e creatività, di ripensamento e di riordino. L'educatore sarà un programmatore, il quale, esperto nelle scienze umane, si avvale di loro, dalla psicologia alla sociologia, all'antropologia, alla medicina, ecc., per applicarle debitamente all'educando. La pedagogia diventa esclusivamente ricerca applicativa di varie discipline affinché portino ai risultati desiderati coi criteri del minor sforzo, del massimo rendimento e attraverso la via maggiormente indolore. La più avanzata di quest'ultima è la via della persuasione occulta o "teleguida" che induce l'uomo a reputarsi libero anche quando realmente non lo è.
Intendiamo, dunque, ritornare a parlare di volontà "libera", ma ciò non significa che essa debba agire senza l'apporto di strumenti e sussidi che sono destinati a fornire il materiale per elaborare la decisione.
Volontà, carattere e coscienza
In effetti la volontà come tendenza rivolta ad un fine implica almeno una iniziale coscienza del fine, coscienza che si chiarisce progressivamente per cui la volontà diventa intelligente. La primordiale sua attività è quella di prendere coscienza dell'agitarsi di sentimenti, tendenze, istinti da cui essa si distingue e si può separare sostituendosi all'azione prima, impulsiva, parziale, centrifuga, determinata dall'energia d'impulso di cui ciascuno è fornito. Cosicché l'attività volontaria è in stretta connessione col sorgere della consapevolezza di disporre di un potere proprio, che però va adoperato con l'intelligenza che l'uso arbitrale esige affinché l'attività sia in direzione costruttiva, che in ogni caso non si riduce all'atteggiamento sentenziatorio (sarebbe solo intellettualistico ed operativamente inefficace) in favore di una delle forze in contrasto. Essa penetra nel tessuto dei sentimenti e delle tendenze originarie, ne sceglie alcuni e ne lascia altri, ne combatte alcuni appoggiandosi ad altri, sposta l'equilibrio e le proporzioni inibendo e incoraggiando pur senza distruggere il substrato originario dell'individualità. In questo senso si esige la conoscenza di sé e del proprio carattere (Calò G., Corso di pedagogia. La Scuola, Brescia, 1969, vol. I, pp.87-89).
La conoscenza di sé è la ricerca destinata a farsi una buona immagine di sé, la quale, appunto, è buona perché veritiera ossia libera da sovrastrutture e condizionamenti di ogni genere, oltre che di "vedersi bene", di proiettarsi meglio nel futuro con tutte le proprie forze per realizzare se stesso. Questa protezione della propria autentica identità va sottoposta a continuo controllo per garantire il corso della propria formazione. Assagioli suggerisce di ricorrere alla prova della "disidentificazione e autoidentificazione"( Assagioli R., op .cit., p.156) Egli osserva che noi siamo dominati da tutto ciò in cui il nostro io si identifica e possiamo dominare, dirigere ed utilizzare tutto ciò da cui ci disidentifichiamo.
Per cogliere la purezza della coscienza di sé come individuo distinto, non nel senso di essere egocentricamente e perfino nevroticamente centrato su se stesso, ma nel senso puramente psicologico, occorre non confondere l'io con i contenuto della coscienza. Il continuo affluire di influssi vela la chiarezza della coscienza e produce delle false identificazioni dell'io con il contenuto della coscienza, invece che con la coscienza stessa.
Sovente ci si identifica con una parte di noi stessi. C'è chi si identifica col proprio corpo e spesso parla di sé principalmente in termini di sensazioni. Altri si identificano con i propri sentimenti e concentrano l'attenzione sui propri sentimenti ed affetti. Coloro che si identificano con la mente sono portati a descriversi con costruzioni intellettuali. Molti si identificano con un ruolo e fanno esperienza di sé in termini di quel ruolo, come per esempio madre, marito, moglie, uomo d'affari, insegnante.
Questa identificazione con una sola parte della nostra personalità può soddisfare temporaneamente, ma ha gravi inconvenienti. Ci impedisce di realizzare l'esperienza dell'io, il senso profondo di autoidentificazione, di sapere chi siamo.
Identificarsi continuamente con un ruolo o con una funzione predominante, porta spesso, e quasi inevitabilmente, ad una precaria situazione di vita che prima o poi si traduce in un senso di perdita, perfino di disperazione, come nel caso dell'atleta che diventa vecchio e perde la sua forza fisica; dell'attrice la cui bellezza fisica sfiorisce; della madre che rimane sola quando i figli sono cresciuti. Attaccarsi disperatamente alla vecchia "identità" in declino non serve a niente; la soluzione vera può essere solo una rinascita; entrare, cioè, in una identificazione nuova e più ampia. Spesso questo processo ha luogo senza una chiara comprensione del suo significato e non di rado contro il desiderio e la volontà dell'individuo coinvolto. Ma una collaborazione volontaria, cosciente e deliberata può far molto per facilitarlo, favorirlo ed accelerarlo. Il modo migliore di farlo è un esercizio deliberato di disidentificazione e autoidentificazione,ì. Per mezzo di questo esercizio otteniamo la libertà e il potere di scelta per identificarci "con", o disidentificarci "da", ogni aspetto della nostra personalità secondo ciò che sembra più opportuno in ogni situazione. Possiamo così imparare a dominare, dirigere ed utilizzare tutti gli elementi e gli aspetti della nostra personalità, in una sintesi armonica ed inclusiva (Ib.,p.158)
L'individuo si identifica come un centro di volontà capace di osservare, dirige ed usare tutti i processi psicologici e le energie fisiche.
L'essenza dell'individuo lo obbliga ad essere un centro di autocoscienza in funzione della permanenza rispetto al flusso mutevole della vita personale. "Io affermo la mia identità con questo centro e ne riconosco la permanenza e l'energia" (Ib.,p.160)
Commentando la posizione di Assagioli potremo dire che la disidentificazione come tentativo di liberazione può servire a correggere le identificazioni errate e quindi alienanti; ma non possiamo ignorare o sottovalutare l'importanza di farsi un'immagine di sé migliore nella concretezza delle situazioni e del vissuto: l'uomo è spirito incarnato e storicizzato. Ciò non toglie che un tipo di riflessione valutativa di sé, facendo scoprire la relatività di determinate esperienze vissute o da viversi, consenta la ricerca di ciò che è più confacente alla costruzione di un sé migliore. In ogni caso la volontà di essere se stesso e di realizzarsi nelle varie fasi e situazioni della vita in consonanza con la propria identità, richiede lo spirito critico e l'apertura creativa. Il voler essere se stessi nel flusso delle esperienze è fondamentale per non vivere guidati dai condizionamenti di qualsiasi provenienza. Anche per questa via si riconferma che il volere non è problema di forza ma di coerenza: educare la volontà non significa fare l'individuo tenace, ma in grado di realizzare ed esprimere se stesso congruentemente con la sua identità.
L'atto compiuto lascia qualcosa di inscritto nella persona che lo compie, come una permanenza, che entra a costruire sull'identità del soggetto la storia del suo autentico o inautentico farsi. Non è indifferente fare questa o quella esperienza in ordine alla realizzazione di sé per ragione della propria identità. Volere realizzare se stessi significa, dunque, orientare la scelta delle esperienze in termini di congruenza con la propria identità.
La prima risorsa per la formazione personale è costituita dalle forze che sono nello stesso individuo. Per affermarsi, la volontà non è necessitata a negare i sentimenti, le emozioni, le tendenze: non agisce attraverso un irriducibile conflitto. Essa va orientata a muoversi traendo profitto da tutte le risorse personali sia naturali che acquisite; da qui deriva l'invito a conoscere bene se stesso perché ciascuno ha i diritto inviolabile di fronte all'azione educativa di diventare sempre più e sempre meglio se stesso: è il diritto alla forma di vita corrispondente al proprio modo particolare.
In questo senso si deve parlare di volontà di sé (che non è far da sé), perché l'uomo nient'altro può meglio essere che se stesso.. Conoscersi, accettarsi, adoperarsi sono impegni fondamentali di una volontà intelligente. Occorre dunque promuovere la riflessione per un coerente impegno che non sradichi dalla fedeltà a se stesso. Viene riconosciuto alla "volontà di sé" il primato nella strutturazione della personalità. "Scegliendo sé, la persona affronta direttamente la principale responsabilità: condotta e azione dipenderanno dalle disposizioni personali continuamente rinnovate e perfezionate dalla libera attenzione della volontà sulla traccia delle approfondite convinzioni della coscienza"(Peretti M., Educazione e carattere. La Scuola, Brescia 1976, p.115). "Volere sé" e non poter volere che sé anche nella articolazione delle più complesse relazioni, fino alle più lontane dal centro dell'io, offre alla volontà il fine del suo impegno e contemporaneamente la forza connettiva nel cammino perfettivo del sé. Il sé è il punto focale della volontà, da cui essa attinge per muoversi e a cui si riferisce per orientarsi.
Il "conosci te stesso", quale primo impegno pratico in ordine all'itinerario formativo della personalità ed espressivo della singolarità individuale innerva nel carattere, ovviamente presuppone il convincimento del valore che ad esso (il sé) si attribuisce. Intelligenza e volontà si rapportano a lui in coordinata prospettiva: occorre riandare ad esso il più profondamente possibile: è un'azione di ritrovamento, affidata alla "ri-flessione". In quanto ripiegamento è separazione dall'altro da sé, un volersi nella libertà per ritrovarsi nella autenticità personale; in quanto ritrovamento di sé è verifica di risorse ed attese in vista di un esercizio più cosciente, originale e creativo della propria libertà.
Quella riflessione dell'intelligenza richiesta dalla volontà conduce alla fonte delle originali qualità restituendo alla volontà di sé tutta la forza e la purezza che vengono dall'amore di sé. Il ritorno alla forza originaria dell'amore di sé è il sostegno migliore al volere: l'amore impegna; impegna ad orientare correttamente la propria condotta anche di fronte alle scelte che implicano rinunce piuttosto aspre: amor vincit omnia.
Rendere operosa la natura individuale non significa precludersi la creatività, ma piuttosto garantirla facendo leva sul carattere personale. Ciò è vero anche nei casi in sui occorre donarsi agli altri in quanto un generoso altruismo è valutato come vero bene proprio. E' importante rilevare che l'amore, il quale si traduce in volontà di bene sia per sé che per glia altri, è sempre un creare; è un "ricevere" in termini di avvaloramento di sé. "In vista del bene proprio e altrui, le eventuali rinunce valgono, soprattutto, per il loro significato positivo, e si decantano da ogni sospetto o accusa di mortificazione della vita: rinunciare a un piacere, a una cosa utile, a un divertimento, in cambio del bene di qualcuno è un vantaggio conforme a quella economia della offerta, che regola tutti gli aspetti del 'movimento di personalizzazione'" (Ib., p.57).
L'economia dell'offerta, al contrario della chiusura, consiste nell'esplicazione delle funzioni dinamiche in ordine alla migliore forma di vita propria. Ora quel dinamismo è proteso verso gli incontri, il dialogo, l'integrazione reciproca: il "sé" si arricchisce sempre più e sempre meglio nel donarsi in uno slancio fatto di coerenza verso di sé e di libero ma fattivo contributo nell'incontro con l'altro. Da una parte abbiamo la fedeltà a sé che esige donazione e dall'altra la donazione che arricchisce il sé per quanto riesce a fare. Appare chiaro che il vero bene personale corrisponde alla promozione del bene altrui. ""Beatius est magis dare quam accipere" è la traduzione psicologica in termini fenomenologici della connaturalità e connessione tra il bene altrui e quello proprio. E' questa volontà di bene verso l'altro che l'educazione dovrà promuovere e sostenere perché essa toglie il soggetto da quell'egocentrismo che, per salvaguardare l'identità propria, separa dal consorzio umano (quotiescumque inter homines fui, minor homo redii).
Interagendo con gli altri ed agendo per gli altri, si conferma la "volontà di sé" come "volontà di ogni sé"; cioè gli uomini diventano sempre meglio se stessi nella misura in cui sanno essere gli uni per gli altri. "Volere sé" s'identifica nell'incontro con tutti gli uomini in reciproco sostegno: è la solidarietà tra persone che si vogliono e volendosi si amano e amandosi si migliorano. La scaturigine della volontà è l'amore di sé in questa dimensione che diventa la nuova prospettiva di amore universale. Cosicché la volontà si educa quando il soggetto si apre all'amore universale.
In questa prospettiva si chiarisce il significato di volontà che viene interpretata come fatta per il bene nella più ampia dimensione di bene proprio e bene altrui; viene esclusa la volontà come connaturalmente rivolta contro di sé o contro gli altri; qualora di fatto si verificasse, debbono essere date altre spiegazioni, ma in ogni caso si tratta di deviazioni verso forme per cui non si è fatti. E' evidente che l'odio verso chicchessia non rientra nella logica delle propensioni propriamente umane e specificamente della volontà. Cosicché occorre educare presto alla benevolenza, alla comprensione tra uomini, a qualunque razza o colore appartengano. Occorre educare alla accettazione al di sopra e contro ogni rifiuto ed emarginazione. Quando vengono suscitati ed incoraggiati i sentimenti di benevolenza fin da bambino, l'uomo si dispone all'impegno, all'apertura, allo sviluppo delle sue più autentiche energie. "Volere l'altro" è un crescere verso qualcosa di più, è allargare le fonti di bene del proprio essere.
Per questa via l'esplicazione delle risorse personali, in un fecondo incontro di dedizione arricchente, colloca il soggetto in posizione di protagonista della continua ristrutturazione della propria personalità sulla base dei contributi che va raccogliendo. L'originalità è tale non per la sua staticità, ma per la assunzione di nuove abilità, per la prospettazione di nuovi ideali. Non si tratta di adattamento o di conformismo, ma di fedeltà ad esigenze vitali anche nella modifica degli atteggiamenti che apportano condizioni nuove. E' il criterio della creatività che, richiesto dalla natura della personale singolarità, cammina col reale e con esso interagisce nel costruire la personalità sempre più nuova e rinnovata, ma mai definitivamente compiuta nel suo slancio di donazione nell'interazione.
Il "volere l'altro" non è una riduzione dell'altro a sé: sarebbe un dominio, un asservimento che implica presunzione di una compiuta eccellenza propria, tale da giustificare l'antagonismo verso l'altro e la pretesa del suo possesso. Quando prevale la "volontà di potenza", che è volontà di prevaricazione, la persona sperimenta la sterilità, a causa dell'isolamento delle forze dinamiche di relazione, private dell'apporto dell'altro termine del dialogo. Il rapporto con l'altro cercato solo per imporre la propria volontà devia la connaturale "volontà di sé", "di ciascun sé", verso l'egoismo più individualista. Esso spiega le alterazioni nel cattivo uso della libertà: l'egoismo ed il rifiuto dell'altro.
Volontà e libertà
Se l'uomo è fatto per volere il bene e se la libertà è per il bene, ciò non toglie che l'uomo possa abusarne riconfermando anche per questa via che il buono o cattivo uso della libertà dipende da lui. Non vi è alcun male necessario: tutto lo spazio della libertà diventa anche prospettiva di educazione, la quale può e deve prima rivolgersi all'arbitro da cui tutto dipende, cioè la volontà. In questo senso educare la volontà significa e comporta richiamarla alla sua vocazione di bene anche se diventa difficile educare alla libertà rispettando la libertà, soprattutto se non si voglia risolvere l'educazione in interventi intellettualistici. Il primo stimolo va dato in ordine all'esperienza dell'amore, proprio seguendo le esigenze della volontà di essere fatta per "voler bene". La stessa terminologia "voler bene" usata nel significato di amare, rivela chiaramente come sede dell'amore la volontà e dell'amore ne fa una questione di volontà, facendo intendere con questo che il volere è propriamente amare e che noi possiamo amare chi vogliamo, quando vogliamo e come vogliamo. E' la natura dell'amore l'essere libero. Un atto di amore necessitato o forzato perderebbe il suo vigore più autentico rimanendone snaturato. Educare all'amore è educare all'uso della libertà cioè a quella relazione di sé con l'altro che ha come termine preciso la persona. Impropriamente si amano le cose: quelle piacciono, di quelle ci si può servire; solo la persona va ammirata, stimata per sé e ricercata come termine di un incontro dialogico fatto non di appropriazione ma di dedizione. Solo la dedizione lascia libero l'altro ed è possibile da parte di chi non si sente dominato da sentimenti di cieca o istintiva passione: occorre non confondere questa con l'amore.
Non stiamo dicendo cose nuove: c'è tutta una letteratura ampia ed approfondita in merito (Nedoncelle M., Verso una filosofia dell'amore e della persona. Ed,Paoline, Roma. 1959), ma siamo riandati al discorso di base che ci orienta nella metodologia dell'educazione della volontà come educazione alla libertà, al dono di sé ed al suo apprendimento nella prima età attraverso l'esperienza dell'essere amato e avviato alla dedizione fatta di dominio di sé e di obbedienza.
La nascita della volontà
Finché il bambino piccolo cerca il piacere e da questo si lascia guidare, la sua volontà non è certo matura. Anche se le sue azioni sono senza incertezza, egli è dominato da impulsi e attrattive a cui non è in grado di resistere per mancanza di alternative. Quando, invece, comincia a disporre di possibilità di scelta, la volontà personale fa la sua prima comparsa. Essa è al suo primo gradino rispetto a quella maturità che solo gradualmente ed a certe condizioni potrà essere raggiunta.
Il suo inizio si presenta con il "no", che il bambino in tenera età non è in grado di dire, ma esprime col suo corpo. Ad esempio, quando non vuol rispettare le regole di igiene o non accetta i tempi e i luoghi designati per questa o quella attività. Quando dirà "sì" alla madre e "no" a se stesso, la sua soddisfazione si sposterà su un altro piano.
Può sembrare una contraddizione in termini che i primi atti di volontà effettiva non siano vere e proprie scelte, ma atti di obbedienza, di sottomissione alla volontà altrui, o quanto meno di ricerca di approvazione. Tuttavia è inevitabile che la capacità di scelta, la quale nella vita andrà ampliandosi, non possa essere esercitata indipendentemente dagli altri. Volere, nelle prime fasi di sviluppo, significa volere ciò che gli altri vogliono. Il bambino impara a "scegliere" secondo il volere della madre e degli altri adulti che vivono interno a lui. La mamma sottintende in modo tacito e benevolo che quanto esige dal bambino è un no al suo corpo, non già al suo io. Il sé del bambino non è ancora maturo ed è proprio in virtù di quel "no" che maturerà più rapidamente (Arieti S., op.cit., p.11). Il bambino mira semplicemente a far piacere alla madre, o quanto meno, a suscitare in lei atteggiamenti di accoglienza e di benevolenza nei propri riguardi.
Dal punto di vista pratico, la cosa non è facile poiché le esigenze del bambino sono varie e complesse. Il suo bisogno di accoglienza e di affetto, si mescola continuamente con altri bisogni e essenziali e non essenziali. Il fatto che la madre e gli adulti si occupino di lui mette alla prova l'adulto chiamato a giudicare sulla natura dei bisogni e conseguentemente sul comportamento da assumere. Il bambino che alle volte viene soddisfatto ed altre no, dura fatica a passare dal principio del piacere al principio della realtà come regola di condotta. Egli è abbastanza ragionevole da intuire il significato del comportamento del genitore nei suoi riguardi. E' compito dell'educatore soddisfare le esigenze autentiche e non appagare quelle inautentiche; ma quando questo non avviene in modo corretto, causa nel bambino atteggiamenti volitivi diversi, ma sempre negativi sul piano educativo.
Quando il bambino si accorge che può "intenzionalmente" ottenere il soddisfacimento di tutti i suoi desideri per mezzo dei suoi genitori ricorrendo all'eccitazione generale, al pianto, alle grida, fa emergere il primo senso di causalità e di dipendenza esecutiva. La sua volontà si fortifica e si fa "onnipotente": i genitori, completamente al servizio del bambino, non applicano nessuna disciplina ed il bambino, a causa della sua immaturità conoscitiva, è incapace di rendersi conto del significato e dei motivi di tale atteggiamento e spontaneamente li attribuisce alla forza del suo volere poiché ogni volta che grida o piange i grandi lo accontentano. Quando si renderà conto delle sue incapacità a fare da sé, rafforzerà ulteriormente il suo senso di onnipotenza. Se debole com'è. Gli altri sono obbligati a servirlo, è perché la sua volontà è onnipotente (Luitte G., Lo sviluppo della personalità. PAS-Verlag, Zuerich 1963, p.15).
Appena i genitori si fanno esigenti imponendo delle regole di condotta per la pulizia, per il modo di mangiare ed altro, il bambino deve ammettere che la sua volontà non è illimitata e questo provoca crisi. Il bambino non accetta senza resistenza di perdere il suo potere di monarca assoluto; anzi, davanti alla minaccia di perderlo lo afferma con maggior vigore e passione. Questo spiegherebbe il negativismo che si incontra verso i due anni e mezzo.
Quando il bambino si rende conto che deve dipendere dai suoi genitori non solo sotto l'aspetto esecutivo, ma anche di quello volitivo, si presentano diverse situazioni, la più proficua delle quali sta nel cambiare le basi sulle quali si fonda la stima di sé, "satellizzandosi" (Il termine è di D.P.Ausubel, il quale articola il discorso della "satellizzazione " e "de-satellizzazione" in rapporto agli atteggiamenti dei genitori. Cfr. Ausubel D.P., Theory and Problems of Child Developement. New York. Grune and Stratton, 1958, pp.284-287; Id.. Ego Developement and the Personality Disorders. New York, Grune and Stratton, 1952, pp.131-142) attorno ai genitori, cioè accettando nei loro riguardi un ruolo subordinato di dipendenza volitiva (Lutte G.,op.cit.,p16) Egli comincia a stimare se stesso non per ciò che può fare in base al suo volere, ma perché è accettato, valutato dai suoi genitori.
Il bambino ha bisogno di essere accettato incondizionatamente e valorizzato per se stesso indipendentemente dalle sue capacità, in quanto ciò ingenera in lui la sicurezza della benevolenza gratuita dei suoi genitori. Se questo non è sicuro, egli non può correre il rischio di rinunciare alla sua indipendenza volitiva. I bambini non accettati dai loro genitori o non valutati per se stessi a causa delle ambizioni frustrate dei genitori, non pongono loro la sicurezza e la stima di sé nella dipendenza dai genitori. In tal caso l'io non si può organizzare che sulla base della indipendenza e sulle sue capacità individuali. Bisognerebbe che il livello di aspirazione scendesse alla misura delle capacità reali della sua età; ma ciò è troppo traumatizzante perché comporta svalutazione e sconfitta: egli tenterà disperatamente di conservare il livello di aspirazioni al grado di onnipotenza infantile. Se anche esternamente obbedirà, egli non rinuncia alla sua onnipotenza.
Appare chiaro che i genitori debbono trattare il bambino in modo da portarlo alla accettazione della "dura legge della dipendenza" da loro e dai loro ordini. E' la conquista di qualcosa che sta fuori di sé come maggiormente valido per sé, anche se costa sacrificio. Comincia l'esperienza che porta ad uscire da motivazioni di tipo egoistico, che apre ad orizzonti verso scopi meno immediati e sempre più lontani, che abilita responsabilità morali sempre maggiori (Ib.,p.17).
Il cammino è lento e progressivo, non solo per le limitate possibilità del bambino, ma anche perché la scoperta dei valori, cioè di ciò che si raccomanda da sé, richiede tempo, conoscenza e forza morale. Il discorso si collega con l'educazione morale, la quale richiede una ragionevole dipendenza dai valori. Volere ciò che si deve o quello che è meglio, rappresenterà il traguardo della formazione della volontà
L'obbedienza
Dal discorso fin qui fatto che il passaggio da una volontà onnipotente ad una volontà dipendente è un evento educativo legato alla rinuncia del piacere immediato, al tipo di rapporto interpersonale (madre-figlio, adulto-bambino), ed alla scoperta che la dipendenza conduce a buoni risultati. Attorno a questi elementi gira tutto il problema della educazione della volontà nel momento importante del suo primo presentarsi in forma "umana", cioè qualificante eticamente la condotta. Ma quello che più conta rilevare è che sono queste le sole valide condizioni perché la volontà "personale" affiori e si affermi avviandosi per un cammino che consente all'identità propria di emergere, di affrancarsi dai condizionamenti e di presentarsi all'incontro con le varie esperienze della vita facendo valere il suo diritto primario rispetto ad ogni altra scelta, di scegliere ciò che è consono alla sua identità ed al suo cammino di creatività.
Quando l'adulto "impone" al bambino la sua volontà, in modo paradossale gli insegna a volere con la sua volontà. L'atteggiamento imperativo dell'adulto che effettivamente "sceglie" per il bambino, perché e affinché, perché e finché egli non sa scegliere il meglio per sé e lo induce all'accettazione, dovrà offrire al bambino tutte quelle soddisfazioni che sono atte a compensare la frustrazione: accoglienza, affetto, sorriso, incoraggiamento, fiducia, tenerezza, presenza. Il bambino dovrà sentir fortificare la sua personalità dalla ricchezza dei nuovi risultati, il primo dei quali è l'affiorare della nuova sicurezza nelle sue possibilità di superare l'immediatezza, nell'avere rapporti di reciprocità con gli adulti e nel conseguire nuove possibilità con la sua attività più socializzata. In questo senso il negativismo dapprima con la sua ostinatezza, poi con la sua orientazione in positivo costituisce un utile substrato per l'affermazione della propria individualità ed autonomia, ma il successo dipende dalla capacità dell'adulto di intervenire con proposte valide e rispondenti al carattere del bambino. In questi termini l'obbedienza è la condizione della riuscita sul piano di un autonomia sempre maggiore.
Crescendo abbandonerà il concetto che quanto accade dipende dagli altri. Tuttavia va ricordato che l'immagine che si formerà di se stesso dipende in parte dal modo con cui gli altri interpretano le sue azioni. "Se si comporta bene, otterrà approvazione, tenerezza, affetto ed amore; in caso contrario otterrà disapprovazione, freddezza, rimproveri, collera. In pratica, il bambino riterrà buone le azioni che suscitano approvazione, e cattive quelle che suscitano disapprovazione. Fra azioni buone e cattive e approvazione e disapprovazione degli altri si instaura così un processo circolare che, pur insostenibile dal punto di vista logico, costituisce il principio della formazione dei valori. Il bambino capisce ben presto che il modo migliore per ottenere amore e approvazione è quello di imitare i genitori, obbedire loro. L'obbedienza è il prezzo da pagare per l'amore della mamma, ma apre anche le porte del mondo; il vantaggio è immediato, anche se ciò che comporta (essere pulito, silenzioso, docile) richiede privazione, limitazione della spontaneità ed abbandono di molti residui di negativismo. Il bambino ha un bisogno estremo dell'amore materno. Inoltre, l'obbedienza non soltanto gli mostra che i risultati sono buoni ma, ciò che più conta, contribuisce alla formazione del bambino di una soddisfacente immagine di sé. Non è esatto pensare che il bambino consideri l'amore della madre incondizionato, vale a
dire dato senza che sia richiesto un prezzo. Ciò è senz'altro vero nei primissimi mesi di vita, se la madre è una persona normale. Però ogni madre ben presto pretende qualcosa dal suo bambino. Sebbene sia abbastanza facile soddisfare le richieste della madre, essa è sempre disposta a perdonare in caso di disobbedienza (Arieti S., op.cit.,p.20).
La responsabilità
Proprio perché il discorso fatto porta a focalizzare l'attenzione sull'autonomia che il bambino andrà progressivamente conquistando nella misura in cui è capace di portarsi sul piano dei valori, dapprima con l'aiuto degli adulti-educatori, poi da solo, l'obbedienza non potrà essere "cieca" ma illuminata da quei valori che imporranno anche la disobbedienza a chi li nega. La sua volontà di bene gli imporrà che per rimanere fedele a se stesso alle volte dovrà obbedire e a volte disobbedire. Saranno tensioni e scontri vivi quanto da una parte matura il senso di responsabilità e dall'altra si instaura un'indebita ingerenza comunque giustificata: presunta incapacità dell'educando, bisogni di volersi rifare sul figlio o sullo scolaro di frustrazioni proprie, egemonia ideologica coercitiva della libertà di pensiero e di scelta.
E' vero che nella fase iniziale il senso di responsabilità si acquista e si esprime nell'obbedire ai genitori e agli adulti-educatori; ma è anche vero che con l'età il bambino impara a fare da solo diverse cose e le impara non in quanto le ripete (abitudine) ma in quanto prevede gli effetti delle sue azioni e le sceglie in rapporto a quegli effetti. Così la responsabilità si va nutrendo di motivazioni personali e non più tutte e sole dedotte dal genitore o dall'adulto-educatore. La responsabilità matura col passaggio della qualità della motivazione (dall'educatore al soggetto) che comporta indipendenza dall'adulto e dipendenza da sé o più esattamente da quanto il soggetto trova di dover far proprio. E' un passaggio alla diretta dipendenza dai valori, dai doveri, dai legami con sé, con la società, con l'etica senza la mediazione, che era indispensabile nel tempo della immaturità o della relativa maturità precedente.